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domenica 10 gennaio 2010

GALILEO GALILEI: IL DIRITTO EVERSIVO DEL DUBBIO. Intervento di ANDREA RICCI

Immaginiamo un immenso edificio, un palazzo meraviglioso, una reggia, costruita secondo le più antiche ed ingegnose tecniche, un capolavoro per l’umanità intera. Da tutto l’ecumene vi sono giunti scrittori e scultori, per abbellire col fior fiore della loro arte le centinaia di stanze, le decine di lunghi e sontuosi corridoi. Nulla al confronto di Versailles, nulla Caserta; la raffinatezza degli intarsi, l’eleganza delle volute, la suggestione dei dipinti testimonia che in essa i più grandi geni della bellezza hanno raggiunto la maturità, donando in cambio le punte supreme della propria arte. Il gotha dei poeti, filosofi, musicisti e teologi si riunisce negli immensi saloni affrescati, sotto l’attenta egida del “maestro di color che sanno”, delle sue parole e dei suoi testi. Davvero questo palazzo è un gioiello, un tesoro inestimabile per l’umanità, tanto più che all’ombra dei suoi splendidi colonnati trova ristoro anche la gente più umile. Durante i torbidi temporali che a volte si verificano nella zona, qualsiasi pellegrino può rifugiarsi e sostare in prossimità della calura dei giganteschi ed elegantissimi camini, degustando il dolce odore di incenso che emanano i raffinati candelabri scolpiti con foglie d’acanto. Nessun pagamento si pretende da questi pellegrini, purché essi semplicemente evitino di sviare le alte speculazioni di tanti saggi, i quali, comunque, non mancano di confortare i forestieri che capitano, elogiando la perizia dei manovali e la genialità degli ingegneri, che hanno potuto concepire un’opera così alta, inimitabile e inimitata, preziosissima. Immaginiamo ora un uomo, un singolo uomo, miserrimo fuscello pensante che, preso da inspiegabili velleità distruttrici, si insinui una notte nei sotterranei della reggia, in borsa un piccone, un martellaccio e altri attrezzi da demolitore. Per quasi vent’anni è stato ospite delle stanze e delle torri d’avorio del palazzo, e a tali livelli giunge ora la sua ingratitudine (già è stato ammonito per le sue smanie di esplorazione, nonostante ciò egli avanza imperterrito e spietato). Servendosi delle mappe che suoi amici (feccia sovversiva di cui è diventato il degno compare) gli hanno fornito, si addentra per ciò che egli stesso, non fosse per le mappe e la luminosa lanterna che si reca appresso, definirebbe un “oscuro labirinto”. Pochi mesi sono passati, e della grandissima reggia non è rimasto che qualche brandello di muro, poche stanze dal tetto sfondato, una colonna semidiroccata. In una sola notte l’intero palazzo è crollato, in una manciata d’ore centinaia di povere anime hanno evacuato l’edificio, per assistere, sulla cresta di una collina vicina, all’inesorabile sgretolarsi delle torri e degli archi rampanti, al trionfo di polvere e cenere e travi spezzate e bassorilievi rotti e divelti. Il fragore del crollo è quasi sommerso da quello dei singhiozzi e delle lacrime. Immediato ordine di cattura viene diramato per l’esploratore notturno: un solo colpo, un solo colpo di piccone ben assestato gli si è rilevato sufficiente per provocare l’immane catastrofe. Egli ora è sconcertato, ma sa di aver fatto la cosa giusta. E’ considerato un pazzo, ma di lì a pochi secoli tutti lo celebreranno come un eroe. Bell’acquisto a demolire edifici millenari, se alla lunga la tua fama è destinata a eguagliare quella di Galileo Galilei! Questo apologo dai connotati kafkiani è la più chiara e suggestiva delle metafore cui potremmo riferirci per descrivere la portata sconcertante dell’opera galileiana: definire il pensiero e l’azione del pisano come rivoluzionario sarebbe un approssimativo eufemismo. Nelle poche decine di pagine del suo “Sidereus Nuncius”, Galilei sgancia un dirigibile di nitroglicerina sull’Europa intera: l’esplosione ha l’effetto di una bomba chimica, ed il contagio si propaga sino agli estremi confini del mondo (pochi decenni dopo la pubblicazione dell’opuscolo in latino, il nome di Galileo arriva fin