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martedì 19 gennaio 2010

MEMORIE DAL BUIO (Lupo editore): oltre la Shoah, la vita ritrovata nella voce di Aharon Appelfeld

LA FUGA DEI SOPRAVVISSUTI. Non passò per il camino. Non si fece polvere danzando nel vento. Sopravvisse allo sterminio dei nazisti Aharon Appelfeld, ebreo, riuscendo a scappare per poi divenire uno dei più importanti scrittori israeliani. “Tra noi scrittori sopravvissuti, la voce di Appelfeld ha un timbro unico e inconfondibile…”, scrisse di lui Primo Levi. Il filmaker Luigi Del Prete, presidente della Fondazione “Moschettini” di Copertino, lo ha incontrato a Gerusalemme, e di quell’intervista ha fatto, insieme a Lupo Editore, il film-documento “Memorie dal buio”.
ANIME SRADICATE. Di Aharon Appelfeld ha scritto anche Philip Roth: “L’arduo viaggio che nel 1946 portò Appelfeld ad approdare sulle spiagge di Tel Aviv sembra avere sviluppato in lui un’inesorabile attrazione per tutte le anime sradicate… Uno scrittore che ha fatto del distacco e del disorientamento un tema unicamente suo”. Forse anche per questo Roth ha scelto Appelfeld come uno dei protagonisti del suo ultimo libro, “Operazione Shylock”. Il documentario di Del Prete è lungo 42 minuti che scorrono lenti e delicati, in un susseguirsi di intense emozioni trasmesse da toni pacati, dal racconto, più che dei fatti già passati alla storia, delle sensazioni e degli stati d’animo di un bambino, poi adolescente, poi uomo che ha fatto i conti con i ricordi, con le esperienze dolorose che invano, lui come gli altri profughi, pensò di scrollarsi di dosso alla fine della guerra, quando “nessuno sapeva cosa fare della vita che aveva salvato”, perché “la memoria ha radici profonde nel corpo”.
STORIA DI UNA VITA. Ogni esperienza, anche la più terribile, è parte della “Storia di una vita”, quella raccontata nel suo libro così intitolato, di cui alcuni passi, letti da Renato Grilli su sfondo nero, intervallano le “risposte” e le foto d’epoca dell’archivio di Paolo Pisacane, che ritraggono i profughi ebrei a Santa Maria al Bagno, mentre tornano a scoprire l’umanità, a sentirsi vivi, “un’Italia non antisemita”, ricorda Appelfeld. Sgorgano così “memorie dal buio”, l’incanto di un incontro capace di insegnare, far riflettere, non dimenticare.
LE EMOZIONI OLTRE L’EGOISMO. Aharon Appelfeld, nella conversazione con Del Prete, fa un auspicio: “I giovani devono essere sensibili verso gli altri esseri umani, verso gli animali, verso la natura, verso le emozioni. E la sensibilità si coltiva con la musica, con la buona letteratura, con il buon teatro, con il buon cinema… Per essere un buon essere umano bisogna coltivare la propria sensibilità, essere in contatto con le sorgenti che alimentano la nostra sensibilità. Non è qualcosa che va e viene, è qualcosa che si deve alimentare sempre, che bisogna sviluppare. Senza sensibilità la nostra vita diviene un qualcosa di molto limitato, è una vita priva di orizzonti una vita edificata solo sull’egoismo, una vita povera”. “Memorie dal buio”, straordinaria occasione di conoscenza e di riflessione sull’immane tragedia della Shoah, è prodotto da Lupo editore e Fondazione Moschettini

lunedì 18 gennaio 2010

La pièce"Ciao Maschio!" tratta dall'omonimo libro di Valeria Parrella edito da Bompiani viene recensita da Elisabetta Liguori

«Ciao maschio», la nuova pièce interpretata da Cristina Donadio e diretta da Raffele Di Florio, partorita dall’omonimo volu¬me di Valeria Parrella, edito da Bompiani, è a teatro e in libreria. Con assoluto tempismo, oggi che non si fa che parlare di crisi delle identità. Un titolo come questo non può che evocare quello che fu il cult movie, pluripremiato, diretto da Marco Ferreri nel 1978. In quel surreale teorema cinematografico già si annunciava che un flagello s’era abbattuto sul mondo: la crisi della coppia. Si vaticinava la fine del mondo, dacché l’intera civiltà contemporanea sembrava ormai pronta ad alzar bandiera bianca, travolta dallo smarrimento e dal sarcasmo. Quello stesso clima di stupore e sconcerto lo ritroviamo nell’ultima opera di Valeria Parrella, autrice ormai solida e di certo non nuova a problematiche sociali. È bella la parola “Ciao”, lo afferma l’autrice, bella perché duale. Attiene sia all’incontro che al commiato. Raccoglie in sé i semi della speranza, come quelli della disperazione. Allude al cambiamento. Ed è bella anche la parola “maschio”, a pensarci, ancor più oggi che sembra avere acquistato una nuova ambivalenza. Il punto di vista scelto da Valeria Parrella per questa analisi è quello di una sessantenne. Questa Lei, in un’assurda notte d’ospedale, dopo un delicato intervento chirurgico, si ritrova a riflettere sulla propria esistenza. Il suo è un palcoscenico evanescente, impersonale, senza confini e per questo assai comune. La donna ne è protagonista insieme al suo passato. Tutti gli uomini della sua vita dialogano con lei in un soliloquio pieno di domande. Fantasmi, inquieti, fragili, ma ancora capaci di far male. Ogni risposta è uno strappo e una sorpresa, mentre la vita di tutti diventa campo di lotta collettiva, tra malinconia, recriminazioni e desiderio. Il tema è l’amore, per questo le domande che ne derivano sono piene di pudore, temono l’equivoco, la strumentalizzazione. Il testo è duro, perché dure sono le domande alle quali siamo chiamati. Quale è diventata la vocazione del maschio e della donna nei nuovi rapporti di coppia? Quali sono i nuovi desideri? Con quali debolezze e quali esiti ci confrontiamo ogni giorno? Cosa ci rende felici, cosa infelici? Perché non soltanto i ruoli tradizionali sono messi in discussione oggi, non solo il transgenico schizofrenico passare da un piano ad un altro, da vittima a carnefice, da oggetto a soggetto, da uomo a donna, ma il senso da dare alla personale ricerca della felicità. A qualunque età, ad ogni latitudine, da soli o in coppia. Non a caso la vicenda teatrale si chiude con una frizzante conversazione tra l’autrice e l’attrice Lella Costa e con una storiella conclusiva. Qui una vecchia, saggia e laida, aiuta Re Artù a comprendere quale sia la cosa più desiderata dalle donne: la libertà di essere quello che possono essere. La parola “libertà” pare essere la chiave di tutto, quindi. Una parola che non ha sesso, ma richiede mediazione.

domenica 17 gennaio 2010

Avatar, il nuovo film di James Cameron: potere all'ecologia! Intervento di Luciano Pagano




















Avatar, il nuovo film di James Cameron destinato a sbancare i botteghini di tutto il mondo, è sostanzialmente una favola ecologista. Un kolossal che racchiude in sé tutto il meglio, a vederlo, dei film epici e delle saghe ai quali lo spettatore è stato affezionato negli ultimi trenta anni, da Guerre Stellari al Signore degli Anelli. La prima cosa che mi ha colpito positivamente di Avatar è stata la mancanza di ogni tentativo di comunicare una “morale” in senso lato. Mi spiego. Quando il protagonista/avatar entra in confidenza con la popolazione degli indigeni di Pandora (i Na’vi), entra a far parte di un vero e proprio mondo nel quale, antropologicamente parlando, non abbiamo che di scoprire. Nel film veniamo a contatto con i riti e le usanze di un popolo prima d’ora sconosciuto; un popolo che danza all’unisono, che caccia, che danza, che vive all’interno di un albero accovacciandosi in amache ricavate da foglie giganti. Una popolazione che ‘adora’ la natura ed è strettamente in comunicazione con essa. Il protagonista una volta entrato a far parte di questo mondo ne acquisisce le tradizioni, fino a diventarne un abitante in piena regola. La parte del film dedicata all’approfondimento di questi aspetti è così curata e così preponderante rispetto al resto (laddove per resto si intenda l’incipit e la prima dimestichezza con la tecnologia avatar e la conclusione finale della Grande Battaglia) che lo spettatore ha modo di affezionarsi a una popolazione appena conosciuta, dispiacendosi della brutalità dei tentativi con cui verrà brutalmente combattuta. L’effetto di ciò che avviene in seguito, quando i terrestri vogliono forzare la colonizzazione di Pandora, è molto simile nel copione a ciò che potrebbe avvenire in film come 1492. Il capo della spedizione pensa soltanto al profitto che può trarre dai minerali, che cosa può interessargli dei discorsi vanesi di una Sigourney Weaver, la scienziata che ha scoperto che gli abitanti di Pandora sono in collegamento (network) con le piante e con la terra del loro pianeta, che costituiscono cioè una Rete di informazione e memoria storica? I militari riceveranno l’ordine di attaccare il Paradiso Terrestre, con le ruspe, l’esercito, gli aerei, gli elicotteri/libellula e i missili aerocomandati. Una delle cose che di sicuro colpirà gli spettatori sarà il pianto degli indigeni quando avverrà la profanazione dei loro luoghi di culto e la distruzione del loro Albero Totem Villaggio, nel quale vivono. Parlavo dell’assenza di una volontà di comunicare una morale. Il messaggio di fondo ecologista c’è, questo è vero, ma il tutto viene presentato rapidamente e con una leggerezza tale da non appesantire la visione del film come spettacolo puro. Non c’è lo spessore sufficiente perché le micro-storie (tranne quella tra il protagonista e la figlia del Re) vengano approfondite a scapito della narrazione. Tutto scorre rapidamente e, a essere sinceri, la durata totale della pellicola è poca rispetto a tutti gli spunti che vengono dati in pasto allo spettatore. Non a caso si parla di un kolossal dell’era Obama, semplicemente perché questa pellicola è la prima di questo livello nella quale si sia trasportata una sensibilità ‘differente’ nei confronti di un approccio all’altro. Per una volta gli americani, qui i “terrestri” (You’re not in Kansas anymore…), vengono messi da subito in cattiva luce quando la loro intenzione è quella di arrivare, prendere tutto e tornare a casa, senza preoccuparsi della civiltà e della popolazione con cui vanno a scontrarsi. Quando tutto sembra perduto, quando ogni sforzo di contrastare l’attacco (anche sullo stesso campo dei nemici) sembra vano, ecco che è la stessa natura a raccogliere tutte le sue forze per ribellarsi in un attacco finale e risolutivo; anche qui vengono rispettati i principi di Gaia, secondo la quale il pianeta è dotato di una capacità di autoregolamentazione tale per cui nonostante i nostri sforzi per distruggerlo esso è capace di salvarsi e preservarsi autonomamente. La seconda riflessione, questa localizzata nella prima parte del film, è quella relativa al rapporto tra realtà vera e realtà virtuale. Quando parliamo di realtà virtuale siamo abituati a immaginare un qualcosa che è separato da noi e che non può essere contiguo. La genialità della soluzione inventata da Cameron per Avatar sta, secondo me, nel fatto che la realtà virtuale (l’Avatar vero e proprio) convive nello stesso spazio e nello stesso tempo, ovvero sia condivide lo spazio e il tempo, dell’originale. Quando il protagonista è nel suo avatar, il suo corpo è fisicamente in un altro luogo, quando Jake Sully deve risvegliarsi ecco che il suo avatar, nella foresta, cade in preda al sonno, letteralmente come corpo morto cade, sviene a terra. Una soluzione narrativa che rende la continuità tra protagonista Jake Sully e il suo avatar. Ogni riferimento all’avatar inteso come a doppio di una ipotetica Second Life filmica precipita prima ancora di prendere il volo, l’Avatar, in questo film convive in un altro spazio, comunque vicino, con l’originale. Tanto è vero che Jake Sully sarà quasi sempre accompagnato alla dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver) anche quando prenderà il comando della ribellione della popolazione nativa. Al di là degli effetti speciali e di tutto ciò che concerne la tecnologia applicata , ciò che resta di Avatar è una favola/storia romantica nella quale una volta tanto non bisogna stare a rimpiangere il tempo passato, osservando le macerie e la distruzione che sono state portate come ferite dall’uomo bianco, in questo caso il “terrestre”. Almeno il finale è consolatorio, abbastanza perché ci si aspetti un Avatar 2, con il ritorno di chi è stato cacciato e una conseguente, nuova battaglia per la salvaguardia del Paradiso Terrestre, sia che si tratti di un paradiso proiettato nel 22 secolo sia che si tratti del nostro mondo. Buona visione.

