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domenica 2 agosto 2009

Il libro del giorno: L' arte di essere povero di Boniface de Castellane, 2009, Excelsior 1881 (collana Impronte)

"Il mio divorzio fu emesso il 5 novembre, alle cinque della sera". Così inizia quella che, oltre a una testimonianza avvincente, può essere letta come manuale scritto da un autentico intenditore, oggi venerato anche in Internet. Il matrimonio con l'ereditiera americana Anna Gould aveva reso Boni de Castellane "Re di Parigi". I sontuosissimi parties, spesso in maschera, con cui animava le serate parigine sono rimasti nella storia. Affollati della crème della società, con il conte di Montesquiou, Marcel Proust, Sarah Bernhardt, la Duse, d'Annunzio, l'allora giovane Jean Cocteau e pure Oscar Wilde. Tutti volevano essere suoi ospiti. Finché la moglie, indispettita dalle spese (e dai tradimenti), presentò istanza di divorzio e Boni, abbandonato da tutti, finì a doversela vedere coi creditori e con la buona società che ora gli voltava le spalle. Ma seppure difficile, la sua nuova, lunga vita "da povero", non fu però da meno di quella precedente. Perduti lussi e limousine, Boni restò con qualche abito e i mezzi pubblici, ma riuscì nell'impresa di rimanere sempre fedele a se stesso. E conservando il suo spiccato senso dell'umorismo, poco prima di morire, decise di raccontare "L'arte di essere povero".

"Boniface de Castellane è una leggenda nella Parigi della Bella Epoque, la sua vita il tripudio dello chic"

di M.G.L. tratto da Io Donna del Corriere della Sera n.31 del 1/09/09 p. 33

L' arte di essere povero di Boniface de Castellane, 2009, Excelsior 1881 (collana Impronte)

casa editrice Excelsior 1881: http://www.excelsior1881.eu/

Rovatti, P.A., La filosofia può curare?, Milano, Raffaello Cortina. Di Mimmo Pesare

In un fascicolo monografico dedicato ai temi del “del tutto nuovo”, non può non mancare, tra le segnalazioni di libri pubblicati negli ultimi mesi, la recensione di un volume sulle cosiddette pratiche filosofiche e in particolare sulla consulenza filosofica, che nel panorama delle novità disciplinari (ammesso che di disciplina si possa parlare) costituisce appunto una novità, i cui contenuti e il cui statuto si stanno ritagliando sempre più spazio nel dibattito internazionale. Dell’ordinamento teorico della consulenza filosofica se ne è parlato già nel numero precedente del Quaderno, a proposito della monografia di Umberto Galimberti (La casa di psiche, Feltrinelli, 2005), all’interno della cui recensione si diceva, appunto, della sua progressiva affermazione quale esercizio del dialogo e della saggezza che individuano nel sapere del filosofo la pratica di una foucaultiana cura del sé che nulla ha a che vedere con la cura psicopatologica. Nel frattempo i segnali della fortuna di questo tipo di studi si sono moltiplicati: l’editore Apogeo (Milano) dedica gran parte della sua produzione alla saggistica italiana e internazionale sulla consulenza filosofica, passando velocemente e prepotentemente da casa editrice di nicchia a una delle più presenti nei ripiani delle librerie italiane; e una definitiva consacrazione di queste tematiche all’interno del palinsesto scientifico degli addetti ai lavori è avvenuta proprio un paio di mesi fa, quando Aut Aut, la rivista filosofica fondata da Enzo Paci, che raccoglie ancora oggi le firme del gotha del pensiero occidentale, ha interamente dedicato l’ultimo numero (332) proprio alla discussione sul counselling filosofico. In questa cornice, quindi, non stupisce che il libro in questione porti la firma di un altro grande nome della filosofia italiana, l’ex “debolista” Pier Aldo Rovatti, e che il pamphlet sia stato pubblicato dall’Editore Raffaello Cortina, come ulteriore corroborazione dell’urgente attualità del dibattito in questione.
Diciamo subito che la scrittura di Rovatti non entra esclusivamente nel merito dei contenuti scientifici di tale pratica, come invece succedeva nel saggio di Galimberti, che offriva una ampia e puntuale rassegna dei tropoi e delle ancillarità che la consulenza filosofica riconosce al sapere umanistico e dei punti di differenziazione con la clinica delle psicoterapie. Il pamphlet di Rovatti potrebbe esser meglio definito all’interno di quella tipologia editoriale che in passato si suoleva definire “saggio di costume”, in quanto, alle riflessioni che entrano esplicitamente nel merito dello statuto disciplinare del counselling, si unisce l’arguta mise en place dello stato dell’arte dei corsi di Laurea di Filosofia, oggi, e il sarcasmo, molto più che legittimo, nei confronti dei meccanismi di strozzamento delle carriere dell’aspirante insegnante di filosofia e di baronato e cooptazione dei percorsi di immissione al ruolo all’interno delle lobbies accademiche.
Il titolo del saggio è programmaticamente interlocutorio: alla domanda la filosofia può curare?, la risposta dell’autore è, senza mezzi termini, “dipende da cosa si intende per cura”. La faccenda della concettualizzazione del termine cura è infatti centrale per Rovatti, secondo il quale siamo immersi e andiamo sempre più immergendoci in una cultura terapeutica che dal mondo angloamericano si sta estendendo pervicacemente anche al modo di sentire di una Europa sempre più malsicura e spaesata, in cui si sta cristallizzando la sindrome, tutta statunitense, della proliferazione delle pratiche più variegate di assistenza psicologica, la cui domanda si è moltiplicata sulla base di uno scenario caratterizzato dalla vulnerabilità dell’individuo e dal “deficit emotivo”. La parola “cura” si tira subito dietro la parola “terapia”, scrive Rovatti, e proprio questa tendenza alla medicalizzazione del sentire e di una presunta guarigione normotipica, si dovrebbe scagliare la filosofia, perché il suo compito e stato sempre quello di smascherare i poteri forti che proprio sotto l’egida di una mentalità “da guarigione del sentire” conservano il proprio status e le proprie discrezionalità, come teorizzava Foucault. La pratica della filosofia dovrebbe innanzitutto liberare il concetto di “malattia” dalle sovrastrutture ideologiche che ne alimentano l’illusorietà e ne ingrassano gli effetti di governo delle anime, come accade negli uffici meglio arredati dei grattacieli di Wall Street, in cui una massa di coach, counsellor e guru d’ogni sorta, insegnano ai manager quarantenni con il conto in banca straripante e il colesterolo alto, a sentire le “giuste sensazioni” per migliorare il marketing dell’azienda. La filosofia, allora, può curare a patto che il farmaco in essa contenuto, sia, nella sua accezione semantica più antica, prima di tutto un veleno e non una medicina. Un veleno che il consulente filosofico (sulla cui formazione e immissione nel mondo del lavoro, peraltro, Rovatti non è affatto contrario, soddisfatte alcune condizioni) dovrebbe instillare continuamente nei cosiddetti consultanti – siano essi singoli o aziende –, poiché dalla saggezza e dalla maieutica non dovrebbe venire alcuna consolazione in quanto tale; egli, al contrario, alle domande di un senso solido dell’esistenza, «si troverà nella situazione di smontare o decostruire pazientemente le sue attese, in vista – forse – di un nuovo scenario in cui parole come “rischio” e “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sintomi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi». Parole, queste, che sintetizzano l’intero spirito del libro, rendendone gli esiti e il messaggio molto più forti e legittimati di tanta letteratura del settore che poco incide sulla freschezza di tale riflessione e che spesso, spessissimo, tutela, ancora una volta, interessi di casta, come accade nelle numerosissime associazioni, scuole e master che tentano (spesso pretenziosamente) di insegnare a “praticare” la filosofia nella vita di tutti i giorni, imbastendo tecniche e stilando manuali puntualmente stroncati dalle letture critiche più intelligenti e libere. Oggi, infatti, entrare nei percorsi formativi che rilasciano il diplomino di consulente filosofico, significa sborsare parecchie migliaia di euro solo per acquisire materiale didattico, studiare libri e imparare strategie dialogiche di discutibili premesse scientifiche, un’attività lunga e dispendiosa, come spesso succede nel panorama delle formazioni professionalizzanti, dalle scuole SSIS ai corsi abilitanti di enti privati. E in questo scenario, osserva Rovatti, si alimentano le speranze di giovani laureati in Filosofia che vedono la messa in pratica del sapere “immateriale” accumulato nei loro anni universitari, sempre meno attuabile nei percorsi tradizionali (l’insegnamento su tutti) e che, dunque, tentano di rendere utilizzabile in una pratica che, tuttavia, sarebbe sicuramente utilissima nel mondo del lavoro e, lungi dal provocare danni di sorta, se improntata a quel “senso di sospetto” che la filosofia dovrebbe raffinare, non porterebbe che giovamento nell’esperienza di verità che il pensiero, come cura di sé, detiene.