sulla bocca dei filosofi cinesi e degli altri studiosi dell’Estremo Oriente). La teoria copernicana trova in Galilei il più formidabile catalizzatore per assurgere al ruolo di alternativa ufficiale, opposta e contrastante al plurimillenario palazzo delle idee aristotelico e tolemaico. La Terra non è più l’unico centro di rotazione dell’Universo, i corpi celesti sono scabri, corruttibili, simili alla Terra, le stelle sono infinite, le nebulose hanno natura materiale, nel XVII secolo queste erano bestemmie in tutti i sensi, inammissibili per chi allora dettava legge (leggi: clero). E davanti alla Chiesa, davanti all’uomo, Galileo osa affermare che bisogna “rifar le teste degli uomini”, che la conoscenza deve prescindere dalla religione, che l”ipse” della famosa frase non è altro che un fallibile uomo come tutti, che le esegesi dei teologi non possono più appellarsi al significato letterale delle Scritture (e per la verità, a questa mirabolante scoperta era giunto, agli esordi della stessa cristianità, tal filosofo Filone di Alessandria).come non ammirare colui che per la prima volta afferma che “l’intenzione dello Spirito Santo esser d’insegnare come si vadia al Cielo, e non come vadia il Cielo”, come non ammirare chi per primo afferma il valore “della sensata esperienza” confermata dalle “necessarie dimostrazioni”, chi per primo contrappone al “mondo di carta” dominato dal principio di autorità l’esperienza del “mondo sensibile” reale?come non inchinarsi di fronte a colui che ha concepito e divulgato l’idea di una conoscenza dinamica, costantemente discussa, razionalmente dimostrata? Come non riconoscere l’arguzia di un uomo che ha rivendicato l’autonomia degli “occhi della mente e della fronte” al cospetto di intere biblioteche di speculazioni teoretiche, polverose e obsolete? L’intera scienza è debitrice di Galileo Galilei, ma non solo. Non solo la scienza, con il pisano è nato un nuovo modo di concepire il mondo, l’uomo, il pensiero, la libertà, dunque la libertà di pensiero. “Freedom is freedom to say that two plus two make four. If that is granted, all else follows”: è ciò che scrive un tesissimo Winston Smith nel costantemente violato spazio privato della propria scrivania, è ciò che concepisce Gorge Orwell nel suo capolavoro antiutopistico 1984, è anche ciò che riecheggia nelle parole di un sarcastico Galileo immaginato da Bertold Brecht (“ho studiato matematica, signor Galileo” “ciò può tornarci utile, se vi induce ad ammettere che due e due possono anche fare quattro”). Ecco, ora affiora per davvero il senso della vita dello scienziato, il significato, la grandezza del suo personaggio: “sventurata la terra che ha bisogno di eroi” afferma il protagonista dell’opera di Brecht. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, perché Galileo non lo è: nella sua umana debolezza egli preferisce l’abiura (atto tremendo, atto sconcertante, atto che gela il sangue nelle vene del lettore consapevole); Galileo non è il Socrate della cicuta, Galileo è l’uomo pieno di dubbi che del dubbio ha fatto il fondamento del suo pensiero. Nulla è più importante del supremo valore della vita, e ciò esalta ancora e ancora il messaggio di colui che più che mai appare uomo; non si potrà mai “vietare agli uomini guardar verso il cielo”, sia esso per scrutare i misteri del cosmo, sia per intonare un canto notturno alla luna, sia semplicemente per sognare e trovare la forza per continuare a farlo. Libertà di pensiero e di iniziativa, libertà contro l’oppressione ed il totalitarismo, lotta contro la cristallizzazione del pensiero, lotta mediante gli strumenti della ragione, in primis l’ironia, che dalla ragione germoglia e alla ragione si appella. “Hasta la victoria siempre!” è esattamente ciò che veicola quel “Eppur si muove…” attribuito al Galileo che cambierà il mondo e gli uomini. Libertà di affermare il proprio pensiero, libertà di appellarsi alla verità: nel XX e XXI secolo il messaggio di Galileo sembrerà il grido di un sopravvissuto che già presagisce e mette in allerta contro i prossimi inevitabili naufragi dell’umanità.