su concessione dell'autore
fonte iconografica: http://www.cinematografo.it/cinematografo_new/allegati/12929/avatar_occhio.jpg

sabato 16 gennaio 2010

“Tredici di me” di Annamaria Mangia. Intervento di Angela Leucci

Un'Annamaria per tutte le stagioni. Anzi tredici. Come le tredici parti della sua anima che ci mostra in questo booklet, “Tredici di me”, una pubblicazione nata quasi per scherzo, ma pregna di quella che è realmente la poetica di Annamaria Mangia, grafica pubblicitaria con la passione per la poesia. I tredici componimenti che percorrono questo libretto, caratterizzato da questo inusuale formato tipico delle pubblicazioni dei Seventies, si snodano lungo i desideri, i sentimenti, le voglie, le paure dell'anima. Un'anima personale, che nell'aprirsi si fa universale. Ci sono dei forti richiami alle strutture tipiche della Beat Generation, ma il messaggio che passa più forte degli altri è che qui è la scrittura stessa a essere beat, spontanea, salvifica. Con degli intermezzi di Salento qui e là, musica, profumi, gesti rituali, colti in eredità da questa poetessa del Sibilo Lungo, movimento nato in questi anni e che si ispira all'opera di Antonio Verri. Quello che colpisce maggiormente è che Annamaria fa della quotidianità e dell'abitudine un'esperienza unica e irripetibile, sigarette col caffè, capelli che ingrigiscono, le luci che cambiano, da mattina a sera e viceversa. O i topoi presenti, che sono comuni a molti poeti, ma la ricetta iniziale ricorda tantissimo quella della Lussu (anche se qui ci appare una punta di pessimismo), che “cucinava” con le poesie per salvare il suo menage matrimoniale: per Annamaria la poesia è impasto di parole, che, in fin dei conti, servono a fare un “unguento che allevia il dolore per te sola”. Nella circolarità degli argomenti il pessimismo viene rovesciato pian piano per gradi giungendo al crescendo finale, in cui ritorna la luce, “che dentro di te poi ti illumini il viso e riprenda colore la vita”.

Alla Focara di Novoli con Lupo editore la letteratura s'infiamma

Domenica 17 gennaio 2010 alle ore 18.00 - 21.00 presso Spazio tenda del fuoco in Piazza Tito Schipa a Novoli .Anche nel 2010 a Novoli, in provincia di Lecce, si rinnova l'appuntamento con la tradizionale festa religiosa di San Antonio detta "La Focara" che si terrà dal 6 e al 18 gennaio 2010. Per l’importante manifestazione salentina, che ormai raccoglie migliaia e migliaia di visitatori da tutta la regione, ricca di appuntamenti e manifestazioni, la casa editrice salentina Lupo editore di Copertino, ha previsto per il 17 gennaio 2010 due appuntamenti. Il primo riguarda alle 17,00 la presentazione de "La Quinta Favilla" (Lupo editore) di Anna Grasso e Arianna Provenzano introdotte da Raffaele Polo, alla presenza del Sindaco di Novoli Oscar Marzo Vetrugno e l'arch. Antonio Curto Consulente Culturale del Comune di Novoli. Il secondo appuntamento a partire dalle 18,00 sempre alla Tenda del Fuoco nei pressi del falò, la presentazione della Collana Ciribibi (Lupo Editore) diretta da Stefano Donno e che presenterà gli autori Elio Ria , Patrizia Ricciardi, Elio Coriano, con letture a cura di Annamaria Mangia. Verrà inoltre presentato il volume "Divento" (Lupo editore) di Anna Maria De Luca, introdotta da Stefano Donno e Sandrina Schito.
PROGRAMMA DELLA LUPO EDITORE ALLA FOCARA DI NOVOLI
17 Gennaio ore 17,00 Tenda del Fuoco , Novoli
Presentazione de "La Quinta Favilla" (Lupo editore) di Anna Grasso e Arianna Provenzano. Incontra le autrici - Raffaele Polo. Interverranno Il Sindaco di Novoli Oscar Marzo Vetrugno e l'arch. Antonio Curto Consulente Culturale del Comune di Novoli

Il libro:
Antonio ha un sogno, quello di un fratellino che ancora non viene. Ha anche una speranza e - mentre in campagna i portatori raccolgono in fascine le sarmente per la grande focara di Sant’Antonio - si prepara con emozione all’appuntamento più atteso dell’anno. Potrà attuare questa volta il suo rito magico? Scenderanno accanto a lui le prime cinque faville?
17 Gennaio ore 18,00 Tenda del Fuoco, Novoli
Presentazione della Collana Ciribibi (Lupo Editore) diretta da Stefano Donno e che presenterà gli autori Elio Ria , Patrizia Ricciardi, Anna Maria De Luca, Elio Coriano. Letture a cura di Annamaria Mangia


Ciribibi collana diretta da Stefano Donno

L’intensità di un sentimento, il trillo di un suono, un leggero sbatter d’ali, parole sussurate a fil di fiato, il rifrangersi della luce sulle nostre vite, un attimo … ed è Poesia. Ciribibi è la collana dedicata a tutti i poeti che credono nella magia e nell’incanto dei versi.

Presentazione di
"Divento" (Lupo editore) di Anna Maria De Luca. Dialoga con l'autrice Stefano Donno e Sandrina Schito

Interverranno Il Sindaco di Novoli Oscar Marzo Vetrugno e l'arch. Antonio Curto Consulente Culturale del Comune di Novoli
I libri:
Elio Ria, Altri versi
"Leggere Elio Ria è viaggiare in carrozze di poesia su binari d’anima, rotaie parallele e opposte di conferma e di disconferma di sé, un viaggiare che disorganizza il tempo nei ricordi in cielo, in senso inverso al vero, nella magia del sogno" Elena Franchitti. L’opera è suddivisa in sei sezioni: La perversione del dubbio - Nel silenzio del dolore - Dio, gli uomini, i sacerdoti e il male - La magia di un Sud persa nella credenza - Versi diversi - Il Tempo. I testi evidenziano l’attrazione che il poeta prova verso contenuti metafisici e la sua propensione alla problematizzazione del reale alla ricerca filosofica.
Patrizia Ricciardi, Come fanno le serpi a primavera
Noi camminiamo al vento, gli occhi storti, soli di fatto e aspri nel respiro. Nell’essenzialità espressiva di questa raccolta, la poesia appare come suprema dignità del dolore e della solitudine, come cifra di verità difficili e trasfigurazione del quotidiano. C’è qualcosa di eversivo nelle poesie di Patrizia Ricciardi, un fermento sotterraneo che percorre il linguaggio di ogni giorno che si fa allegoria e percorso.
Anna Maria De Luca, Divento
Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel In principio era il Verbo, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvive fisicità e metafisicità. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole. (Teresa Romano)

foto di Tonio Serio

venerdì 15 gennaio 2010

Perché ho smesso di scriverti versi, di Simone Consorti (Aletti editore)

