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domenica 3 gennaio 2010

Elisabetta Liguori, Rossano Astremo/ Tutto questo silenzio (Besa) Intervento di Antonio Errico

Quanto più il lettore tenta di non farsi intrappolare dall’intreccio, e cerca di stabilire una distanza con la narrazione in modo da avere una visione complessiva, per cercare di maturare un’opinione circostanziata e lucida, tanto più si ritrova intrappolato negli accadimenti che si incastrano, si annodano, si aggrovigliano. Una scrittura sola per due autori: “Tutto questo silenzio”, un romanzo di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo, edito da Besa. Straniamento. Leggerezza. Corporalità. Iperrealismo e antirealismo insieme. Condensato metaforico. La consapevolezza dell’ambiguità della realtà come principio teorico per l’indagine dei fatti, per lo scavo nella loro struttura semantica, nei loro enigmi. Il sospetto, il dubbio, il rifiuto di qualsiasi condizione aprioristica costituisce il metodo della ricerca e della narrazione. Lo spettacolo della quotidianeità – tragedia, commedia, tragicommedia - che si manifesta in grumi psicologici, in ossessioni malcelate che ad un certo punto esplodono. Il fondale che Liguori e Astremo scandagliano è quello dell’inconscio, o del rimosso, delle verità profonde che non si vedono, che non perdonano, che tarlano il pensiero, lo dilaniano, lo perforano. Sotto lo scorrere in superficie dei fatti, nell’apparente ineluttabilità degli avvenimenti, si agita l’inquietudine mostruosa di personaggi che si confrontano con un’angoscia quieta, pacata, ma stravolgente. Non pensano nemmeno di opporsi a quella vertigine di alienazione che li priva di ogni equilibrio, al gorgo di incomunicabilità che li risucchia. Si lasciano andare nel nulla senza nessuna resistenza, si nascondono nel grigiore, si scagliano contro l’altro, soprattutto contro se stessi, con tutto l’ odio disperato e cieco che hanno dentro. Si dividono in due categorie: i pesci arpionati e i pescatori. Sono figure con una personalità contratta, contorta, nevrotica, con una visione del mondo che non va oltre le pareti di un appartamento, reclusi in una soggettività egoistica, senza spiraglio, senza scampo. Sanno, o più esattamente sospettano, che la salvezza dell’uomo è possibile solo se si riesce a sentirsi pietosamente simili a un altro. Ma talvolta – o spesso - questa sensazione si avverte quando è troppo tardi, quando la specularità con l’altro non può più realizzarsi perché si è oscurata. Così Mirko si sente pietosamente e dolorosamente simile a qualcuno quando il dramma che taglia in due la sua vita si è già consumato, dopo che ha ucciso a sassate una prostituta bionda e forte come un giunco: si sente simile al volo che quella creatura fa oltre la balaustra nel buio di uno squallido posto di mare. Simile nell’orrore e nel ridicolo. Poi si scopre simile a Carlo, il fratello: simile nella allucinata disperazione. Sono esistenze inchiodate a qualcosa: “un muro, una cornice, un destino qualunque”. Tutto questo silenzio è un viaggio nei gironi infernali dell’esistere nella contemporaneità. O forse dell’esistere e basta. Ma la contemporaneità rappresenta probabilmente in modo più evidente, plastico, le scene del dramma. Fa vedere meglio – perché è più crudelmente viva - l’ostilità oscura, la guerra sotterranea che coinvolge e sconvolge i destini nella loro solitudine traumatica, irrimediabile. Paralizzati da una sorta di predestinazione, i personaggi di questo romanzo costituiscono la smentita vivente che l’uomo sia l’artefice della propria fortuna. Falso. Completamente illusorio. L’uomo è trascinato da una forza invisibile e incomprensibile, rapito da una benedizione o da una maledizione, non va da nessuna parte per scelta progettata e consapevole. “Tutto questo silenzio” finisce che dei personaggi non si sa più niente. Mirko viene condannato a settemilatrecento giorni di carcere. Vent’anni. La somma dei giorni della vita della figlia. Si sa questo e nient’altro. E’ come se si disperdessero in un deserto in cui nessuna narrazione li potrà mai raggiungere, dove nessuna consolazione potrà lenire il dolore muto, raggrumato. Non hanno più esistenza. Sono nati insieme al racconto. Muoiono insieme al racconto, lì, sepolti nelle pagine. A loro non appartiene nulla se non questa scrittura, se non questo gesto di pietà che gli ha dato fiato, se non lo sciabordio di parole sulla battigia della loro vita che per il tempo che dura il narrare apre uno spioncino nella cella del loro silenzio, irrimediabile e terribile.

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