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mercoledì 25 dicembre 2013
giovedì 19 dicembre 2013
Mo mama. Da chi vogliamo essere governati?, di Paolo Nori (Chiarelettere). Intervento di Nunzio Festa
“La
politica non è una cosa che si fa quando si va a votare, ma che la politica si
fa tutti i giorni, e che è politica il modo in cui si parla, il modo in cui ci
si muove, che è politica il grado di gentilezza con cui si parla coi propri
figli, e coi propri genitori”. A chi appartiene quest'asserzione definitiva,
assoluta? Verrebbe di rispondere: o a una persona perbene, come piace dire in
genere, oppure a un intellettuale serio
e puntuale. Invece è di Paolo Nori. E
non che Nori non sia un intellettuale: fa lo scrittore, il traduttore e il
“maestro” dei grandi. E, chiaramente, non che non sia una persona per bene. E
fa grandemente piacere scoprirlo, che sia di Paolo Nori. Dove un altro
scrittore in sostanza ci toglie dallo pseudo-qualunquismo dell'ultimo piccolissimo
Piccolo, che riesce invece a esser peggio d'altri e non “come tutti”. (Non come
tutti, certo). Fortunatamente. Nori col suo 'libretto', infatti, con la scusa
di raccontare “Parma ai tempi del Movimento 5 stelle”, espone la sua visione
del mondo, più che solamente la sua idea di 'politica' / idea-politica. Però
com'è giusto che sia è costretto a
ragionare, visti i tempi correnti, durante lo svolgimento d'un tema in
apparenza nuovo: l'ascesa sulla scena della gestione della cosa pubblica, per
quel che almeno riguarda Parma, d'una nuova forza politica – con il primo
sindaco ai cinque stelle; mentre insomma una nuova generazione, in genere,
avanza nella calca che il nulla d'oggi è. Non si capisce più un cazzo. Se,
tanto per cominciare, adesso che scriviamo dell'ultimo libro di Nori, narratore
di grande bravura e oramai di riconosciuta levatura, troviamo sulle strade, e
non per sentito dire o per modo di dire, una specie d'accenno di sommossa
dentro la quale i fascisti del terzo millennio degli ultimi resti di partiti
xenofobi e nazifascisti tentano d'esser germi, anzi batteri da lievito cattivo.
Ma torniamo a Parma. Anzi a Pizzarotti. Dove Federico Pizzarotti è l'esempio
d'una lingua da rigettare e dell'assenza di qualità nonché del mancato raggiungimento
di buoni propositi. “Mo mama”, in effetti, è prima di tutto un'espressione
linguistica parmiggiana della quotidianità. Sarebbe a dire “mamma mia” - epperò
è usata esclusivamente in senso negativo. Ma meglio allora parlare una lingua
di tutti i giorni, che quella dei Pizzarotti. E Nori, da anarchico, pur
stupendosi con poco aspira al massimo. Altrimenti meglio tenersi fuori. Tanto
che non vota da una ventina d'anni. Grazie al fatto che siamo incalliti
sostenitori – lo seguiamo tutti i giorni (andando sul sito con puntualità
maniacale) – molte pagine del Mo mama avevamo avuto il piacere di leggerle in
anteprima. Però tutte insieme sono una vera e propria riflessione, una
discussione sull'attualità. Praticamente un'opera di saggistica che chiede di
spaccare in mille pezzetti concetti obsoleti, falsi e, per di più, banali, che
i gesuiti di pd pdl sel e m5s vogliono farci passare per valori. Tra il nuovo,
fino a un certo punto, mito Renzi e il sempre fresco grillismo.