Ho avuto il piacere di leggere una bella raccolta poetica di Simone Consorti dal titolo “Perché ho smesso di scriverti versi” edito da Aletti editore. Si tratta di un volume diviso in tre sezioni dal titolo rispettivamente “Armi da difesa”, “Perché ho smesso di scriverti versi”, e “La realtà va e viene”. Inoltre due interventi post-fattivi di Stefano Petrocchi e Marco Mantello chiudono il lavoro di questo poeta. Parliamo di una dimensione lirica dove è possibile solo stabilire i punti di partenza dell’incedere per versi, e non la meta che le parole e il ritmo di questo lavoro possono indicare al lettore. Pare che nella maggior parte di questi componimenti non ci sia nessun altro desiderio che quello di scovare in maniera indagativa le zone d’ombra non solo dei rapporti amorosi, ma di tutto quello che comporta come loro intera proposta fenomenica: dall’idea del corteggiamento, a quella della spasmodica, anzi in questo caso direi nevrotica, ricerca di un ancestrale “io/tu” che incorpori e inglobi stabilmente l’archetipo romantico e forse un po’ decadente dell’ “altra metà del cielo”. Simone Consorti non parla di lotta sociale, e se lo fa si permette questo “lusso” –soprattutto nella seconda sezione del libro - con grande eleganza e acidula ironia e sarcasmo (un po’ con un risus sardonicus alla Stirner). Egli cerca di creare a mio avviso un dialogo con un specie di avatar/alter ego femminile, fortemente voluto come rapporto che lo salva dall’immiserirsi nella quotidianità che squalifica slanci e disperde energie. Sovente nella scrittura di Consorti, mi riferisco sempre nello specifico a questa prodotto editoriale di Aletti, amarezza e forza rivendicano attraverso il forte gesto semantico della rima più volte utilizzata dal “nostro” come risoluzione formale idonea all’impianto complessivo dell’opera, il diritto alla dimensione intimistica. E vengono seguiti allora alcuni sentieri dove al poesia di quest’autore conosce amore e dolore all'interno di istanti che a volte appaiono magici, a volte appaiono incantevoli, a volte appaiono meschini e ipocriti e a volte appaiono … e basta!. Con “Perchè ho smesso di scriverti versi” siamo di fronte alla prova provata di un’espressione pura, ovvero la poesia esprime se stessa in una dimensione di amore/odio nei confronti della realtà, e soprattutto diventa canto avvelenato attraverso la voce di un Io poetico forte e solenne che punta il dito verso tutte quelle bassezze, tranelli, sublimi malie che solo il seducente universo donna è in grado di generare. Simone Consorti è poeta, fine e originale, in grado di stupire chi avrà il piacere di leggerlo nella rivisitazione dissacrante di celebri versi di Leopardi come di Montale, come nella descrizione di quei momenti topici dell’esistenza di ciascuno di noi, quando viene alla luce l’oggetto del desiderio (la donna sempre, la donna maledettamente…) che ci spinge ad abbandonarci spesso a recriminazioni, sovente a rimpianti, frequentemente a far parlare letti e divani al posto nostro

D’ in sulla vetta d’ una torretta

Visionario, solitario stai
Passero che sogni ben altra vetta
Passero che non ti passerà mai
Di lì vedi dentro una toletta
Una donna che con gesti gai
E’ più di mezz’ ora che si umetta
Mentre in cucina il forno fa guai (…)

giovedì 14 gennaio 2010

“In viaggio con la poesia”. Ritratti di Poesia – quarta edizione

Si svolgerà il prossimo 22 gennaio, tra le millenarie pietre del Tempio di Adriano, nel cuore di Roma, la quarta edizione della manifestazione “Ritratti di Poesia”, promossa dalla Fondazione Roma nell’ambito del suo programma di iniziative culturali nel settore dell’ “Arte e cultura”. La rassegna vuole favorire la diffusione della cultura poetica e dei valori artistici, etici e sociali, di cui essa è portatrice attraverso incontri, confronti, letture, idee, versi e voci, con la partecipazione di importanti autori, italiani ed internazionali, e di giovani promesse, nell’ottica di un rapporto interattivo tra i protagonisti e il pubblico. “Ritratti di Poesia – dichiara il Presidente della Fondazione Roma, Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, ideatore della manifestazione, di cui è curatore l’Avv. Vincenzo Mascolo – è diventato negli anni uno dei principali appuntamenti culturali dell’inverno romano. La scelta di promuovere una manifestazione dedicata alla poesia – continua Emanuele – origina dalla considerazione che essa non ha soltanto un valore estetico ma anche etico e civile: ogni prodotto dell’uomo dovrebbe offrire una possibilità di maturazione spirituale e i versi ci consentono un’apertura al mondo, permettendoci di avere una relazione autentica con gli altri e di ricondurre al centro dell’attenzione il valore della Persona”.
La manifestazione verrà aperta ufficialmente nella tarda mattinata dal Sen. Sandro Bondi, Ministro dei Beni e delle Attività culturali e dal Presidente Emanuele, che porterà il suo saluto a partecipanti e pubblico. Quest’anno la rassegna amplia le sue proposte con tre nuove iniziative. La prima novità, “Ritratti di poesia internazionale”, è un incontro con tre poeti stranieri dell’area mediterranea, lo spagnolo Juan Carlos Mestre, il greco Sotirios Pastakas e la siriana Maram Al-Masri, che leggeranno alcuni dei loro componimenti poetici più noti. L’appuntamento riprende una delle principali finalità perseguite dalla Fondazione Roma Mediterraneo, nata su proposta del Presidente Emanuele nel 2008 dalla Fondazione Roma, ovvero la promozione del dialogo tra i Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum, nel superamento delle barriere di ordine culturale, sociale, religioso ed economico che ancora oggi dividono i popoli. L’attenzione alla storia letteraria spiega la seconda novità dell’edizione 2010, il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di Poesia”, un riconoscimento alla carriera per un poeta italiano che ha contribuito all’affermazione della cultura nazionale al di là dei confini. A leggere le poesie del vincitore sarà l’attore Cosimo Cinieri. La terza novità della rassegna, dal titolo “Poesia e canzone d’autore”, è rappresentata da “In-Cantus”, uno spettacolo ideato dal maestro Beppe D’Onghia e interpretato da Roberto Vecchioni, in cui si fondono musica classica e contemporanea, melodie tradizionali e versi d’autore, per dimostrare come il linguaggio poetico percorra le epoche, gli stili, le forme d’espressione, restando capace di parlare a tutti. Vecchioni dialogherà con il pubblico, parlando del proprio rapporto con la poesia.
La manifestazione riprenderà anche molti degli appuntamenti sviluppati con successo nelle precedenti edizioni, come l’incontro che aprirà la giornata, un “dialogo” del poeta Roberto Piumini con gli alunni di alcune scuole medie romane. A seguire, dopo l’apertura ufficiale della manifestazione, sette poeti emergenti italiani, Beatrice Bressan, Tiziana Cera Rosco, Irene Ester Leo, Bianca Madeccia, Roberto Raieli, Vanni Schiavoni e Sarah Tardino, leggeranno i propri versi e parleranno di un poeta importante per la loro formazione. A conclusione della mattinata verrà assegnato il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di Poesia”. Il pomeriggio si aprirà con l’omaggio a un grande poeta straniero del Novecento. Dopo Jorge Luis Borges, quest’anno sarà il turno del cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. A dare voce ai suoi versi sarà Luca Barbareschi. Subito dopo, l’appuntamento con “Ritratti di poesia italiana”, in cui interverranno quattro importanti protagonisti del panorama letterario nazionale, Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone, Dante Maffia e Gabriella Sica.
La giornata si concluderà con “Ritratti di Poesia internazionale”, appuntamento con i poeti del Mediterraneo e con lo spettacolo “In-Cantus”. All’interno del Tempio di Adriano, inoltre, saranno presenti punti di incontro con case editrici (“ilfilodipartenope” con una selezione di libri d’artista, “Manni”, “nottetempo”), e riviste di settore (“erbafoglio”, “Polimnia”), oltre a uno spazio multimediale dedicato alla poesia in rete. Ritratti di Poesia anche quest’anno sarà presente in rete. La manifestazione è aperta al pubblico con ingresso libero fino ad esaurimento dei posti.

Info, contatti e accrediti stampa:
Carla Caiafa

Fax - 06/98188903
338/6812902
06/98188901
carlacaiafa@inventaeventi.com
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IRVINE WELSH, CRIME (Guanda). Intervento di Nino G. D'Attis

Un uomo, una donna, una bambina e una banda di mostri. L’ultimo romanzo dell’autore di Trainspotting, nell’ottima traduzione di Massimo Bocchiola riprende Ray Lennox, personaggio secondario de Il Lercio e lo mette su un Boeing 747 che dalla Scozia lo porterà negli States insieme a Trudi, sua promessa sposa. Ray è in vacanza. Ray è in convalescenza dopo l’indagine (finita male) su un serial killer pedofilo. Prende pillole, vede fantasmi, ha una mano fracassata, la sua ragazza gli sembra un’aliena intenzionata a coinvolgerlo in un matrimonio extraterrestre. Ray è una minaccia per se stesso, però cerca di tenere duro. La sua vita è al fatidico bivio che separa la luce dalle tenebre: marchiato a fuoco dai sensi di colpa per non essere riuscito a salvare l’ultima vittima, in via di riabilitazione da una dipendenza dalla cocaina, il poliziotto perde la testa durante una lite con Trudi e nel giro di un’ottantina di pagine, subito dopo l’incontro con due tipe strambe in un localaccio, finisce in un grosso guaio a Miami. A centrocampo, il destino ci mette un’altra bambina ridotta a giocattolo sessuale da una rete di maiali, così il nostro antieroe alla frutta non ci pensa due volte e si lancia a testa bassa verso il pericolo. Il resto? Be’, cercate di non perdervelo per nessuna ragione al mondo, insieme a tutto ciò che gravita intorno all’opera migliore di Welsh da molto tempo a questa parte. Un libro che parla di ombre scavando bene in profondità. Un romanzo parecchio lontano dalla satira sociale con gruppo di tossici scozzesi in prima fila. Ray, Trudi e la piccola Tianna sono personaggi che non si dimenticano facilmente: umanità pestata dai cattivi pensieri, dalle occasioni perdute. I paesaggi americani visti dallo scrittore europeo hanno ben poco di patinato, proprio come le pagine di Perfect Bride (la rivista che Trudi sta leggendo per prepararsi al grande passo) dopo quattro interminabili giorni all’inferno.

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mercoledì 13 gennaio 2010

Alessandro Raho, pittore realista che registra il silenzio. Intervento di Maria Beatrice Protino

Alessandro Raho (Nassau, Bahamas 1971) utilizza la pittura ad olio per realizzare quadri dalla textures densa e stratificata, composita e diversificata, ed offre allo spettatore una sua personale visione del mondo attraverso il suo particolarissimo immaginario la cui genesi prende spunto da un grande archivio privato di modelli e di immagini fotografiche selezionate dell’artista. Le scenografie si rifanno all’architettura della Bahamas e alle sue atmosfere tropicali, ai tipici tetti delle case e alle bianche verande fiorite, alle azzurre piscine, fra lingue di mare e piccoli porti: scenari incantati che ripropongono particolari condizioni climatiche e singoli momenti del giorno, come albe, tramonti, o pomeriggi assolati, sempre assolutamente silenziosi. Dopo i suoi studi al Goldsmiths college, Alessandro Raho (www.alessandroraho.com) matura l’interesse per la presa diretta del reale. Lavora su fotografie e still da film e guarda ad artisti come David Hockey –l’artista che fa dello spazio il fulcro del suo lavoro- e Alex Katz –il pittore amante dello stile semplice e glam, dei ritratti essenziali e nitidi- e dichiara apertamente la sua passione per la grande tradizione pittorica rinascimentale d’ispirazione caravaggesca. Le atmosfere sono metafisiche alla Hopper, eppure i paesaggi, i ritratti, le nature morte rivelano l’interesse per i generi tradizionali della storia dell’arte. Lavora sui dettagli e si autodefinisce pittore realista. Eppure l’oggettività della rappresentazione punta oltre la descrizione dell’immagine: le sue opere sembrano visioni malinconiche e ferme, silenziose, più che semplici riproduzioni ordinarie, che lasciano allo spettatore una surreale sensazione di quiete.