Fonte iconografica: http://www.ebusiness-lab.gr/galileo/images/galileo-galilei.jpg

sabato 9 gennaio 2010

“Frankenweenie” e l'amore per gli animali. Intervento di Angela Leucci















Mary Shelley probabilmente non immaginava che il suo romanzo “Frankenstein”, nato, com'è noto, per gioco, sarebbe stato così parodiato e sfruttato in tutti i suoi sottotesti. Marty Feldman che si dilettò in giochi di parole come “Lupu ululà castellu ululì”, non è il solo esempio parodistico per cui il romanzo sulla “creatura” resta sempre molto attuale. Una delle parodie più interessanti è stata realizzata da Tim Burton nel 1984. Si tratta di “Frankenweenie”, un mediometraggio di 29 minuti circa, da cui il regista sta traendo un remake lungo realizzato in stop motion, tecnica che caratterizzava un altro capolavoro di Burton, “La sposa cadavere”. Il corto racconta di un bambino che perde il suo cane in un incidente con un'auto. A scuola, impara gli effetti degli impulsi elettrici e prova a sperimentarli sul cadaverino del suo defunto migliore amico. L'esperimento funziona, ma il piccolo deve tenere nascosto il cane perché si rende conto che non tutti capirebbero, a cominciare dai suoi genitori. Papà e mamma, dopo le prime resistenze, decidono di organizzare un incontro col vicinato per “presentare” il loro nuovo animale domestico, ma tra i vicini serpeggia il pettegolezzo e il timore infondato che il cane sia un mostro: così lo inseguono fino al mulino di un minigolf, cui danno fuoco, ma a farne le spese sembra essere il bambino, che resta intrappolato nella struttura di legno. Ma il cane, fedele, lo trae in salvo ed esala l'ultimo respiro per lo sforzo. Dopo il rocambolesco inseguimento, i vicini, impietositi e rincuorati dal coraggio dell'animale, fanno ritentare al bambino l'esperimento con la batteria delle proprie automobili, il cane ritorna a vivere e seduce anche una meravigliosa barboncina. Ricco di particolari divertenti e paradossali, il film può essere non solo un manifesto per la lotta contro le discriminazioni della diversità, ma anche una sorta di professione di fede per tutti gli amanti dei cani, contro chi, ad esempio, si scaglia contro il disegno di legge sui “cani di quartiere”, che talvolta non viene compreso appieno dalle persone timorose dell'aumento del randagismo.
La realizzazione di questo corto rappresenta uno degli strani litigi avvenuti tra Tim Burton e la Disney, che avrebbe poi distribuito il corto (ma solo molti anni più tardi), bollandolo sulle prime come uno spreco di denaro. Accadde anche con “Vincent”, corto d'animazione ispirato da Vincent Price, che ne prestò la voce: in quel caso, la Disney bocciò il lavoro, ritenendolo addirittura troppo lugubre per i bambini. Ma forse non è giusto che teniamo i bambini sotto una campana di vetro e, nei casi in cui possiamo affidarci a un valente professionista del sogno come Burton, può darsi sia bene ogni tanto far vedere loro un po' d'orrore, finto e con un lieto fine, piuttosto che l'orrore quotidiano di tutto ciò che ci circonda.

Link di uno spezzone su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=mvtMztLcZTE

venerdì 8 gennaio 2010

On my Skin di Monica Silva

Negli importanti spazi di Galleria Cavour a Bologna, in contemporanea con Arte Fiera 2010 la fotografa Monica Silva metterà in mostra il progetto inedito ON MY SKIN inserito nel circuito Arte Fiera OFF. Il progetto sponsorizzato da Open Project in collaborazione con la Galleria Stefano Forni sarà visibile dal 20 al 31 Gennaio 2010. In occasione della Notte Bianca dell’Arte, sabato 30 Gennaio, anche Open Project aprirà i suoi spazi di via E. Zago 2/2 a Bologna ove sarà possibile visionare altre opere dell’artista. Un corpo femminile come forma scultorea, architettonica, e allo stesso tempo uno spazio che diventa luogo su cui imprimere immagini, parole, pensieri. Il progetto On My Skin vuole essere una elaborazione metabolica del vissuto che l’artista attraverso le proprie esperienze emotive riconosce su di se e nell’universo femminile.
L’artista
Monica Silva è nata a San Paolo, Brasile, dove ha vissuto e lavorato nel settore televisivo e della moda fino al 1985. Dal 1992 al 2001, collabora con registi come Robert Richardson, Federico Brugia, Daniele Lucchetti, Renzo Martinelli, Zack Snyder in qualità di aiuto regista per produzioni cinematografiche nazionali e internazionali. Collabora dal 2000 con Max, Flair, Vanity Fair, Io Donna - Style - Magazine - Sette ed il Corriere della Sera, Panorama Travel, Il Venerdì Repubblica, I Viaggi del Sole, Espresso, PC Photo; ha inoltre svolto vari servizi fotografici per copertine cd e per libri d’arte.
Il partner
Open Project srl è una società di architettura e ingegneria fondata nel 1984 da specialisti dei vari settori della progettazione e della consulenza per meglio affrontare i molteplici aspetti del processo del costruire. E' oggi una struttura multidisciplinare, organizzata per sviluppare tutti gli aspetti del progetto di architettura ed ingegneria, dalla concezione, al controllo diretto della realizzazione.
www.openproject.it