sabato 1 agosto 2009

Il libro del giorno: La voce degli angeli di Roger J. Ellory , Giano editore (collana Nerogiano

Joseph Calvin Vaughan ha dodici anni quando, nell'estate del 1939, sua madre lo prende da parte e, con gli occhi gonfi di pianto, gli dice che suo padre è morto di "reumatismo cardiaco". Come un vero figlio del Sud, Joseph scaccia subito le lacrime, ma in cuor suo sa che non è stato il reumatismo a portarsi via suo padre, bensì la Morte, arrivata di soppiatto a High Road, lasciandosi dietro soltanto impronte di piedi nella polvere. Il 3 novembre 1939, perciò, quando in fondo a High Road viene ritrovato il corpo nudo di Alice Ruth Van Horne, Joseph sa subito che la Morte è venuta a prendere anche lei. Quando è stata uccisa stringeva in mano il cestino della merenda che profumava ancora di pane. Il 9 agosto del 1940, a Silco, nella contea di Camden, Laverna Stowell, una bambina di nove anni, viene ritrovata come Alice Ruth Van Horne, con indosso soltanto i calzini e una scarpa, al piede destro. L'anno dopo è il turno di Ellen May Levine, sette anni, denudata e percossa prima di essere uccisa. Spinto dalla paura e dalla necessità di reagire in qualche forma, Joseph Vaughan fonda coi suoi amici gli "Angeli Custodi", una specie di società segreta, volta a proteggere le bambine di Augusta Falls. Il confronto, però, è impari e i ragazzi assistono impotenti alla morte delle loro compagne, una dopo l'altra. Occorreranno quindici lunghi anni prima che il capitolo finale della vicenda si dispieghi e Joseph affronti l'incubo che ha segnato la sua adolescenza e la sua vita.

"400 mila copie vendute in Inghilterra, terzo posto nella classifica del Sunday Times, diritti venduti in tutto il mondo - a settembre esce negli States - La voce degli angeli di Roger J. Ellory incrocia abilmente romanzo storico, poliziesco e thriller"

di Tiziana Lo Porto tratto da D La Repubblica delle donne, n.657, p. 22

casa editrice Giano: http://www.gianoeditore.it/

La voce degli angeli di Roger J. Ellory
2009, 451 p., Giano (collana Nerogiano)

Acasadidio di Giorgio Morale (Manni)

Ho assolto al mio obbligo di leva, ormai sono passati quasi dieci anni, all’interno di una organizzazione non governativa che si occupava di immigrazione (gestiva un CPT nella provincia di Lecce), ed estendeva inoltre la sua azione nell’ambito del volontariato professionalizzato in più attività: dall’assistenza ai bisognosi, ai minori stranieri non accompagnati, alle donne (moldave, ucraine, africane) che volevano in qualche modo uscire dal giro della prostituzione, a extracomunitari in cerca di lavoro per regolarizzare la loro situazione nel nostro paese. Non avrei mai impugnato un’arma, e dunque per estinguere il mio debito nei confronti dello Stato, l’unica alternativa restava quella del servizio civile. Per mia natura sono stato sempre una persona che è vissuta di ideali, e quando ho sposato una causa (in qualunque ambito della mia vita) ho dato anima e corpo, senza risparmiarmi su nulla, rinunciando a orari e famiglia. No, non un martirio nel senso masochistico del termine, ma un essere per gli altri. Stavo bene, e volevo far star bene gli altri, anche se magari ero solo una piccola rotella nell’ingranaggio di una gigantesca macchina chiamata solidarietà! E di fatto vivendo questa esperienza, ho acquisito diverse competenze certo, ho vissuto momenti difficili indubbiamente, ma che non rimpiango. Ricordo nei confronti del “presidente” di questa ong, una mia disponibilità totale, perché per me chi era a capo di una struttura che aiutava il prossimo, non poteva essere che da premio nobel per la pace. A tratti, nel vorticoso caos di quei mesi, in piccoli barlumi di lucidità, spesso tra gli “effettivi” dello staff notavo qualcosa di stonato, percepivo che il loro forse era solo un desiderio di sopravvivere, avendo trovato un lavoro più o meno decoroso, piuttosto che l’altruismo o spirito di fratellanza, quello cristianamente autentico, quello evangelico. Ero giovane, e non molto smaliziato, non ancora pronto a leggere tra le righe. Ora rivedendo quel piccolo tracciato della mia biografia, ho capito più cose, e più cose mi sono state manifestate ancora più lucidamente, dopo che ho letto il lavoro, splendido, di Giorgio Morale dal titolo “Acasadidio” edito da Manni. Un romanzo senza troppi fronzoli e che parla di solidarietà, della sua struttura, della sua operatività, del volontariato, delle diverse gradazioni di moralità o a/moralità delle persone che vi lavorano, di quali sono gli intrecci affaristici (tra politica e media nella maggior parte dei casi), ricchi e fruttuosi che vanno nelle tasche di chi gestisce associazioni di volontariato, i quali fanno di una missione per il prossimo (certo ci sono le eccezioni) un vero e proprio Ministero della Propaganda falso/perbenista per incensare demagogicamente la propria generosità, e rendere le acque ancora più torbide di quello che non sono. Così, e deve essere così, non si riesce a vederci chiaro! Giorgio Morale, spiega, e lo fa in maniera da romanzo, con uno stile brillante e calibrato, a chi pensa che il mondo delle onlus nel volontariato professionalizzato sia tutto rose e fiori, come spesso il grigiore della superficialità, e il puro interesse la facciano da padroni. La storia viene ambientata nella periferia di Milano, parla di un’associazione di volontariato e i locali e corridoi sono descritti con forti connotazioni da iper/realismo oggettivo: tutto è tappezzato di «crocifissi [...] madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta [...]. Aria cattolica: un po’ di gioia, un po’ di penitenza». Figura cardine il Presidente, figlio di immigrati, che dopo molte umiliazioni ce la fa, arriva a trovare una posizione di prestigio in una Milano non da bere, e lo fa facendo i soldi con gli “sfigati”. Il Centro è mandato avanti dalla diabetica Martina, da Ombretta, Teresa, Vanna e poi dalla peruviana Dora e Sonia. Il resto solo comparse, che seppur ben delineate nelle caratterizzazioni, rimangono figure dalla consistenza di ombre! Giorgio Morale ha dimostrato un immenso coraggio per due motivi: il recupero della letteratura come impegno civile, e il disvelamento dell’ipocrisia di un mondo che alla fine ha dimenticato nella maniera più assoluta cosa significhi spirito di servizio, assistenza alla persona, generosità, solidarietà, amore per il prossimo!