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martedì 12 gennaio 2010

Psicomagia di Alejandro Jodorowsky (Feltrinelli, Nuova edizione)

Ho da poco terminato di leggere e da qualche giorno sto tentando di comprendere le profondità di un libro come “Psicomagia” di Alejandro Jodorowsky. Alla fine del libro ci si sente come disorientati, soprattutto perché non si riesce a stabilire sia da quali dimensioni proviene il sapere riversato nero su bianco all’interno di questo lavoro, sia se si tratta di una conoscenza vera e propria degna di portare questo nome. Già, perché chi è avvezzo a letture che spazziano dalla magia, all’alchimia, alla meditazione trascendentale, allo sciamanesimo troverà felicemente sintetizzate tutti gli aspetti e i contenuti di queste discipline, in un unico corpus che possiamo definire anche noi come “psicomagia”. Ma di cosa stiamo parlando? Una prima e superficiale lettura del volume in oggetto, condurrebbe il lettore a liquidare il tutto come cialtroneria. Cerco di essere più preciso. A differenza magari di guru da Osho (che Jodorowsky defnisce come un personaggio immobile a furia di combattere il suo Io, tanto da non poter essere una guida per quanti vogliono liberarsi da un fardello così grande come il proprio Ego) a Yogananda sino ai nuovi illuminati come Bob Proctor o Ronda Byrne, non affida ad eventuali ed ipotetici allievi delle regole pratiche per raggiungere un livello di esistenza superiore, anzi … mi sembra di aver capito che si tratta di una sorta di meditazione psico-panica, includente un lavoro costante del soggetto interessato a questa disciplina, sui simboli e le metafore che costituiscono il tessuto connettivo su cui poggia l’intera realtà. O meglio ancora, una trans/valutazione dei simboli, delle metafore, dei gesti che rompono meccanismi di routine e sviluppano nuova coscienza e mente che creano a loro volta identità sublimate e sublimanti la poesia del reale. Naturalmente occorre specificare che la terminologia dell’autore spesso riprende concetti appartenenti a diverse discipline e studi, ma che debbono essere associati all’interno del contesto teorico sviluppato dal “nostro”. E alla base delle considerazioni espresse in quest’opera, la Poesia, come produttore della attualità e ricerca del sublime, la fa da padrona. Anzi diviene il motore di ricerca per invertire la rotta delle nostre paure, sciogliere i nodi del malessere, sfondare le muraglie dell'incubo. Alejandrò Jodorowsky consiglia, un po’ come ha fatto Georges Ivanovič Gurdjieff in numerosi interventi anche pubblici, un atto paradossale che scuota l'immobilità psico-patologica dalla quale non riusciamo a liberarci. Un atto di volontà soprattutto, dettato dall'inconscio e tradotto nella poesia di una trasgressività onirica quotidiana. L’obiettivo principe della psico-magia è la cura dell’altro, che può e deve avvenire attraverso un distaccato coinvolgimento dello psico-mago nel tracciato auto-biografico del “paziente”. Jodorowsky ascolta, maieuticamente interroga, esplora il subconscio emotivo dei suoi interlocutori e pazienti senza forzare i significati. La realtà per il “nostro” è una trappola sacra, dove attraverso la messa in scena di un teatro dell’immaginifico, ciò che appare caotico e confusionale trova la sua ontologica configurazione e collocazione.

Alejandro Jodorowsky, nato nel Cile del Nord nel 1929, figlio di immigrati ebreo-ucraini, si è trasferito dal 1953 a Parigi, dove ha fondato con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento di teatro "panico". Oltre che direttore di teatro, Alejandro Jodorowsky è autore di pantomime e pièce teatrali, di romanzi e libri di fumetti, ma la notorietà di Jodorowsky è dovuta soprattutto ai suoi film, dei quali ricordiamo Il paese incantato, dall'omonima opera di Arrabal, El Topo, La montagna sacra, Santa sangre-Sangue santo e Musikanten.


Una terapia panica
ISBN: 9788807814129

momentaneamente non disp.

Prezzo € 12,00


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lunedì 11 gennaio 2010

Figura di donna in un alfabeto di luce: mostra fotografica di Francesca Ascalone a Maglie dal 17 gennaio 010














La fotografia di Francesca Ascalone non si può collocare in un tempo o in uno spazio preciso. Bianco e nero, come un crepuscolare Woody Allen d'annata, giochi di luce che ricordano prostitute caravaggesche, figure che escono dal buio per reclamare identità perdute. Nascono così le quattro Maddelene famose, quelle ispirate a opere di Donatello, Masaccio, Lefebvre e Canova e che raccontano la cronaca di un dolore annunciato, fotogrammi fatti di alfabeti morse di luci e ombre, disperazione di corpi che tendono tra voglie terrene e sofferenze paradisiache.
Partita quasi per scherzo, la fotografia di Francesca Ascalone va evolvendosi tra i suoi studi accademici, che potrebbero anche non esserci, il talento a volte non ha bisogno di educazione per esprimersi a fondo: una genia di artisti, in fondo, non è mai andata all'università. La personale di Francesca Ascalone, dal titolo “Imago – figura di donna”, sarà esposta a Maglie dal 17 gennaio, presso lo spazio allestito da Libri & Musica. Nel corso dell'inaugurazione, il primo giorno dell'esposizione, si terrà una miniconferenza sulla figura della donna nel cinema, con letture “femminili” a cura della performer Adele Maruccio, come “Donna che parla in fretta” di Anne Waldman. A concludere un dj set sulle voci femminili nella musica: Aretha Franklin, Etta James e Gloria Gaynor scalderanno il buio delle fotografie, mettendo in risalto le luci, quelle che sono dentro agli occhi di tutte le donne.

(Angela Leucci)

A COR DO INVISÍVEL – MARIO QUINTANA (Editora Globo – 6ª edição). Intervento di Adriana Maria Leaci

Não é simples falar de poesia. Talvez porque é a mesma poesia que se fala sozinha, sem precisar de apresentações, de introduções, de explicações. Poesia se sente, se inspira, o resto são só palavras. Se nesse momento insisto em falar é porque se trata de Mario Quintana. Um poeta que conheci há pouco, com meu pesar, e lamento muito não te-lo apreendido em tempos mais remotos. Seus escritos podem ser definidos, pela classe intelectual, como herméticos ou minimalistas mas, na realidade, são todos versos de um coração simples que sabe observar. Ouso definir Quintana como o poeta do óbvio e do riso. Do óbvio porque é sempre muito claro quando expõe seu raciocínio. Do riso porque é difícil não sorrir ao ler um seu poema. Neste seu último livro, datado pela primeira publicaçao em 1989, cinco anos antes da sua morte, pode-se descobrir como, em 72 poemas, com seus versos breves e livres que o caracterizam, a sua poesia assume a mesma força da natureza, exprimindo o resumo do seu pensamento encantador de todos os seus anos vividos. Nele se encontram poemas que partem dos primeiros anos da sua mocidade até chegar aos últimos tempos, que se colegam como fios de um tecido. A intensidade do sentimento de Quintana faz materializar a alegria tanto quanto a tristeza. A sua constante admiração pelo universo, pelo criado, evocam a beleza de todos os seres, em todas as eras conhecidas. E até uma catástrofe, para o autor, pode se transformar em uma oportunidade otimística, como neste poema chamado “As civilizações”:

As civilizações desabam por implosão... Depois, como um filme passando às avessas
elas se erguem em camera lenta do chão. Não há de se nada... Os arqueólogos esperam, pacientemente, A sua ocasião!

Tudo o que envolve a sua existência não passa com indiferença pelo seu pensamento. Tudo surpreende na leitura desse volume, inclusive o que o mesmo Quintana diz sobre a sua obra: “O poema é uma garrafa de náufrago jogada ao mar. Quem a encontra salva-se a si mesmo.” Antes dele ninguém teria enxergado o mundo da cor que ele enxergou. E as cores já estavam todas lá, onde sempre estiveram. Invisíveis aos que não souberam tecer uma trama de palavras como Quintana. Poucos observam o mundo como o poeta e, sem ele, o invisível continuaria a não ter cor.

domenica 10 gennaio 2010

PORCA DEMOCRAZIA DI ALDO QUARTA (LUPO EDITORE) il 15 gennaio all'Hotel Risorgimento a Lecce

“In una democrazia, il popolo sovrano è tale se non viene escluso, attraverso i suoi rappresentanti, dalla gestione della cosa pubblica”. Mentre appare sempre più urgente ritrovare il senso profondo del suffragio universale, giunge da Aldo Quarta un’articolata riflessione sulla possibile dialettica fra società civile e organismi politici. Chi rappresenta la volontà popolare e chi è il popolo? Tra richiami storici e citazioni costituzionali, un importante apporto critico all’analisi dei tempi che corrono, un’esortazione alle più generose passioni della coscienza civica, un appello ai valori su cui si sono fondate e si reggono le società moderne.