domenica 26 luglio 2009
Nero di Vito Antonio Conte

Tende da campo. Tante. Grandi, piccole e canadesi. Tutte colorate. Prevale l'azzurro. Fili con biancheria appesa ad asciugare. Auto e furgoni ai margini. Movimento. Poco. Lento. Ma non è un camping. Non sono al mare. Percorro la strada che ogni giorno devo per recarmi al lavoro. A Nardò. Ad appena un kilometro dal passaggio a livello, prima della città, sulla destra, tra gli ulivi, quel riparo improvvisato. No, non è un campeggio. E il colore dominante, a ben vedere, è un altro: nero. Nero d'Africa. Di uomini che non sono in vacanza. Di uomini che aspettano un'occasione di lavoro. Nero. Come il colore della loro pelle. Splendidi uomini d'ebano. Tra panni stesi ad asciugare dalle poche donne presenti. Nere anche loro: bellissime. Il vento asciugherà quegli indumenti, bagnati di sudore. Loro, gli uomini, aspettano un'altra giornata di sole. Attendono che qualche “caporale” bianco li ingaggi per la raccolta delle angurie (ma non solo). Si tratta di “ingaggio” senza regole, qualche volta arriva da un loro “fratello”. Attendono dignitosamente una chiamata. Altri sono per strada, a piedi. Raggiungono la prima stazione di servizio che s'incontra entrando (da Lecce) a Nardò, quasi di fronte allo stadio di calcio, subito dopo la chiesetta nel cui giardino si erge la statua di Padre Pio. Attendono il miracolo di un altro giorno di lavoro. Con dignità statuaria pari a quella del santo. Qualche giorno addietro l'attesa si è materializzata -non nel bianco “caporale”, ma- nelle divise della polizia. Ne hanno portati via una ventina, clandestini. I “caporali” circolano ancora. Per gli “schiavi dell'anguria”, invece, la polizia segna un altro VIA nella loro odissea iniziata con la fuga (dalla guerra, dalla fame, da mille altre insidie...) da uno dei cinquantatre Stati del continente Madre. L'ennesima ingiustizia quotidiana è compiuta. La vedo ogni giorno: sulla pelle luccicante di fatica di questi uomini tra i campi mentre raccolgono questi grandi frutti-sauri tondeggianti succulenti dolci croccanti e dissetanti, li ripongono in grandi contenitori di plastica, li caricano su camion, grandi e piccoli, spesso articolati che raggiungono il Nord d'Italia, dove fette rosse e fresche (del loro sudore malpagato e senza garanzie) vengono vendute a caro prezzo. Li vedo ogni giorno. Ognuno li può vedere, passando da lì. Ogni giorno di tutti gli anni, in questo periodo. In passato trovavano riparo in vecchi fatiscenti ruderi di campagna che il degrado ha fatto crollare rovinosamente. Nessun servizio igienico, nessuna garanzie contrattuale, nessuna tutela per loro. La dignità slavata dalla mancanza di dignità di chi li ingaggia illegalmente e di chi questo permette. Il bisogno sfruttato come sempre. Il sudore lavato dai frequenti temporali di questi giorni che fa di questa Terra sempre più luogo d'Africa caraibica. Io intanto raggiungo il mio Ufficio. Che non è un bell'Ufficio. Ma neppure decoroso. Né idoneo a svolgervi le funzioni cui è destinato. Ne avrei da sprecare parole per dire di quest'altra fatiscenza... Chi di dovere ne è a conoscenza. Da tempo. E non cambia nulla. Ma il mio lavoro, per quanto mal retribuito in un ambiente invivibile, almeno è... “regolare” e non posso lamentarmi se l'immobile in cui è allocato l'Ufficio (del Giudice di Pace di Nardò) in cui lavoro è squallido e in degrado, pressoché senza impianto di condizionamento (che d'estate si schiatta dal caldo), coi caloriferi insufficienti (che d'inverno fa freddo), senza scala antincendio (e già una volta un incendio c'è stato: al piano terra, col Personale al primo piano...), senza alcun sistema di sicurezza, senza alcuna vigilanza, senza collegamenti a internet, intranet e REGE, senza niente di niente, tranne muri scrostati e richieste (…) rimaste inevase (tranne qualche sporadico palliativo che non può chiamarsi intervento...). Eppure a Nardò c'è il Nuovo Palazzo di Giustizia. Proprio vicino al luogo dove sostano gli extracomunitari in attesa di un cazzo di lavoro del loro stesso colore! Dovrei dirla tutta, mi dice Maria. Prima o poi lo farò (e a lei, invero, ho detto sempre tutto... quel che ero, quel che sono, senza reticenze... ciò che voglio... e di solito -poi- non ho riserve mentali con alcuno... e quel prima o poi allora significa altro... sì, prima o poi racconterò un'altra storia, l'unica per cui è giusto vivere di cuore...) Ma, in questo caso, c'è che è sordo chi non vuol sentire e cieco chi non vuol vedere. E allora perché sprecare ancora parole? Le ho già sprecate con chi di competenza! Da tempo. E non cambia nulla! Ma io un lavoro “regolare” almeno ce l'ho. Loro no. E quando arriva è quel che è sotto gli occhi di tutti. Non c'è paragone. Perdio! E lungi da me la tentazione di farne (paragoni). Un dato, però, è comune tra la loro situazione e la mia... Se ne parla. Sempre. Ma non cambia niente. E non posso chiudere così. Avevo promesso che avrei bestemmiato soltanto per qualcosa per cui ne valesse la pena: beh, in questo caso la mia scurrilità è d'obbligo: io la destino a chi so, voi a chi vi pare: vaffanculo! E se proprio devo indicare un'altro finale e dare ancora colore e ritmo a questo pezzo, la cosa migliore che mi viene in mente è il ritornello di una canzone di Enzo Avitabile: “chest'è l'africa favurite/bonappetito”.
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