venerdì 31 luglio 2009

Il libro del giorno: Ghosts di Joe Hill (Sperling & Kupfer)

Il passato non è morto. E non è nemmeno passato. Una strepitosa raccolta di racconti dell'orrore che mescolano il soprannaturale alla vita quotidiana, l'incubo alla normalità, il panico allo humour senza disdegnare un pizzico di romanticismo.
Imogene è giovane e bella. Bacia come una diva del cinema e sa tutto di tutto su qualsiasi film. È morta, ma aspetta Alec Sheldon nel Rosebud Theater in un pomeriggio del 1945. Arthur Roth è un tipo solitario con grandi idee e un talento per attirare i guai. Non è semplice farsi degli amici quando sei l'unico "ragazzo gonfiabile" in città. Francis non è felice. Un tempo era umano, un tempo, appunto. Adesso invece è un insetto gigante di un metro e mezzo e tutti a Calliphora tremano quando lo sentono cantare. John Finney è rinchiuso in un seminterrato macchiato del sangue di altri ragazzini assassinati. Lì con lui c'è un vecchio telefono che, nonostante sia stato scollegato da un bel pezzo, squilla sempre di notte. E all'altro capo del filo c'è la voce agghiacciante dei morti.

"Si firma Joe Hill, ma il suo nome è Joseph Hillstrom King: ha scelto uno pseudonimo per evitare l'etichetta di figlio del re dell'horror e ha fatto bene. Perchè Hill è un bravo scrittore, e percorre la stessa strada del padre con intelligenza e profondità rare nel mondo dell'horror"

di Loredana Lipperini tratto da Il Venerdì di Repubblica n.1115, p. 90

casa editrice Sperling & Kupfer: http://www.sperling.it/

Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini (Lupo editore) – rec. Di Silla Hicks

Non vorrei sembrare rude, ma davvero ci sono cose che non capisco, e una di queste è l’amore. Perché io c’ho provato, e provato davvero, a far funzionare le cose, a trovare un senso che giustificasse tutto, la famosa unica ragione per cui valga la pena di vivere e di morire di cui parla Marquez, quello di Macondo e del gigante Josè Arcadio, ma anche di Amaranta, e di Firmina Daza che si fa attendere una vita.
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.

AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)

giovedì 30 luglio 2009

Ernesto Portas “XXXIX”














Secondo appuntamento per la neo-nata collaborazione artistica tra le Officine Cantelmo ed Il Grifone Arte Contemporanea di Monica Taveri. Da mercoledì 29 luglio sarà possibile visitare, presso l’ elegante sala espositiva delle Officine Cantelmo, l’ ultima produzione del Maestro spagnolo Ernesto Portas che, nato a Badalona (Barcellona), vive da diversi anni a Livorno. Sono numerosissime le sue esposizioni, soprattutto all’estero, dove è considerato tra i più importanti artisti dell’arte contemporanea. Trentatrè tele di medio e grande formato, ispirate ad altrettanti testi poetici dello scrittore Emilio Giovanneschi. Amici fedeli di lunga data, l’artista Portas e il poeta Giovanneschi hanno affidato a Lecce e i suoi luoghi di cultura le prime tappe inaugurali di una mostra itinerante che attraverserà tutto il territorio nazionale.

“XXXIX” è il titolo della rassegna di poesia-pittura che gli artisti hanno inteso scegliere, trentanove quanti sono gli anni di amicizia che hanno condiviso quotidianamente. Un’intera vita, all’insegna dell’arte. Ambientazioni silenziose, atmosfere espressioniste, intensità espressive occupano le superfici delle opere di Portas, gli spazi vivi ed emotivamente coinvolgenti dove le sue figure (e i suoi interni) vivono come in una condizione di alterità, sempre più estranei al mondo che li circonda. “L’arte prima di tutto è silenzio, contemplazione; il mezzo tramite il quale la riflessione trova, dall’energia delle opere, suggestioni e stimoli per porsi in termini nuovi davanti alla vita” scrive di lui Beniamino Nuzzati, recensendo una delle sue ultime mostre. Per il maestro Portas questa produzione rappresenta anche l’inizio di un nuovo linguaggio stilistico, che pur mantenendo intatta la sua particolare cifra compositiva, si è notevolmente trasformato nei toni e nelle forme. Un Portas nuovo dunque, da scoprire e da ammirare. Parole del poeta accanto alle immagini dell’artista, tra il vento e il sole che prendono a scomporle unendole nell’aria. Così scrive Giovanneschi: “… Un poeta, scusa se mi autodefinisco così, è per sua natura schivo e del tutto disabituato a vedere i suoi pezzi in mostra. Ti confesso, però, che accanto a te, perdo qualsiasi imbarazzo e sento la legittimità di esporre all’esterno una dimensione così vasta e fondamentale fatalmente destinata a rimanere chiusa nei cassetti. E’ tanto credimi, addirittura inimmaginabile, se visto dall’ottica di uno che scrive versi attento a non scadere nella derisione di un mondo troppo lontano da una sensibilità sconosciuta se non inconcepibile ….” La singolarità dell’evento è proprio nel gesto artistico a cui è affidato il senso di un’amicizia che li ha visti uniti e impegnati da sempre. Ne fa fede il delizioso libro “XXXIX”, una vera reliquia compositiva, che accompagna come catalogo/testimonianza la mostra.

L’esposizione sarà aperta ai visitatori dal 29 luglio all’ 8 agosto 2009.

Il libro del giorno: L' ultimo scapolo di Jay McInerney (Bompiani)

Vite di coppia fatte di contraddizioni: tradimenti e condivisione, passioni adultere e sicurezze tutte casalinghe. Jay McInerney punta la sua lente sulla vita quotidiana di coppie dall'immagine invidiabile, coppie con un rapporto segnato a volte da grande passione, ma quasi sempre misterioso, ricco di silenzi e di segreti, più che di confidenza e di abbandono reciproco. E mentre le giornate scorrono - tra amplessi frettolosi, gravidanze interrotte ma in fondo desiderate, litigi familiari che non si fermano neanche di fronte a un lutto -la commedia umana va avanti, irresistibile e grottesca, malinconica e insidiosa, comunque sempre struggente.

"Gaetano Cappelli giura che La Madonna nel giorno del ringraziamento è un racconto potente. Ed è proprio vero. D'altronde Cappelli non giura mai il falso"

di Antonio D'Orrico nella rubrica "In venticinque parole" tratto da Corriere della Sera Magazine, n. 30 del 30/07/09, p. 92

casa editrice Bompiani: http://bompiani.rcslibri.corriere.it/bompiani/

L' ultimo scapolo di Jay McInerney traduzione a cura di Bianchi P.
2009, 354 p., brossura, Bompiani (collana Narratori stranieri Bompiani)

Come funziona la Legge d'Attrazione di Michael J. Losier (Sperling & Kupfer)