PORCA DEMOCRAZIA DI ALDO QUARTA (LUPO EDITORE) il 15 gennaio alle ore 18,30 presso l'Hotel Risorgimento Via Imperatore Augusto, 19 a Lecce. Interverranno con l’autore:
Sen. Giovanni Pellegrino, Avv. Lorenzo Ria, On. Raffaele Baldassarre, Dott.ssa Federica De Benedetto, Dott.ssa Anna Cordella, Dott.ssa Mariangela De Carlo

GALILEO GALILEI: IL DIRITTO EVERSIVO DEL DUBBIO. Intervento di ANDREA RICCI

Immaginiamo un immenso edificio, un palazzo meraviglioso, una reggia, costruita secondo le più antiche ed ingegnose tecniche, un capolavoro per l’umanità intera. Da tutto l’ecumene vi sono giunti scrittori e scultori, per abbellire col fior fiore della loro arte le centinaia di stanze, le decine di lunghi e sontuosi corridoi. Nulla al confronto di Versailles, nulla Caserta; la raffinatezza degli intarsi, l’eleganza delle volute, la suggestione dei dipinti testimonia che in essa i più grandi geni della bellezza hanno raggiunto la maturità, donando in cambio le punte supreme della propria arte. Il gotha dei poeti, filosofi, musicisti e teologi si riunisce negli immensi saloni affrescati, sotto l’attenta egida del “maestro di color che sanno”, delle sue parole e dei suoi testi. Davvero questo palazzo è un gioiello, un tesoro inestimabile per l’umanità, tanto più che all’ombra dei suoi splendidi colonnati trova ristoro anche la gente più umile. Durante i torbidi temporali che a volte si verificano nella zona, qualsiasi pellegrino può rifugiarsi e sostare in prossimità della calura dei giganteschi ed elegantissimi camini, degustando il dolce odore di incenso che emanano i raffinati candelabri scolpiti con foglie d’acanto. Nessun pagamento si pretende da questi pellegrini, purché essi semplicemente evitino di sviare le alte speculazioni di tanti saggi, i quali, comunque, non mancano di confortare i forestieri che capitano, elogiando la perizia dei manovali e la genialità degli ingegneri, che hanno potuto concepire un’opera così alta, inimitabile e inimitata, preziosissima. Immaginiamo ora un uomo, un singolo uomo, miserrimo fuscello pensante che, preso da inspiegabili velleità distruttrici, si insinui una notte nei sotterranei della reggia, in borsa un piccone, un martellaccio e altri attrezzi da demolitore. Per quasi vent’anni è stato ospite delle stanze e delle torri d’avorio del palazzo, e a tali livelli giunge ora la sua ingratitudine (già è stato ammonito per le sue smanie di esplorazione, nonostante ciò egli avanza imperterrito e spietato). Servendosi delle mappe che suoi amici (feccia sovversiva di cui è diventato il degno compare) gli hanno fornito, si addentra per ciò che egli stesso, non fosse per le mappe e la luminosa lanterna che si reca appresso, definirebbe un “oscuro labirinto”. Pochi mesi sono passati, e della grandissima reggia non è rimasto che qualche brandello di muro, poche stanze dal tetto sfondato, una colonna semidiroccata. In una sola notte l’intero palazzo è crollato, in una manciata d’ore centinaia di povere anime hanno evacuato l’edificio, per assistere, sulla cresta di una collina vicina, all’inesorabile sgretolarsi delle torri e degli archi rampanti, al trionfo di polvere e cenere e travi spezzate e bassorilievi rotti e divelti. Il fragore del crollo è quasi sommerso da quello dei singhiozzi e delle lacrime. Immediato ordine di cattura viene diramato per l’esploratore notturno: un solo colpo, un solo colpo di piccone ben assestato gli si è rilevato sufficiente per provocare l’immane catastrofe. Egli ora è sconcertato, ma sa di aver fatto la cosa giusta. E’ considerato un pazzo, ma di lì a pochi secoli tutti lo celebreranno come un eroe. Bell’acquisto a demolire edifici millenari, se alla lunga la tua fama è destinata a eguagliare quella di Galileo Galilei! Questo apologo dai connotati kafkiani è la più chiara e suggestiva delle metafore cui potremmo riferirci per descrivere la portata sconcertante dell’opera galileiana: definire il pensiero e l’azione del pisano come rivoluzionario sarebbe un approssimativo eufemismo. Nelle poche decine di pagine del suo “Sidereus Nuncius”, Galilei sgancia un dirigibile di nitroglicerina sull’Europa intera: l’esplosione ha l’effetto di una bomba chimica, ed il contagio si propaga sino agli estremi confini del mondo (pochi decenni dopo la pubblicazione dell’opuscolo in latino, il nome di Galileo arriva fin sulla bocca dei filosofi cinesi e degli altri studiosi dell’Estremo Oriente). La teoria copernicana trova in Galilei il più formidabile catalizzatore per assurgere al ruolo di alternativa ufficiale, opposta e contrastante al plurimillenario palazzo delle idee aristotelico e tolemaico. La Terra non è più l’unico centro di rotazione dell’Universo, i corpi celesti sono scabri, corruttibili, simili alla Terra, le stelle sono infinite, le nebulose hanno natura materiale, nel XVII secolo queste erano bestemmie in tutti i sensi, inammissibili per chi allora dettava legge (leggi: clero). E davanti alla Chiesa, davanti all’uomo, Galileo osa affermare che bisogna “rifar le teste degli uomini”, che la conoscenza deve prescindere dalla religione, che l”ipse” della famosa frase non è altro che un fallibile uomo come tutti, che le esegesi dei teologi non possono più appellarsi al significato letterale delle Scritture (e per la verità, a questa mirabolante scoperta era giunto, agli esordi della stessa cristianità, tal filosofo Filone di Alessandria).come non ammirare colui che per la prima volta afferma che “l’intenzione dello Spirito Santo esser d’insegnare come si vadia al Cielo, e non come vadia il Cielo”, come non ammirare chi per primo afferma il valore “della sensata esperienza” confermata dalle “necessarie dimostrazioni”, chi per primo contrappone al “mondo di carta” dominato dal principio di autorità l’esperienza del “mondo sensibile” reale?come non inchinarsi di fronte a colui che ha concepito e divulgato l’idea di una conoscenza dinamica, costantemente discussa, razionalmente dimostrata? Come non riconoscere l’arguzia di un uomo che ha rivendicato l’autonomia degli “occhi della mente e della fronte” al cospetto di intere biblioteche di speculazioni teoretiche, polverose e obsolete? L’intera scienza è debitrice di Galileo Galilei, ma non solo. Non solo la scienza, con il pisano è nato un nuovo modo di concepire il mondo, l’uomo, il pensiero, la libertà, dunque la libertà di pensiero. “Freedom is freedom to say that two plus two make four. If that is granted, all else follows”: è ciò che scrive un tesissimo Winston Smith nel costantemente violato spazio privato della propria scrivania, è ciò che concepisce Gorge Orwell nel suo capolavoro antiutopistico 1984, è anche ciò che riecheggia nelle parole di un sarcastico Galileo immaginato da Bertold Brecht (“ho studiato matematica, signor Galileo” “ciò può tornarci utile, se vi induce ad ammettere che due e due possono anche fare quattro”). Ecco, ora affiora per davvero il senso della vita dello scienziato, il significato, la grandezza del suo personaggio: “sventurata la terra che ha bisogno di eroi” afferma il protagonista dell’opera di Brecht. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, perché Galileo non lo è: nella sua umana debolezza egli preferisce l’abiura (atto tremendo, atto sconcertante, atto che gela il sangue nelle vene del lettore consapevole); Galileo non è il Socrate della cicuta, Galileo è l’uomo pieno di dubbi che del dubbio ha fatto il fondamento del suo pensiero. Nulla è più importante del supremo valore della vita, e ciò esalta ancora e ancora il messaggio di colui che più che mai appare uomo; non si potrà mai “vietare agli uomini guardar verso il cielo”, sia esso per scrutare i misteri del cosmo, sia per intonare un canto notturno alla luna, sia semplicemente per sognare e trovare la forza per continuare a farlo. Libertà di pensiero e di iniziativa, libertà contro l’oppressione ed il totalitarismo, lotta contro la cristallizzazione del pensiero, lotta mediante gli strumenti della ragione, in primis l’ironia, che dalla ragione germoglia e alla ragione si appella. “Hasta la victoria siempre!” è esattamente ciò che veicola quel “Eppur si muove…” attribuito al Galileo che cambierà il mondo e gli uomini. Libertà di affermare il proprio pensiero, libertà di appellarsi alla verità: nel XX e XXI secolo il messaggio di Galileo sembrerà il grido di un sopravvissuto che già presagisce e mette in allerta contro i prossimi inevitabili naufragi dell’umanità.

Fonte iconografica: http://www.ebusiness-lab.gr/galileo/images/galileo-galilei.jpg

sabato 9 gennaio 2010

“Frankenweenie” e l'amore per gli animali. Intervento di Angela Leucci















Mary Shelley probabilmente non immaginava che il suo romanzo “Frankenstein”, nato, com'è noto, per gioco, sarebbe stato così parodiato e sfruttato in tutti i suoi sottotesti. Marty Feldman che si dilettò in giochi di parole come “Lupu ululà castellu ululì”, non è il solo esempio parodistico per cui il romanzo sulla “creatura” resta sempre molto attuale. Una delle parodie più interessanti è stata realizzata da Tim Burton nel 1984. Si tratta di “Frankenweenie”, un mediometraggio di 29 minuti circa, da cui il regista sta traendo un remake lungo realizzato in stop motion, tecnica che caratterizzava un altro capolavoro di Burton, “La sposa cadavere”. Il corto racconta di un bambino che perde il suo cane in un incidente con un'auto. A scuola, impara gli effetti degli impulsi elettrici e prova a sperimentarli sul cadaverino del suo defunto migliore amico. L'esperimento funziona, ma il piccolo deve tenere nascosto il cane perché si rende conto che non tutti capirebbero, a cominciare dai suoi genitori. Papà e mamma, dopo le prime resistenze, decidono di organizzare un incontro col vicinato per “presentare” il loro nuovo animale domestico, ma tra i vicini serpeggia il pettegolezzo e il timore infondato che il cane sia un mostro: così lo inseguono fino al mulino di un minigolf, cui danno fuoco, ma a farne le spese sembra essere il bambino, che resta intrappolato nella struttura di legno. Ma il cane, fedele, lo trae in salvo ed esala l'ultimo respiro per lo sforzo. Dopo il rocambolesco inseguimento, i vicini, impietositi e rincuorati dal coraggio dell'animale, fanno ritentare al bambino l'esperimento con la batteria delle proprie automobili, il cane ritorna a vivere e seduce anche una meravigliosa barboncina. Ricco di particolari divertenti e paradossali, il film può essere non solo un manifesto per la lotta contro le discriminazioni della diversità, ma anche una sorta di professione di fede per tutti gli amanti dei cani, contro chi, ad esempio, si scaglia contro il disegno di legge sui “cani di quartiere”, che talvolta non viene compreso appieno dalle persone timorose dell'aumento del randagismo.
La realizzazione di questo corto rappresenta uno degli strani litigi avvenuti tra Tim Burton e la Disney, che avrebbe poi distribuito il corto (ma solo molti anni più tardi), bollandolo sulle prime come uno spreco di denaro. Accadde anche con “Vincent”, corto d'animazione ispirato da Vincent Price, che ne prestò la voce: in quel caso, la Disney bocciò il lavoro, ritenendolo addirittura troppo lugubre per i bambini. Ma forse non è giusto che teniamo i bambini sotto una campana di vetro e, nei casi in cui possiamo affidarci a un valente professionista del sogno come Burton, può darsi sia bene ogni tanto far vedere loro un po' d'orrore, finto e con un lieto fine, piuttosto che l'orrore quotidiano di tutto ciò che ci circonda.

Link di uno spezzone su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=mvtMztLcZTE

venerdì 8 gennaio 2010

On my Skin di Monica Silva

Negli importanti spazi di Galleria Cavour a Bologna, in contemporanea con Arte Fiera 2010 la fotografa Monica Silva metterà in mostra il progetto inedito ON MY SKIN inserito nel circuito Arte Fiera OFF. Il progetto sponsorizzato da Open Project in collaborazione con la Galleria Stefano Forni sarà visibile dal 20 al 31 Gennaio 2010. In occasione della Notte Bianca dell’Arte, sabato 30 Gennaio, anche Open Project aprirà i suoi spazi di via E. Zago 2/2 a Bologna ove sarà possibile visionare altre opere dell’artista. Un corpo femminile come forma scultorea, architettonica, e allo stesso tempo uno spazio che diventa luogo su cui imprimere immagini, parole, pensieri. Il progetto On My Skin vuole essere una elaborazione metabolica del vissuto che l’artista attraverso le proprie esperienze emotive riconosce su di se e nell’universo femminile.
L’artista
Monica Silva è nata a San Paolo, Brasile, dove ha vissuto e lavorato nel settore televisivo e della moda fino al 1985. Dal 1992 al 2001, collabora con registi come Robert Richardson, Federico Brugia, Daniele Lucchetti, Renzo Martinelli, Zack Snyder in qualità di aiuto regista per produzioni cinematografiche nazionali e internazionali. Collabora dal 2000 con Max, Flair, Vanity Fair, Io Donna - Style - Magazine - Sette ed il Corriere della Sera, Panorama Travel, Il Venerdì Repubblica, I Viaggi del Sole, Espresso, PC Photo; ha inoltre svolto vari servizi fotografici per copertine cd e per libri d’arte.
Il partner
Open Project srl è una società di architettura e ingegneria fondata nel 1984 da specialisti dei vari settori della progettazione e della consulenza per meglio affrontare i molteplici aspetti del processo del costruire. E' oggi una struttura multidisciplinare, organizzata per sviluppare tutti gli aspetti del progetto di architettura ed ingegneria, dalla concezione, al controllo diretto della realizzazione.
www.openproject.it

Artista: MONICA SILVA
Luogo: Galleria Cavour - P.za Cavour - Bologna
Apertura: Mercoledì 20 Gennaio 2010 ore 18.00
Durata: 20 – 31 Gennaio 2010
Info: Galleria Stefano Forni 051.225679 Fax: 051.225679
Website: www.galleriastefanoforni.com E-mail: arte@galleriastefanoforni.com

Che cosa ti sei perso di Alessandro Dal Cin (Lupo editore, collana InBox)

“Forse quello che speravo in fondo al cuore era non trovare mai quel maledetto fotografo e passare l’intera vita in viaggio a cercarlo. Non è la destinazione quella che conta, ma il viaggio.”. Partiamo dalla storia: in una uggiosa domenica a Milano, mentre Mattia passa in rassegna le opere di un fotografo nell’ambito di una piccola rassegna d’arte, un’immagine turba il suo animo; l’obiettivo di Armando Filabelli (l’artista in questione) ha immortalato la sua vecchia casa d’infanzia, palcoscenico di una inspiegabile e misteriosa tragedia, ritraendo addirittura un particolare del muro dell’abitazione, dove campeggia una frase sibillina che sembra contenere un indizio sulla scomparsa improvvisa di suo padre e sulla devastante follia di sua madre. Comincia così una caccia all’uomo, alla ricerca disperata del fotografo, che scopre vivere in Spagna. Un viaggio che porterà il protagonista di questa storia, nel cuore dell’Andalusia, in piccoli paesi dove vivono micro-comunità di personaggi stravaganti, eccentrici, passionali ad ogni modo fuori dalle righe, che incrociano il suo percorso. Scampato rocambolescamente ad una rischiosa e quasi mortale avventura in cui è stato suo malgrado coinvolto da due balordi, Mattia trova nella dolce Ester un porto sicuro, nonostante le rivelazioni che la donna gli farà sulla sua vita. A mio avviso parliamo di un vero e proprio romanzo “on the road”, dove al posto dell’America di Kerouac troviamo i sapori, i colori, la sensualità calda della Spagna e dell’Andalusia, dove il tempo sembra costruire architetture esistenziali di vera e propria deriva e marginalità. Per movimentato è movimentato il lavoro di Alessandro Dal Cin edito da Lupo editore, una vera e propria storia iniziatica sull’esistenza, dove realtà e sogno entrano in scena creando un dialogo in cui i misteriosi segnali del cambiamento, si trasformano in intense pagine di vita. Insomma un romanzo dinamico, dalla scrittura agile e forte, che contribuisce ad amplificare il clima avventuroso della storia. Interessante il far partire la storia con un protagonista giovane e dannato, segnato da un mistero legato alla sua infanzia: in una sola notte, infatti, la placida vita familiare è stata spezzata dalla sparizione del padre e dalla pazzia della madre. Partendo da una fotografia esposta in una mostra, Mattia va in Spagna in cerca dell’autore dello scatto, sperando di conoscere la verità sui fatti che lo coinvolsero quando aveva all’incirca otto anni. Si “perde” così tra esperienze alternative, evocando le figure più significative del suo passato, tra stupendi ritratti di immediatezza e grande ritmo, dove ogni personaggio è caratterizzato, più per una dimensione interiore che per una vera e propria descrizione figurativa ed iconica. Adatto ad un pubblico giovane e agli spiriti “giovanili” ancora affascinati dalla Beat Generation.

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giovedì 7 gennaio 2010

L’interdetto, di Luca Canali, Hacca (Macerata, 2009). Intervento di Nunzio festa

Il cuore della società scopre degli spifferi. E dentro questi varchi, in sostanza, “L’interdetto” di Canali sconfigge la banalità delle consolazioni. Il metodo di Luca Canali è semplice. Prendere, intanto, in mano e per le mani il disincanto per accoppiarlo con il battito della fine. Poi lasciarlo sfiorire e fiorire nelle dimensioni perdute di uomini normali e sofferenti. Il romanzo dello scrittore Luca Canali, penna che non sopporta limiti d’ingegno e d’impegno ed è abituata a protestare contro l’omologazione culturale e consumistica, approfitta vagamente del poliziesco ‘de genere’ per affrontare alcune pietre dei secoli. Il commissario Strina, infatti, per esempio: è un uomo tanto affaticato al punto d’essere a qualche passo dal pensionamento ma annunciato da una tremenda malattia; però, il Paolo Strina, che un po’ di passato se lo ricorda e prova a ricordarcelo grazie alle passeggiate stilistiche dell’efficace Canali, devi fare i conti con il fato. Più il maestro, ex professore e schivo scrittore Stefano Nullian. Quello che appunto sarà l’interdetto. Ovvero un uomo che affronta i tempi cercando di dare beni materiali agli animali e prendersi dalle persone, e in special modo dalle donne, quello che può. Provando poca anzi pochissima stima per questo nostro genere. La stessa compagna di Strina s’imbatterà nel maestro-scrittore Nullian. Ma l’uomo più segnato dall’ex professore sarà appunto lo Strina medesimo. Insomma, Paolo Strina più che turbato dal Nullian si fa sommergere la vita dal fascino di questi. Come molti altri personaggi delle vicende e della storia tutta. Spesso senza volerlo. D’altronde lo scrittore sta in mezzo ad almeno un paio di cosette della quotidianità di Paolo. L’interdetto deve vedersela con parenti velenosi, oltre che con parte dell’inospitale mondo, atti a toglierli soldini dalle tasche rovinate. Per giunta. Canali, che è autore notevolmente segnato dallo studio e dall’analisi dei flussi intimi dell’umanità, sorride ai malati umani concedendo proprio al maestro Stefano Nullian la meravigliosa capacità di dimostrarsi debole e forte motivo esistenziale del destino di tanti minori. Quest’opera di Luca Canali è prova letteraria che di nuovo tocca i malesseri, e li fa sussultare.

mercoledì 6 gennaio 2010

Annalisa Fantini, L’innocenza indecente (Il Filo) il 15 gennaio allla Biblioteca Provinciale “Bernardini"

“Le sedici storie de L’innocenza indecente si presentano piuttosto come ‘brani di vite’ giustapposti, su cui l’autrice con scrittura sobria, lucida, ma carica di tensione narrativa, focalizza l’attenzione, con l’immediatezza della narrazione breve, in qualche caso lasciata come in sospeso e quasi senza conclusione. [...] Inquadrature in esterno, dove riconosciamo ambienti e vicende che hanno attraversato il campo visivo della cronaca, sono lo sfondo all’interno del quale i personaggi femminili si muovono con passo talvolta indecente, il più delle volte innocente. [...] In questi contesti la narratrice si addentra quanto basta per assistere al nascere, in mezzo al ‘lezzo di una umanità sporca di sudore e sfinimento’, di un sentimento di solidarietà femminile appena accennato, sul quale posa lo sguardo con discrezione, quasi con pudore. [...] C’è, al di qua della penna che annota, uno sguardo che sa vedere altro. Perché anche quando ogni cosa sembra macchiata, vengono alla luce sentimenti puri che restituiscono dignità.”

(dalla prefazione di Ada Donno)


Annalisa Fantini è nata a Cesena. È laureata in Lettere Classiche all’Università di Perugia. Giornalista professionista, ha fatto parte della Commissione nazionale per gli esami di accesso alla professione. Fa parte del corpodocente del corso “Donne, politica e istituzioni” dell’Università di Lecce. Cronista e inviata, collaboratrice di testate locali e nazionali, quali “Il Messaggero”, le reti Mediaset e alcune TV estere, svolge ora attività di free lance e di fotografa. Nel 2008 ha vinto il concorso “Conflitti” della casa editrice Mediterranean Media (Cosenza) ed è stata fra le finaliste del premio letterario indetto dalla Consulta femminile di Trieste, nella sezione racconti. È presente, come fotografa, in uno dei volumi che l’Università di Siena ha destinato alle professioniste europee. Si è occupata a lungo di immigrazione e della mafia pugliese. Si occupa sempre delle tematiche relative alla questione femminile.