Sostenere che oggi qualcuno non sappia cosa sia la Legge d’Attrazione, mi sembra veramente assurdo, con tutti i workshop, le pubblicazioni e i seminari che nel mondo e da un po’ di tempo a questa parte anche in Italia, si tengono sull’argomento. La Legge d'Attrazione è la legge universale che "The Secret" di Rhonda Byrne ha svelato a milioni di persone nel mondo. Possiamo controllare in presa diretta ciò che ci accade? Possiamo attrarre nella nostra vita le persone giuste, le opportunità migliori, la fortuna economica e personale, la salute? In che modo allontanare la negatività ? Diciamo che per i pochi che non ne sono a conoscenza, esistono una serie di studi sulla scoperta di una forza potentissima che dirige, condiziona e influenza la nostra vita. In realtà si tratta di un antichissimo segreto che si manifesta sul piano vibrazionale e che lavora incessantemente, senza sosta, per il benessere di tutti: perché no, magari in questo preciso momento la sua attività si sta espletando nell’ "attirare" emozioni, persone e situazioni. Certo questa forza psico-cosmica non fa distinzione tra ciò che vogliamo e ciò che non desideriamo, e talvolta per qualche dislivello nel nostro campo vibrazionale (un calo d’umore, un pensiero negativo su cui ci si è concentrati più del dovuto) ci consegna a “domicilio” cose, fatti, persone non sempre rientranti nella categoria del positivo. Tranquilli, ciascuno di noi possiede gli strumenti per volgere questa energia a proprio favore, basta sapere come si fa e come usarla in maniera consapevole. Ed è questo l’obiettivo di Michael J. Losier, che viene proposto al pubblico italiano da Sperling & Kupfer con la sua opera “Come funziona la Legge d’Attrazione”, che offre un piccolo manuale dove con un metodo estremamente semplice, veloce e pratico, insegna a scoprire al lettore, passo dopo passo, quali sono le migliori strategie per ottenere il successo in ogni ambito della propria vita": dall'amore al lavoro, dalla salute al conto in banca, dal tempo libero all'educazione dei figli. Inoltre con l’ausilio di esempi, test e suggerimenti per cominciare subito l’autore sviluppa nel lettore quella dimestichezza a focalizzare ciò che deve essere eliminato dalla propria esistenza, che non si desidera più, e sostituirlo con le cose che riempiranno le giornate di gioia, energia, felicità e prosperità. Insomma il primo manuale pratico per applicare in modo veramente efficace la Legge d'Attrazione nella nostra vita, diventare la persona che abbiamo sempre voluto essere e per raggiungere ciò che abbiamo sempre voluto, attraverso la focalizzazione, la visualizzazione, la volontà. Questi gli obiettivi primari che Michael J. Losier vuol far raggiungere a lettore tramite il suo lavoro: “realizzare i tuoi desideri; allontanare tutte le cose negative per te; attrarre il tuo partner ideale; diventare ricco, sempre di più; vivere meglio con gli altri (amici, parenti, colleghi); individuare la tua vera strada, nel privato e nel lavoro” . Ma elemento che impreziosisce ancora di più il lavoro di Losier,è una delle ultime sezioni del volume, che hanno una vera e propria ricaduta pedagogica, in quanto vengono fornite una serie di indicazioni pratiche per poter insegnare ai bambini la Legge dell’Attrazione, una sorta di formazione tout court per allenare all’ottimismo. Interessante inoltre come emerge in tutta l’opera il valore del linguaggio e della scrittura, strumenti di vera e propria fenomenologia della liberazione umana.

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ISBN: 9788820045968

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mercoledì 29 luglio 2009

Andrea Di Consoli su L'Ombra di Turi Vasile (Hacca edizioni)

Questi racconti di Turi Vasile sono scritti in pienezza di luce. Il vecchio io autobiografico de L’ombra torna aessere, per le misteriose metamorfosi del destino umano, un bambino ammalato di nostomanìa, abbacinato nell’eden di una Messina che sempre risorge, come l’Araba fenice, dalle sue ceneri. Non c’è scrittore in Italia altrettanto disarmato e disarmante, ché la mano di Vasile, nel mentre scrive, anziché chiudersi, si apre, mostrando ogni linea, ogni vena. Non ci sono segreti, in questi racconti; e anche la vita fuggitiva, e il mistero ella morte e del dolore, sono accettati con bonomia, con lacrime di bambino con la faccia di vecchio.
I racconti di Vasile sono aperti come un ventaglio. Tutto vi è detto con pudore e sincerità: la disperazione per la moglie Silvana, chiusa nella torre della malattia; l’affanno degli anni, che hanno perso la giovanile dispnea causata dalla “lissa”, e hanno trovatol’altra dispnea, quella di chi ha il cuore malato; i tanti ricordi che risorgono intatti da un luogo che non esiste, se non nell’anim; la certezza barcollante per un Dio che solo in quanto “essere”pensabile diviene possibile. Con questo memoriale lirico e familiare, Turi Vasile scrive uno dei suoi libri più commoventi. E, nonostante in uno dei racconti più belli di questa raccolta un uomo perda la propria ombra, solo alla fine quest’uomo capirà che, senza la propria ombra, si muore per davvero. L’ombra è su di noi, e dobbiamo portarla addosso come un doppio siamese. Sono pochi gli scrittori che sanno “dialogare con le ombre”come Vasile – e, sempre, anche i morti sembrano vivi, nei suoi racconti.
Aleggia sull’opera di questo scrittore un nuovo mito, quello di Margite, colui che sapeva fare tutto, ma tutto faceva male. È, chiaramente, una riconferma del grande mito dello scrittore come dilettante. Senza grancasse e senza sociologia – sorretto soltanto da una lingua tersa e immediata, da un’attitudine al sogno che lo pone al fianco dei grandi lirici greci, e da un’attenzione al quotidiano miracolosa, e all’epifanico dettaglio minimo – Vasile si riconferma uno dei nostri grandi scrittori, proprio perché raramente s’era vista così tanta luce nella disperazione, sia pure addolcita da lontani gesti perduti, e da un Dio lontano che, in certi momenti, sembra avere la stessa faccia del suo buon padre.

Turi Vasile (Messina, 1922), regista, produttore e scrittore,ha pubblicato, tra le altre cose: Paura del vento e altri racconti (Sellerio, 1987), Un villano a Cinecittà "Sellerio,1993), L’ultima sigaretta (Sellerio, 1996), Malefare (Sellerio, 1997), Il ponte sullo stretto (Sellerio, 1999),La valigia di fibra (Sellerio, 2002), Morgana (Avagliano,2007) e Silvana (Avagliano, 2008). Vive a Roma.

IL 3 AGOSTO IN LIBRERIA

Il libro del giorno: Una buona scuola di Richard Yates (Minimum Fax )

In un’America alle soglie della seconda guerra mondiale, un romanzo crepuscolare sull’amore, la giovinezza, la crescita. Un collegio maschile del New England è il teatro delle avventure di William Grove – alter ego dell’autore – che cerca un riscatto dai soprusi dei coetanei affermandosi come reporter del giornalino scolastico; di Jack Draper, professore alcolizzato alle prese con i ripetuti tradimenti della moglie; e di Edith Stone, la figlia del preside, che si innamora del ragazzo più popolare della scuola. Le vite degli studenti e degli insegnanti si intrecciano in una tela imprevedibile, le cui maglie s’infittiscono via via che si avvicina l’ombra della chiamata alle armi.
Originariamente pubblicato nel 1978, Una buona scuola mostra uno Yates che nel confronto con i temi dell’adolescenza trova la sua voce più nostalgica e, forse, più vera.

Luca Mastrantonio - Il Riformista

"Il romanzo dello scrittore americano, pubblicato dalla Minimumfax, è
l'autobiografico viaggio di una generazione a stelle e strisce."

casa editrice Minimum Fax: http://www.minimumfax.com
/home.asp


Una buona scuola di Richard Yates, Minimum Fax, prefazione di Zadie Smith, traduzione di Andreina Lombardi Bom

Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks

Non ho mai pensato che la droga potesse aggiustare le cose. Non l’ho pensato adolescente alieno in un mondo non suo, incapace di comunicare nella lingua degli altri e di sembrare come loro. Non l’ho pensato uomo col cuore spezzato, che faceva male a tal punto da tenermi sveglio la notte, tutte le notti, come una parodia dell’uomo senza sonno condannato a rivivere ogni attimo l’inferno.
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.

STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)

martedì 28 luglio 2009

IERATICO POIETICO (BESA) IL 30 LUGLIO AL LIDO LE DUNE DI PORTO CESAREO

Il 30 luglio alle ore 21,30 presentazione del volume “Ieratico Poietico” presso il lido Le Dune Via dei Bacini, 89, di Porto Cesareo (Lecce) nell'ambito della rassegna "Autori sotto le stelle". Introduce Vito Antonio Conte.

Ieratico poetico (Besa editrice) è sviluppato in tre movimenti dove si alternano l’accumulazione e la riflessione, il lirismo e la prosa, italiano e inglese, autobiografismo e citazionismo. Il primo e più corposo movimento, Flumen, dirige il corso del poema in gran parte degli esiti successivi. Ne è messa in luce un’umanità (in)dolente («fottere gli stranieri / fottere i dispersi / fottere i disadattati»), come dolenti sono le mura del paesaggio cittadino che fa da sfondo («dove i piccioni smerdano / gli archi grandiosi») e dolente è il canto po(i)etico dell’autore («quanta fatica / ogni giorno / evitare gli abissi / barattare parole / mentre il giorno / vacilla / sui miei occhi / imploranti / misericordia»). Fiumi di citazioni letterarie, filosofiche, musicali e cinematografiche (si parte con Charlie Chaplin per finire a Vin Diesel) costituiscono la nervatura del poema che anche per questa caratteristica è necessario definire iper-moderno. Allo stesso modo interessante è la ripresa ciclica all’interno del poema di quello che il poeta stesso, nell’ultima pagina del libretto, definisce «un discorso di denuncia del mercato dello spettacolo, del trionfo della macchina, sentendo l’invenzione poetica come documento etico». Una denuncia che appare evidente nella ‘trama’ del poema e che tende ad assumere i tratti di un discorso ancor più vasto, che fa ricorso alla storia del Novecento, alla crisi della società post-industriale, riprodotta baustellianamente con le immagini della crisi dell’individuo, nei bar, in casa, per strada, in gruppo, in treno, ovunque gli sia possibile «protestare... che il viaggio è troppo lungo». Ha scritto Luciano Pagano nell’introduzione, dal titolo “Una canzone di città”, al poema di Stefano Donno: «Rispetto ai maledetti del secolo scorso Stefano Donno ha un vantaggio, quello di poter mascherare e nascondere il suo ego dietro un affastellarsi di immagini che non ha più il suo referente nei papiri inceneriti di una biblioteca alessandrina, bensì in una wikipedia infinita nella quale tutti i linguaggi e tutte le nozioni si trasformano nei colori di una palette personale. Questi versi regalano ordine alla visione di un mondo caotico, malgrado la dichiarazione di non intento al poetare di altro, “sguardi / in un cesso di locale / che arrivano a testa bassa / tra codici sorgenti”».

Il libro del giorno: Luogotenente del nulla Heidegger, Nietzsche e la questione della singolarità di Francesco Cattaneo (Pendragon)

Quello di Heidegger con Nietzsche è uno dei dialoghi filosofici più profondi e gravidi di conseguenze. In esso continua a essere in gioco la fisionomia del nostro presente e, in particolare, la possibilità di una sua rimessa in questione radicale – così come richiede l’intima indole della filosofia. Tale rimessa in questione viene qui sondata secondo il filo conduttore di quel concetto di singolarità che domina – nelle forme del soggetto, dell’individuo, della persona – il nostro orizzonte culturale, sociale, politico ed economico. Il tema della singolarità trova una sua specifica rimodulazione nelle parole chiave di “superuomo” e di “Da-sein”, la cui portata è ancora tutta da ponderare. Per farci carico di questo compito dobbiamo collocarci in modo consono nella spaziosità della domanda che il pensiero ci invita ogni giorno a rinnovare e in cui continuamente, volens nolens, ci troviamo: chi siamo noi?

Francesco Cattaneo collabora con la cattedra di Estetica del dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna, occupandosi di filosofia tedesca tra Ottocento e Novecento. Ha scritto saggi su Heidegger, Nietzsche e la fenomenologia ermeneutica. Nell’ambito dell’estetica del cinema, ha pubblicato Terrence Malick. Mitografie della modernità (Edizioni di Cineforum – ETS, 2006) e curato Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita (Minimum Fax, 2009).

edizioni Pendragon: http://www.pendragon.it/index.html

Luogotenente del nulla : Heidegger, Nietzsche e la questione della singolarità
di Francesco Cattaneo (Pendragon). Collana Le sfere - 121

Il tuo sacro io di Wayne W. Dyer (Tea edizioni)

E’difficile poter raggiungere un'assoluta padronanza sul corpo e sulla mente, soprattutto se come obiettivo si ha la realizzazione del Sé, ossia il traguardo della consapevolezza assoluta circa la propria natura trascendente e immortale. Prima cosa in assoluto cercare la concentrazione sul presente, mai proiettarsi nel futuro, gustando lentamente l’oggi, e accettando serenamente il domani, perchè l’uomo può conoscere la libertà solo nell’attualità, non lasciandosi condizionare da tutto ciò che accade fuori di lui, ma gioendo soprattutto delle conquiste spirituali. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la coscienza dello Spirito coltivando una calma, continua ed esclusiva attenzione sull’autoanalisi dei propri comportamenti, delle proprie azioni, dei propri pensieri, finché i tumulti dell’anima non svaniscono. Già perché il più delle volte quel senso di inquietudine, una specie di rumore bianco costante e fastidioso, che proviamo, dipende dal nostro principale nemico, la mente, colma di enormi quantità di informazioni e stimoli provenienti dal mondo che ci circonda, e che spesso ci fa vivere in una grassa ignoranza, fatta di costruzioni e sovrastrutture artificiali che ci conducono sulle strade della negligenza e dell’illusione. Nella vita di ogni giorno, numerose domande restano senza alcuna risposta (come mai ci siamo comportati in un determinato modo e non in una maniera più adeguata; perché abbiamo concretizzato nella nostra mente un pensiero ostile magari nei confronti di una persona amata, etc.) , e questo fondamentalmente determina uno stato di profonda frustrazione, facendoci dimenticare quanto invece siamo decisi e volenterosi nella ricerca della vera felicità, ovvero di quell’assenza di tumulto che ci fa comprendere l’origine ogni essere, dalla quale anche noi proveniamo. Dunque la saggezza non giunge dall'esterno, ma è la nostra perseveranza nell’essere ricettivi interiormente che ci fa comprendere quanto possiamo realizzare in vera conoscenza, e quanto rapidamente. Per i tipi di Tea edizioni, nella collana “Pratica”, da poco è disponibile “Il tuo sacro io” di Wayne W. Dyer, una meravigliosa opera che spiega come passare dal tumulto alla pace, dall'inganno alla verità, dalla paura all'amore e alla libertà, attraverso un viaggio spirituale e a tratti molto concreto, per raggiungere i più alti livelli di consapevolezza. Si tratta di un prezioso contributo nell’ambito della letteratura d’auto-aiuto, grazie al quale il dottor Wayne W. Dyer permette al lettore di passare al setaccio la dimensione sacra del Presente in ognuno di noi, insegnandoci a scendere nelle profondità del proprio Io più autentico arrivando a comprendere tutti quei meccanismi che ci fanno superare le vicissitudini di tutti giorni con un vero senso di pace e con il benessere della realizzazione personale. Sviluppare il Sé sacro che è in noi, ci porta a capire il nostro ruolo nel mondo e cosa importante come sviluppare quella compassione che ci mette in totale apertura nei confronti dell’altro permettendoci di essere con gli altri e non attraverso gli altri. Punto per punto con esempi, testimonianze e chiarimenti, Dyer ci mostra come conoscere il «divino» in noi, destrutturando tutti quei trabocchetti che il nostro Ego ci mette sul cammino. Già l’Ego, un piccolo mostro che si nutre delle nostre paure e insicurezze, che si ciba famelicamente della convinzione che noi siamo separati non solo dal divino, ma siamo una cosa individuale, indivisibile, singola, e che non smette di aver fame di sopraffazione e bassi istinti. Il percorso proposto dall’autore è quello di spostarci da livelli di vita primari verso piani più elevati,dove la nostra energia vitale ha la possibilità di irradiarsi su tutto ciò che la circonda. Tutto raggiungibile ovviamente se siamo noi a sentire quel senso d’urgenza nel voler migliorare e progredire nella ricerca spirituale. Sostiene Wayne W. Dyer in quest’opera : “Non siamo solo un corpo, un nome, un lavoro, un codice fiscale… Siamo anche, eternamente, «luce e divinità», indipendentemente da ciò che abbiamo fatto o mancato di fare, dal genere di famiglia o comunità in cui viviamo, dall'etichetta che ci hanno appiccicato addosso, e siamo qui con uno scopo. Uno scopo che non si trova nel mondo fisico, come un oggetto, una carriera, un conto in banca. La strada da seguire è un viaggio dentro noi stessi, spirituale e insieme concreto, verso un nuovo livello di consapevolezza: sperimentando la ricchezza di significato delle coincidenze; trovando un nuovo accordo con la realtà; comprendendo che per ogni problema esiste una soluzione”.