Venerdì 15 gennaio alle ore 18,00 presso la Sala Teatrino della Biblioteca Provinciale “Bernardini” sede Convitto Palmieri, in p.zzetta Carducci- Lecce. Intervengono Loredana Capone – vicepresidente Regione Puglia, e Teresa Romano – libreria Gutenberg

Fuori i secondi di Vito Antonio Conte (Luca Pensa editore) visto da Paola Scialpi

Carissimo Vito Antonio,
inizio a scriverti con qualcosa che ti riguarda...” Aprii le ali/faticosamente/e più mai le chiusi".
Leggendo il tuo libro” Fuori i secondi”sono stata trasportata spesso in un’atmosfera rarefatta dove natura e uomo si identificano a tal punto che occhi azzurri diventano mare , capelli biondi oro del cielo, chiome inebrianti terre dell’Africa.
E poi i ricordi fatti di odori, profumi in cui perdersi per ritrovare luoghi perduti atmosfere dimenticate o volutamente messe da parte . Allora mi chiedo perché certe immagini le cerchiamo e poi con la stessa intensità le perdiamo, perché se appartengono a quello che poi siamo diventati, quando tornano alla mente ci inondano di malinconia. Già, la malinconia ... che spesso sento impadronirsi dei tuoi versi come qualcosa che appare e fugge dinanzi alla tempestività della quotidianità che ci rapisce ma che non ci fa più volare.
Allora perché chiuderle quelle ali, perché quasi vergognarsi di essere un sognatore, uno degli ultimi romantici. La vita si impadronisce di noi e ci trascina nei grandi magazzini, nella giungla del lavoro ,ci porta a guardare in faccia l’ipocrisia, l’odio, l’indifferenza...... ma se le ali le teniamo bene aperte nessuna cosa potrà intaccare “ L’ultimo cielo “.
Ciao!
Paola Scialpi

martedì 5 gennaio 2010

Daniela Marcheschi, “Si nasce perché l’anima – poesie e poemetti 1995/2003" (Zona Franca)

A me è toccato l’esemplare n.113. Fortunato senza ombra di dubbio, non tanto per il fatto di essere detentore di un volume a tiratura limitata, quanto di poter leggere della bella poesia, racchiusa in uno scrigno di cartone, e realizzata da chi i versi li compone pensando alla delicatezza ed eleganza di maioliche dal sapor medio-orientale, alla rarefatta bellezza della misura contenuta nel pensiero della nostra madre patria Grecia, alla forza del silenzio che ricerca il principio primo di ogni cosa. Il fatto è che la casa editrice “di cartone” Zona Franca (www.zfzonafranca.it) di Lucca ma nata a Buenos Aires, sa come si fanno i bei libri, anche con tutte le difficoltà di un’operazione ai limiti dell’esistenza dadaista come questa pubblicazione di Daniela Marcheschi dal tiolo “Si nasce perché l’anima – poesie e poemetti 1995/2003". Che sia una necessaria classificazione della critica quell’attribuire al poiein della Marcheschi una sorta di configurazione strutturale e semantica propria della meta/poesia, mi va sinceramente stretto, almeno per il mio personale modo di sentire questa splendida voce, che va conosciuta, apprezzata, sostenuta, incoraggiata, amata. Sento in Daniela (perdona questo mio esserti così amico), non la forza e il rigore della studiosa, che pure ha nel suo dna, ma la perfezione della ricercatezza nel ritmo e nella pausa che diviene oscurità appagante dal frastuono dell’inutile. Per questa donna che i versi li genera e li accudisce come madre ancestrale filosofia non è una dimensione geografica opposta alla musicalità del verso, anzi è strumento di controllo del furore e della gioia creatrice, di un sacrilegio panico che sa usare machiavellicamente metafore e rime, asserzioni e persuasioni. Imperdibile!

No, non voglio ignorarlo
quest’animale rubacuori
caro a Luciano, a Omero,
e che nel peso ha stipato
a memento un chiaro destino.
E’ logico
quel suo portamento.
E’ lui
il maestro della mia presunzione.

(da ‘Versi dell’asino’, poesia che sul finire si apre così al macrotesto letterario)

Perché dovremmo dimenticare
Talete di Mileto,
secondo cui tutto
è ripieno di dei ?
Perché farne un nome vuoto
quando il pensiero è frutto
del corpo
e insieme suo parallelo ?

Daniela Marcheschi è nata a Lucca, dove risiede. Studiosa e critico, ha pubblicato i suoi versi in varie riviste (tra cui Tabula, Tellus, Frontiera, Confini, Poesia) e in volume (L’Amorosa Erranza, Siena, 1984; Sul molo Foraneo, Firenze, 1991, prefazione di Giuseppe Pontiggia; La Regimazione delle acque, 1992, con un saggio di Amedeo Anelli). E’ redattrice di Kamen, rivista di poesia e filosofia diretta da Amedeo Anelli. Nel 1996 ha ricevuto il Rockfeller Award per la Letteratura (Critica e Poesia) e nel 2006 è stata insignita del Tolkingspris dell’Accademia di Svezia.

lunedì 4 gennaio 2010

Da Josè Pablo Feinmann per Marcos Y Marcos a Raffaele Polo per Lupo editore: due letture da Vito Antonio Conte

Che sto in una fase di volitiva refrattarietà lo sapete di già. Che questo stato è concausato dalla mia stessa interiorità e dall'idiozia d'intorno l'avrete intuito e, se anche così non fosse, c'è poco da aggiungere. È, la mia, una sorta di distacco da certo mondo, senza apatia, però. Anzi, densa di mille intensità. E di marginalità, che mai smetto di frequentare. Cose che cambiano la pelle e l'anima. Che rendono la pelle più vulnerabile e l'anima più fragile. E, paradossalmente, ispessiscono la serenità. Più dei tanti sms di auguri per Natale che scaldano poco. Specialmente se privi di mittente. Sì , non ho nessun numero di cellulare memorizzato sul mio telefonino. Ma ho risposto a tutti, per educazione. Perché vi dico dei cazzi miei? Non lo so, ma non sono capace di scrivere in un altro modo. Comunque. In questi giorni, a parte lavorare e struggermi, ho scritto come un pazzo e letto ancor di più. Vi dirò cosa e valga come invito alla lettura, ché sembra vada di moda -pur fottendomene io delle mode- in questo periodo. Se amate il noir, leggete “Il cadavere impossibile”, di José Pablo Feinmann (edito da Marcos Y Marcos, Collana Le Foglie, 2004, pagine 159, € 10,00). Una storia argentina che si consuma in uno sperduto carcere femminile dell'ultima Terra in una sequela di colpi di scena annunciati e compiuti, tra assassini e assassinati, la piccola Anna, attrice e strumento intorno alla quale ruota la narrazione, che ha la peculiarità di svolgersi in forma di epistola-bozza inviata dall'autore all'editore, senza risparmio alcuno di trovate letterarie. Il libro s'apre così: “Egregio signor Editore, io sono un uomo che vive appartato, distante. Distante non solo dal rilucente mondo delle lettere, con i suoi principi e cortigiani, ma anche distante e appartato dal mondo in generale.”, e confesso di averlo acquistato per questo incipit. Un libro ricco di spunti, un inseguirsi di generi oltre il noir, del quale non svelerò -per ovvie ragioni- altro, a eccezione che tutta la storia si sviluppa intorno a questa frase: “Solo l'amore può resuscitare i morti”. Il secondo libro che ho letto in una manciata di giorni, è “Il cielo in ogni stanza”, ultima fatica di Raffaele Polo (Lupo Editore, 2009, pagine 79, € 12,00). Stavo per aggiungere a “ultima fatica” “letteraria”, ma non l'ho fatto perché di letterario in questo libro non c'è nulla. Nel libro di Polo si muovono persone reali che, per altro accidente, si trovano a cercare il senso della vita, cercando di restare aggrappati alla stessa nell'incombenza della fine. Un libro di una delicatezza che supera ogni forza, in cui le parole servono unicamente a dar voce a uno stato dell'esistenza, spesso quello terminale, che viene generalmente ignorato, inconsapevolmente o scientemente. Quello stato è l'unico passaggio della vita comune a ognuno, l'unico che ci rende davvero uguali. Conoscerlo migliora la vita di ciascuno e, dunque, quella di tutti. Non so quando questo pezzo uscirà. Prima della fine di quest'anno o quando il nuovo sarà iniziato? Non lo so! Lo chiudo alle 22:11 del 29 dicembre: un giorno triste e bello, per me. Ignorare quanto sopra mi permette di evitare di dirvi: auguri. Ché, anche questo avrete capito, non è che ci impazzisco. Il mio nuovo libro (sono arrivato a pagina 25) è “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout, ve ne parlerò quando l'avrò finito. Buona lettura e quant'altro desiderate, comunque.

domenica 3 gennaio 2010

Elisabetta Liguori, Rossano Astremo/ Tutto questo silenzio (Besa) Intervento di Antonio Errico

Quanto più il lettore tenta di non farsi intrappolare dall’intreccio, e cerca di stabilire una distanza con la narrazione in modo da avere una visione complessiva, per cercare di maturare un’opinione circostanziata e lucida, tanto più si ritrova intrappolato negli accadimenti che si incastrano, si annodano, si aggrovigliano. Una scrittura sola per due autori: “Tutto questo silenzio”, un romanzo di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo, edito da Besa. Straniamento. Leggerezza. Corporalità. Iperrealismo e antirealismo insieme. Condensato metaforico. La consapevolezza dell’ambiguità della realtà come principio teorico per l’indagine dei fatti, per lo scavo nella loro struttura semantica, nei loro enigmi. Il sospetto, il dubbio, il rifiuto di qualsiasi condizione aprioristica costituisce il metodo della ricerca e della narrazione. Lo spettacolo della quotidianeità – tragedia, commedia, tragicommedia - che si manifesta in grumi psicologici, in ossessioni malcelate che ad un certo punto esplodono. Il fondale che Liguori e Astremo scandagliano è quello dell’inconscio, o del rimosso, delle verità profonde che non si vedono, che non perdonano, che tarlano il pensiero, lo dilaniano, lo perforano. Sotto lo scorrere in superficie dei fatti, nell’apparente ineluttabilità degli avvenimenti, si agita l’inquietudine mostruosa di personaggi che si confrontano con un’angoscia quieta, pacata, ma stravolgente. Non pensano nemmeno di opporsi a quella vertigine di alienazione che li priva di ogni equilibrio, al gorgo di incomunicabilità che li risucchia. Si lasciano andare nel nulla senza nessuna resistenza, si nascondono nel grigiore, si scagliano contro l’altro, soprattutto contro se stessi, con tutto l’ odio disperato e cieco che hanno dentro. Si dividono in due categorie: i pesci arpionati e i pescatori. Sono figure con una personalità contratta, contorta, nevrotica, con una visione del mondo che non va oltre le pareti di un appartamento, reclusi in una soggettività egoistica, senza spiraglio, senza scampo. Sanno, o più esattamente sospettano, che la salvezza dell’uomo è possibile solo se si riesce a sentirsi pietosamente simili a un altro. Ma talvolta – o spesso - questa sensazione si avverte quando è troppo tardi, quando la specularità con l’altro non può più realizzarsi perché si è oscurata. Così Mirko si sente pietosamente e dolorosamente simile a qualcuno quando il dramma che taglia in due la sua vita si è già consumato, dopo che ha ucciso a sassate una prostituta bionda e forte come un giunco: si sente simile al volo che quella creatura fa oltre la balaustra nel buio di uno squallido posto di mare. Simile nell’orrore e nel ridicolo. Poi si scopre simile a Carlo, il fratello: simile nella allucinata disperazione. Sono esistenze inchiodate a qualcosa: “un muro, una cornice, un destino qualunque”. Tutto questo silenzio è un viaggio nei gironi infernali dell’esistere nella contemporaneità. O forse dell’esistere e basta. Ma la contemporaneità rappresenta probabilmente in modo più evidente, plastico, le scene del dramma. Fa vedere meglio – perché è più crudelmente viva - l’ostilità oscura, la guerra sotterranea che coinvolge e sconvolge i destini nella loro solitudine traumatica, irrimediabile. Paralizzati da una sorta di predestinazione, i personaggi di questo romanzo costituiscono la smentita vivente che l’uomo sia l’artefice della propria fortuna. Falso. Completamente illusorio. L’uomo è trascinato da una forza invisibile e incomprensibile, rapito da una benedizione o da una maledizione, non va da nessuna parte per scelta progettata e consapevole. “Tutto questo silenzio” finisce che dei personaggi non si sa più niente. Mirko viene condannato a settemilatrecento giorni di carcere. Vent’anni. La somma dei giorni della vita della figlia. Si sa questo e nient’altro. E’ come se si disperdessero in un deserto in cui nessuna narrazione li potrà mai raggiungere, dove nessuna consolazione potrà lenire il dolore muto, raggrumato. Non hanno più esistenza. Sono nati insieme al racconto. Muoiono insieme al racconto, lì, sepolti nelle pagine. A loro non appartiene nulla se non questa scrittura, se non questo gesto di pietà che gli ha dato fiato, se non lo sciabordio di parole sulla battigia della loro vita che per il tempo che dura il narrare apre uno spioncino nella cella del loro silenzio, irrimediabile e terribile.

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sabato 2 gennaio 2010

Life Codes di Patty Harpenau (Newton Compton)

Come nella migliore tradizione di tutto ciò che ruota attorno al Nuovo Pensiero, anche se non espressamente dichiarato dalle intenzioni dell’autore o dell’autrice di turno, anche questo lavoro di Patty Harpenau dal titolo “Life Codes” (I codici della vita – ndc) uscito in Italia per i tipi di Newton Compton, presenta vuoi per scelta tipografica dell’editore italiano, vuoi perché forse esiste un protocollo editoriale internazionale da rispettare quando si tratta di questi argomenti, innumerevoli similitudini con le opere della Byrne, Proctor, Wolf, Vitale, etc. Scelta del carattere ben leggibile, immagini a tutta pagina ampie e chiare sovente ricche di colori che vanno dal giallo al celeste sino all’azzurro, e una copertina finemente lavorata, con grande cura, e senza lesinare sulla qualità della carta, come se la casa editrice sapesse di avere tra le mani un “best winner”. E cosa assai singolare, viene presentato come saggio, quando in realtà si tratta di un racconto lungo dalla trama molto semplice: una giovane donna olandese ripara a Gerusalemme alla ricerca di se stessa, e in questo viaggio avrà l’opportunità di scoprire quali sono i codici di accesso per la saggezza e la ricchezza spirituali, guidata da maestri illuminati di grande spessore e umanità, ma anche da entità in grado di poterle insegnare il cammino. Per ogni giorno della settimana viene proposto un segreto, nel quale vengono esposti una serie di concetti basilari indispensabili per comprendere il significato profondo di categorie come Amore, Fiducia, Perdono, Abbondanza, Desiderio. Ma l’aspetto che fa apparire interessante il percorso di scrittura e contenuti seguito dall’autrice, risiede nel fatto che molte delle notizie, delle nuances, delle riflessioni portate avanti abbracciano svariati livelli di profondità teologiche, che vanno dall’islamismo, all’ebraismo, al cristianesimo. Alcune delle fonti citate, fanno riferimento addirittura ai “vangeli proibiti” di Qumran, con l’obiettivo non tanto di costruire alcunché di provocatorio, quanto invece di dare luce ad un tentativo sincretico di meta-religione che unisca in un unico corpus le tre grandi religioni monoteistiche. Progetto ambizioso, ma irrealizzabile in sole centocinquantacinque pagine ( a tal proposito consiglio la lettura di , "Gesù e i Manoscritti del Mar Morto" di David Donnini edito da Coniglio editore, che rivela aspetti inediti sulle origini della più diffusa religione del mondo, spiegando le modalità con cui, nel corso dei secoli, la Chiesa ha progressivamente costruito un Cristo sempre più distante da quello della realtà storica e individuando tutta quella serie di rapporti tra l'ebreo Gesù e i movimenti rivoluzionari e fondamentalisti della Palestina del I secolo; della vera identità degli apostoli e di Maria Maddalena; dell'autentico luogo di nascita di Cristo; dei contatti tra il Cristianesimo primitivo e la comunità essena di Qumran; del ruolo centrale avuto da Paolo di Tarso nella elaborazione del Cristianesimo). Questi i codici proposti tra le pagine di questo volume:

* LUNEDÌ, IL CODICE DI DIO, Legge dell’unità
* MARTEDÌ, IL CODICE DI ADAMO, Legge della dualità
* MERCOLEDÌ, IL CODICE DI EVA, Legge del desiderio
* GIOVEDÌ, IL CODICE DI GIOSUÈ, Legge del perdono
* VENERDÌ, IL CODICE DI MIRIAM, Legge dell’amore
* SABATO, IL CODICE DI MOSÈ, Legge della fiducia
* DOMENICA, IL CODICE DI ABRAMO, Legge dell’abbondanza

E in questo modo, secondo le indicazioni contenute nella premessa del libro,devono essere letti e meditati. Nulla di nuovo però quanto a messaggio proposto in questa sede, dal momento che non si parla di legge dell’attrazione, di fisica quantistica, di visualizzazione o focalizzazione ma di pura e semplice mistica per molti aspetti. In sintesi Dio è Tutto, Dio è Uno, Uno è Dio, Tutto è Dio, Noi siamo Dio, Dio è Noi … basta scoprirlo … come?! Con l’autoconsapevolezza e la Fede in questo assunto. L’antica saggezza contenuta in questi sette Codici sprigiona una forza straordinaria e rivela a ciascuno di noi la strada da seguire per assicurarsi una vita felice. «E adesso… respirate profondamente, sedetevi comodi e godetevi il viaggio. Fatevi guidare dai maestri che incontrerete tra queste pagine e lasciate che le loro parole vi riscaldino il cuore, affinché i codici possano davvero cambiare la vostra vita.»

Patty Harpenau
- è autrice di numerosi libri, che hanno venduto centinaia di migliaia di copie. Dopo aver studiato a lungo con Deepak Chopra, ha tenuto numerosi seminari in Europa, Oriente e Stati Uniti. Vive ad Amsterdam con il marito e i due figli. Life Codes è già stato pubblicato con grande successo in numerosi Paesi. Per scoprire tutto sui sette Codici visitate il sito www.thelifecodes.com.

Un solo libro 3 grandi religioni, 7 codici che cambieranno la vostra vita
ISBN: 9788854116559

Prezzo € 18,00


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venerdì 1 gennaio 2010

Insegnare a leggere nei primi tre anni di vita. Aidan Chambers: «è l’unico modo per rimodellare la generazione Y» di Maria Beatrice Protino

Aidan Chambers, autore inglese di romanzi per cd. giovani adulti e teorico di una pedagogia della lettura «insegnata, precoce e ad alta voce» - come lo si sente dire nelle conferenze o nei corsi di formazione per docenti – sostiene l’importanza della pratica alla lettura fin dai primi mesi di vita del bambino grazie all’intervento dei genitori prima e degli insegnanti poi. Nel 38° Congresso mondiale Iasl – associazione internazionale di biblioteconomia scolastica – svoltosi per la prima volta in Italia, presso l’Università di Padova, oltre 300 studiosi venuti da tutto il mondo hanno ascoltato la teoria esposta da Chambers, secondo cui gli adulti soli hanno il potere e il dovere di trasmettere il sapere – e il piacere – del leggere. I genitori dovrebbero, così, iniziare a nutrire il cervello dei loro figli fin dai primi vagiti e poi gli insegnanti continuare, trasformando le loro classi in veri e propri templi della lettura. Il professore sostiene che, essendo l’attività della lettura innaturale e in assoluto fra le più difficili per l’essere umano, è necessario tener conto della nostra dimensione fisica, dei cinque sensi, cercando di soddisfarli. Così, se nella lettura silenziosa si ascolta il ritmo, in quella fatta ad alta voce e magari da altri – che trova il suo antenato nella tradizione orale che fa parte della storia stessa dell’uomo – si può riscontrare uguale importanza, perché un bambino legge più in fretta ciò che ha già ascoltato. Importantissima anche la precocità: da zero a tre anni nel cervello si forma una sorta di network di connessioni e conoscenze, per cui maggiori saranno le informazioni, maggiore la capacità del bambino di accrescerle sempre di più e spontaneamente. I genitori e i docenti dovrebbero, quindi, insegnare la lettura e questa non dovrebbe durare meno di venti o trenta minuti al giorno e arricchirsi regolarmente con testi sempre più complessi in relazione all’età del bambino.

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