Wayne W. Dyer - Psicoterapeuta, è autore di libri di grande successo. Tiene affollatissime conferenze negli Stati Uniti e partecipa regolarmente alle più seguite trasmissioni radiotelevisive delle principali reti americane. Vive con la famiglia in Florida.


Passare dal tumulto alla pace, dalla paura all'amore e alla libertà
ISBN: 9788850200702

Prezzo € 9,50


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lunedì 27 luglio 2009

Con l’insistenza di un richiamo di Francesco Randazzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks

Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.

PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)

Il libro del giorno: Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitaile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.

"Gattopardismo, gattopardesco, gattoparderia ... Il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha arricchito il nostro vocabolario con sostantivi e aggettivi dalla straordinaria resa espressiva, ricchi di sfumature capaci di definire come meglio non si potrebbe stati d'animo e situazioni storico-ambientali. Il gattopardo è la Sicilia, la sua anima, destino, faccia, e nello stesso tempo metafora della vita, al di là di limiti geografici e politici"

di Matteo Collura tratto da Corriere della Sera del 27/07/09, p. 31

casa editrice Feltrinelli: http://www.feltrinellieditore.it/

domenica 26 luglio 2009

Il libro del giorno: Il mio nome è Legione di Demetrio Paolin (Transeuropa edizioni)

Questo romanzo racconta la storia di Demetrio, giornalista trentenne, e del suo rapporto con determinate figure della memoria, pubblica e privata, che da sempre lo ossessionano e lo influenzano.Il racconto si muove sul filo della deriva psicologica – tra reticenze e confessioni, sprofondamenti nel dramma e soprassalti ironici, non privi del sentimento di una conquistabile felicità: vi si mescolano, come le tessere di un misterioso mosaico di cui si debba ricostruire il disegno originario, le apparizioni di Renato Curcio, il fantasma di Mohamed Atta, il Cristo di Quattordio, la veggente in comunicazione con l’anima di Vittorio Alfieri, le spoglie di Cesare Pavese e l’icona della giovane pallavolista che nasconde nel suo passato il misfatto più grande, l’omicidio della madre e del fratellino – la giovane imperatrice che condensa su di sé i crismi fondamentali della coscienza edipica occidentale. Queste epifanie, collegate alla morte del padre del protagonista, all’infanzia turbata dalla misteriosa disfunzione sessuale del fratello minore e poi al rapporto masochistico/sadico con Giulia e con le donne che in generale popolano la sua esistenza, convincono Demetrio d’essere stato toccato dal male. Un cammino che solo alla fine sembra accennare alla possibilità di trovare un ordine, e di redimere il male senza esorcizzarlo. «Ora ho capito che il male è come per alcuni la grazia. Il male è la mia grazia. Ho accettato che sono male. Così avrò salva la vita. Non essere nel male avrebbe significato essere perduto. Sono nel male e sono salvo.»

"Libro duro, nella sua focalizzazione pervicace sul male e sullo scandalo della sua esistenza, appena velato da un reticolo di citazioni letterarie forse non necessarie, apre uno spazio ipotetico per l'altro scandalo, quello dell'esistenza del bene"

di Dario Voltolini, tratto da Tuttolibri n. 1647, de La Stampa, p. II

casa editrice Transeuropa: http://www.transeuropaedizioni.it/?Page=home.php

Nero di Vito Antonio Conte















Tende da campo. Tante. Grandi, piccole e canadesi. Tutte colorate. Prevale l'azzurro. Fili con biancheria appesa ad asciugare. Auto e furgoni ai margini. Movimento. Poco. Lento. Ma non è un camping. Non sono al mare. Percorro la strada che ogni giorno devo per recarmi al lavoro. A Nardò. Ad appena un kilometro dal passaggio a livello, prima della città, sulla destra, tra gli ulivi, quel riparo improvvisato. No, non è un campeggio. E il colore dominante, a ben vedere, è un altro: nero. Nero d'Africa. Di uomini che non sono in vacanza. Di uomini che aspettano un'occasione di lavoro. Nero. Come il colore della loro pelle. Splendidi uomini d'ebano. Tra panni stesi ad asciugare dalle poche donne presenti. Nere anche loro: bellissime. Il vento asciugherà quegli indumenti, bagnati di sudore. Loro, gli uomini, aspettano un'altra giornata di sole. Attendono che qualche “caporale” bianco li ingaggi per la raccolta delle angurie (ma non solo). Si tratta di “ingaggio” senza regole, qualche volta arriva da un loro “fratello”. Attendono dignitosamente una chiamata. Altri sono per strada, a piedi. Raggiungono la prima stazione di servizio che s'incontra entrando (da Lecce) a Nardò, quasi di fronte allo stadio di calcio, subito dopo la chiesetta nel cui giardino si erge la statua di Padre Pio. Attendono il miracolo di un altro giorno di lavoro. Con dignità statuaria pari a quella del santo. Qualche giorno addietro l'attesa si è materializzata -non nel bianco “caporale”, ma- nelle divise della polizia. Ne hanno portati via una ventina, clandestini. I “caporali” circolano ancora. Per gli “schiavi dell'anguria”, invece, la polizia segna un altro VIA nella loro odissea iniziata con la fuga (dalla guerra, dalla fame, da mille altre insidie...) da uno dei cinquantatre Stati del continente Madre. L'ennesima ingiustizia quotidiana è compiuta. La vedo ogni giorno: sulla pelle luccicante di fatica di questi uomini tra i campi mentre raccolgono questi grandi frutti-sauri tondeggianti succulenti dolci croccanti e dissetanti, li ripongono in grandi contenitori di plastica, li caricano su camion, grandi e piccoli, spesso articolati che raggiungono il Nord d'Italia, dove fette rosse e fresche (del loro sudore malpagato e senza garanzie) vengono vendute a caro prezzo. Li vedo ogni giorno. Ognuno li può vedere, passando da lì. Ogni giorno di tutti gli anni, in questo periodo. In passato trovavano riparo in vecchi fatiscenti ruderi di campagna che il degrado ha fatto crollare rovinosamente. Nessun servizio igienico, nessuna garanzie contrattuale, nessuna tutela per loro. La dignità slavata dalla mancanza di dignità di chi li ingaggia illegalmente e di chi questo permette. Il bisogno sfruttato come sempre. Il sudore lavato dai frequenti temporali di questi giorni che fa di questa Terra sempre più luogo d'Africa caraibica. Io intanto raggiungo il mio Ufficio. Che non è un bell'Ufficio. Ma neppure decoroso. Né idoneo a svolgervi le funzioni cui è destinato. Ne avrei da sprecare parole per dire di quest'altra fatiscenza... Chi di dovere ne è a conoscenza. Da tempo. E non cambia nulla. Ma il mio lavoro, per quanto mal retribuito in un ambiente invivibile, almeno è... “regolare” e non posso lamentarmi se l'immobile in cui è allocato l'Ufficio (del Giudice di Pace di Nardò) in cui lavoro è squallido e in degrado, pressoché senza impianto di condizionamento (che d'estate si schiatta dal caldo), coi caloriferi insufficienti (che d'inverno fa freddo), senza scala antincendio (e già una volta un incendio c'è stato: al piano terra, col Personale al primo piano...), senza alcun sistema di sicurezza, senza alcuna vigilanza, senza collegamenti a internet, intranet e REGE, senza niente di niente, tranne muri scrostati e richieste (…) rimaste inevase (tranne qualche sporadico palliativo che non può chiamarsi intervento...). Eppure a Nardò c'è il Nuovo Palazzo di Giustizia. Proprio vicino al luogo dove sostano gli extracomunitari in attesa di un cazzo di lavoro del loro stesso colore! Dovrei dirla tutta, mi dice Maria. Prima o poi lo farò (e a lei, invero, ho detto sempre tutto... quel che ero, quel che sono, senza reticenze... ciò che voglio... e di solito -poi- non ho riserve mentali con alcuno... e quel prima o poi allora significa altro... sì, prima o poi racconterò un'altra storia, l'unica per cui è giusto vivere di cuore...) Ma, in questo caso, c'è che è sordo chi non vuol sentire e cieco chi non vuol vedere. E allora perché sprecare ancora parole? Le ho già sprecate con chi di competenza! Da tempo. E non cambia nulla! Ma io un lavoro “regolare” almeno ce l'ho. Loro no. E quando arriva è quel che è sotto gli occhi di tutti. Non c'è paragone. Perdio! E lungi da me la tentazione di farne (paragoni). Un dato, però, è comune tra la loro situazione e la mia... Se ne parla. Sempre. Ma non cambia niente. E non posso chiudere così. Avevo promesso che avrei bestemmiato soltanto per qualcosa per cui ne valesse la pena: beh, in questo caso la mia scurrilità è d'obbligo: io la destino a chi so, voi a chi vi pare: vaffanculo! E se proprio devo indicare un'altro finale e dare ancora colore e ritmo a questo pezzo, la cosa migliore che mi viene in mente è il ritornello di una canzone di Enzo Avitabile: “chest'è l'africa favurite/bonappetito”.

sabato 25 luglio 2009

È in libreria "SCANDALOSO OMICIDIO A ISTANBUL" di MEHMET MURAT SOMER (Sellerio editore)

Istanbul, una città con tante anime. Estrema propaggine dell’Occidente, ponte tra Europa e Asia, la città dai mille minareti oscillante tra modernità e tradizione è lo scenario di questo romanzo.
A Beyoglu, il colorato e allegro quartiere occidentale di Istanbul, di notte le strade si animano per la presenza di tanti locali notturni. Un brutto fatto di sangue turba il quartiere: una persona scomparsa, un omicidio, un intrigo complicato. A indagare su tutta la faccenda il protagonista-narratore: elegantissimo, colto, amante della musica barocca, esperto di arti marziali. Non è un detective di professione: di giorno è un esperto informatico, di notte un travestito che gestisce un night club, esponente moderno di una città che non finisce di sorprendere.
Un delitto lo coinvolge in prima persona: è stata uccisa Buse, una delle sue ragazze. L’indagine si svolge fra avventure rocambolesche in una Istanbul infuocata di piena estate, tra le strade del gran bazar e i traghetti sul Bosforo. Ma soprattutto l’autore vuole svelare un mondo, quello dell’omosessualità, che descrive senza infingimenti.
Tradotto negli Stati Uniti (Penguin), in Francia (Actes Sud), Regno Unito (Serpent Tail), il libro è stato accolto molto bene dalla critica che ha visto in questo poliziesco a sfondo sociale un nuovo tassello del “noir mediterraneo”.

Nato ad Ankara nel 1959 Mehmet Murat Somer con questo romanzo ha dato inizio a una serie di noir ambientati nei quartieri caldi di Istanbul. È attualmente il principale esponente della letteratura gay in Turchia, letteratura coraggiosa a metà tra desiderio di svelarsi e richiesta di tolleranza.

Danilo Arona, L'estate di Montebuio (Gargoyle Books). Rec. di Silla Hicks

Io sono uno di quelli che la leggono, la prefazione. E spesso da lì decidono se vogliono andare avanti o no. Sono l’esca attaccata all’amo, le prefazioni: ci sono volte che funzionano, altre che sarebbe meglio strappar via le pagine. Questa, è tra quelle del primo gruppo: mette curiosità, e non la soddisfa. Offre spunti, e non li sviluppa. Racconta, senza raccontare la storia, ma solo impressioni, impulsi: il resto, quello è – dovrebbe essere - affidato al libro che segue.
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.

Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)

Il libro del giorno: Beijing story di Tongzhi (edizioni Nottetempo)

Ultimo tango a Pechino. Nella Cina ricca e spieiata degli anni recenti, un giovane capitano d'industria abituato a comprare tutto - anche l'amore di chi non lo ama -incontra un ragazzo quasi adolescente, che si prostituisce per necessità economica o forse per autopunizione, e con lui brucia per la prima volta nel fuoco di una passione erotica che cambierà la vita di entrambi. Scoppiato su internet, quasi fosse un moderno samizdat, il caso di "Beijing Story" ha conquistato i lettori di tutto il mondo, pur rimanendo in patria un testo rigorosamente clandestino. Non a caso il suo autore è costretto ancora oggi a rimanere anonimo: contro la censura di Stato, la sua figura appare fragile e potente come quella dello studente inerme di fronte ai carri armati sulla piazza Tian'anmen. Dal romanzo, Stanley Kwan ha tratto nel 2001 un film premiatissimo, Lan Yu

"Arriva dalla Cina, sfuggito alla censura di Stato, il romanzo gay più trasgressivo dell'anno: firmato con lo pseudonimo Tongzhi (letteralmente compagno, ma anche gay, Beijing Story è una internet novel, diventata in Italia per la prima volta libro stampato, che narra la storia a tinte forti, sullo sfondo dei fatti di TieN An Men,tra il ricco imprenditore trentenne Handong e il malinconico diciassettenne Lan Yu,che si prostituisce per vivere. Amore impossibile"

di Benedetta Marietti tratto da D, La Repubblica delle Donne n.656, p. 42

casa editrice Nottetempo: http://home.edizioninottetempo.it/


Beijing story di Tongzhi
2009, 149 p.,Nottetempo

venerdì 24 luglio 2009

Gargoyle Books presenta Il sangue di Manitou di Graham Masterton

La trama.
Alle soglie del Terzo Millennio, durante un'estate torrida, la città di New York è preda di una strana e terribile epidemia, di cui i medici non riescono a individuare l'origine. Tra i sintomi della misteriosa patologia ematica: difficoltà a ingerire cibo solido, ipersensibilità alla luce solare, e un'insostenibile arsura che può essere placata solo bevendo sangue umano. Mentre, nella metropoli, il panico dilaga, schiere di contagiati si riversano per le strade alla ricerca di sangue. Solo il sensitivo Henry Erskine capisce che ciò che accade non è affare risolvibile negli ospedali. Con il sostegno degli spiriti dei Nativi americani, Erskine si inoltrerà in un regno oscuro e sotterraneo a metà tra i vivi e i morti, dove dovrà condurre una lotta per la sopravvivenza della specie umana, una lotta in cui la morte non è che l'inizio.

Il libro.

Pubblicato negli Stati Uniti nel 2005 da Leisure Books, Il sangue di Manitou è il quarto di una serie avente come protagonista Harry Erskine, "veggente, erborista e cartomante", noto in Italia per l'interpretazione datane da Tony Curtis nel film Manitù, lo spirito del male (The Manitou, 1978) di William Girdler, tratto a sua volta dal romanzo omonimo pubblicato nel nostro paese da Cappelli. Gli altri titoli della serie, inediti in italia, sono The Djinn (1988) e Burial (1992).

Abile nell'incrociare miti di diversa estrazione, ne Il sangue di Manitou Masterton riprende alcune delle figure leggendarie dei Nativi americani e le fa incontrare/scontrare con le radici del vampirismo originate dalla sua terra d'elezione, la Romania: non le fascinose figure in mantello nero care a cinema e letteratura, ma la vera essenza del mito, quella degli strigoi, ancora massicciamente diffusa nel paese.

L'autore.

Ancora poco noto in Italia, Graham Masterton (Edimburgo, 1946) è riconosciuto a livello mondiale come uno dei grandi maestri dell'horror: in Francia gli viene intitolato un prestigioso premio letterario, il "Prix Masterton", giunto quest'anno alla nona edizione, e le sue opere vengono regolarmente pubblicate in diversi paesi, come Francia, Belgio, Olanda, Svezia, Grecia, Polonia, Romania. Masterton vanta una lunga carriera come giornalista e scrittore: è autore di oltre cento tra romanzi e racconti che hanno collezionato riconoscimenti di pubblico e critica in molti paesi. I suoi maggiori successi sono Charnel House (vincitore di uno Special Edgar conferito dalla Mystery Writers of America), Mirror (vincitore della Silver Medal of West Coast Review of Books), The House That Jack Built e Pray. Tre dei suoi racconti sono trasposti sul piccolo schermo per la serie "The Hunger", prodotta da Tony Scott. I diritti di uno dei suoi ultimi romanzi, Trauma (2002), sono stati acquistati dal regista Jonathan Mostow ("U-571") e diverranno a breve un film. Di Masterton, Gargoyle ha già pubblicato nel 2006 Spirit.

www.grahammasterton.co.uk

Da Il sangue di Manitou:

Finalmente raggiungemmo Ground Zero, il punto dove erano crollate le torri del World Trade Center e dove stava già cominciando a innalzarsi la Freedom Tower. Anche là non c'era nessuno. o quanto meno, nessuno che fosse vivo. Le baracche del cantiere erano tutte deserte e i pesanti macchinari. retroescavatori, scavatrici, bulldozer e betoniere. erano fermi e silenziosi. Vidi il corpo di un uomo pendere da una gru, appeso a una decina di metri di altezza come se fosse stato impiccato, con due o tre gabbiani che lo stavano beccando.

Quel posto aveva destato in me una quantità di emozioni, quando ero venuto in centro a vederlo, dopo l'11 Settembre, ma a quell'epoca erano in corso le operazioni di sgombero, e il luogo era rumoroso, affollato e pervaso di animata determinazione; mentre quella mattina appariva semplicemente spettrale, un cantiere deserto in una città popolata da cadaveri che marcivano e da nonmorti che potevano circolare soltanto con il buio. La gru emise ripetuti suoni metallici, e uno dei gabbiani reagì con uno stridio di irritazione.

Dall'introduzione:

Nulla di strano nella decisione di raccogliere più che la tradizione "classica" del vampirismo [.] quella posteriore, metropolitana e moderna: non più l'aristocratico individualista e il tormento della sua eterna condanna alla non-vita, ricalcato sull'originario modello del Dracula di Bram Stoker, quanto l'orda barbarica emofaga, la massa chiassosa e vandalica dei vampiri post-industriali che si riversano a legioni dietro il contagio collettivo. Con l'aggiunta di una variazione sul tema: l'infezione del sangue.

Hanno detto:

Il sangue di Manitou è un romanzo solido quanto un blocco di granito che ci proviene uno dei veri maestri del genere horror. Masterton scrive con in mente un unico obiettivo: la pagina successiva. "Se sono smanioso di arrivare alla pagina seguente, probabilmente i lettori proveranno la medesima sensazione".

Houston Chronicle

Nell'ambito dell'Horror, Graham Masterton è forse lo scrittore capace di suscitare i brividi più raggelanti.

Masters of Terror

Masterton è un narratore ipnotizzante il cui fascino risiede nel combinare conturbanti aspetti di debolezza umana con una sofisticata abilità di mantenere costante la tensione.

Genius

Gargoyle Books, "Il sangue di Manitou" di Graham Masterton
Traduzione di Annarita Guarnieri. Introduzione di Claudio Asciuti

Il libro del giorno: Quando Degas andava a Napoli di Elio Capriati (MJM editore)

A determinare il fascino particolare e intrigante di questo libro di Elio Capriati si incontrano e si sommano due suggestioni diverse: quella della Napoli del passato (la vicenda si snoda lungo l’arco di un intero secolo tra fine 700 e fine 800) e quello della pittura di Edgar Degas.
A collegare i due argomenti un fatto che non tutti conoscono: e cioè che con la nostra città Degas ha avuto un lungo, articolato, appassionato rapporto. In quanto è a Napoli che hanno vissuto suo nonno, René-Hi­laire De Gas, affermato uomo d’affari, e un’assai variopinta tribù di zie, zii, cugini e cuginette: parenti a cui il pittore è stato legatissimo, e che non solo ha più volte visitato, ma ha anche raffigurato nei dipinti (una delle sue opere più famose, “La famiglia Bellelli”, rappresenta appunto la zia partenopea Laurette con il marito e le figlie Niny e Julie).
Allora: di quali peculiarità si avvale l’impianto del romanzo? Ecco. A caratterizzarlo è una duplice operazione di incastro: c’è Paul Valery, il futuro autore dei ‘Cahiers’, che nella Parigi di inizio novecento recensi­sce la propria visita all’ormai anziano Edgar Degas, e c’è Edgar Degas che, seguendo come sovrappensiero il filo dei ricordi, rievoca l’avven­turosa vita del nonno e le coinvolgenti vicende della sua famiglia. Da questa impostazione scaturisce una successione di scene colorate, ora drammatiche, ora sorridenti, ma tutte di grande impatto emotivo e quin­di in grado di avvincere il lettore: i giorni della rivoluzione a Parigi, Maria Antonietta sulla carretta che la conduce al patibolo, il sacrificio delle vergini di Verdun, le stragi nella Napoli del 1799, l’eruzione del Vesuvio, e al contempo Celeste Coltellini che canta Paisiello a San Leucio, la conversazione nel salotto dei Meuricoffre, il viavai di Tole­do, gli incontri del nonno con Napoleone e Murat o l’Egitto con le sue piramidi e i suoi minareti.
(Tratto dalla prefazione di Giovanna Mozzillo)

"Il napoletano Elio Capriati immagina che il grande artista ci narri la storia dell'avo, parlando di se stesso, di Napoli e della propria arte"

di Stefano Manferlotti tratto da Il Venerdì di Repubblica n. 1114, p. 104

casa editrice MJM: http://www.mjmeditore.com/index.php


Elio Capriati:www.eliocapriati.it

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