Artista: MONICA SILVA
Luogo: Galleria Cavour - P.za Cavour - Bologna
Apertura: Mercoledì 20 Gennaio 2010 ore 18.00
Durata: 20 – 31 Gennaio 2010
Info: Galleria Stefano Forni 051.225679 Fax: 051.225679
Website: www.galleriastefanoforni.com E-mail: arte@galleriastefanoforni.com

Che cosa ti sei perso di Alessandro Dal Cin (Lupo editore, collana InBox)

“Forse quello che speravo in fondo al cuore era non trovare mai quel maledetto fotografo e passare l’intera vita in viaggio a cercarlo. Non è la destinazione quella che conta, ma il viaggio.”. Partiamo dalla storia: in una uggiosa domenica a Milano, mentre Mattia passa in rassegna le opere di un fotografo nell’ambito di una piccola rassegna d’arte, un’immagine turba il suo animo; l’obiettivo di Armando Filabelli (l’artista in questione) ha immortalato la sua vecchia casa d’infanzia, palcoscenico di una inspiegabile e misteriosa tragedia, ritraendo addirittura un particolare del muro dell’abitazione, dove campeggia una frase sibillina che sembra contenere un indizio sulla scomparsa improvvisa di suo padre e sulla devastante follia di sua madre. Comincia così una caccia all’uomo, alla ricerca disperata del fotografo, che scopre vivere in Spagna. Un viaggio che porterà il protagonista di questa storia, nel cuore dell’Andalusia, in piccoli paesi dove vivono micro-comunità di personaggi stravaganti, eccentrici, passionali ad ogni modo fuori dalle righe, che incrociano il suo percorso. Scampato rocambolescamente ad una rischiosa e quasi mortale avventura in cui è stato suo malgrado coinvolto da due balordi, Mattia trova nella dolce Ester un porto sicuro, nonostante le rivelazioni che la donna gli farà sulla sua vita. A mio avviso parliamo di un vero e proprio romanzo “on the road”, dove al posto dell’America di Kerouac troviamo i sapori, i colori, la sensualità calda della Spagna e dell’Andalusia, dove il tempo sembra costruire architetture esistenziali di vera e propria deriva e marginalità. Per movimentato è movimentato il lavoro di Alessandro Dal Cin edito da Lupo editore, una vera e propria storia iniziatica sull’esistenza, dove realtà e sogno entrano in scena creando un dialogo in cui i misteriosi segnali del cambiamento, si trasformano in intense pagine di vita. Insomma un romanzo dinamico, dalla scrittura agile e forte, che contribuisce ad amplificare il clima avventuroso della storia. Interessante il far partire la storia con un protagonista giovane e dannato, segnato da un mistero legato alla sua infanzia: in una sola notte, infatti, la placida vita familiare è stata spezzata dalla sparizione del padre e dalla pazzia della madre. Partendo da una fotografia esposta in una mostra, Mattia va in Spagna in cerca dell’autore dello scatto, sperando di conoscere la verità sui fatti che lo coinvolsero quando aveva all’incirca otto anni. Si “perde” così tra esperienze alternative, evocando le figure più significative del suo passato, tra stupendi ritratti di immediatezza e grande ritmo, dove ogni personaggio è caratterizzato, più per una dimensione interiore che per una vera e propria descrizione figurativa ed iconica. Adatto ad un pubblico giovane e agli spiriti “giovanili” ancora affascinati dalla Beat Generation.

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giovedì 7 gennaio 2010

L’interdetto, di Luca Canali, Hacca (Macerata, 2009). Intervento di Nunzio festa

Il cuore della società scopre degli spifferi. E dentro questi varchi, in sostanza, “L’interdetto” di Canali sconfigge la banalità delle consolazioni. Il metodo di Luca Canali è semplice. Prendere, intanto, in mano e per le mani il disincanto per accoppiarlo con il battito della fine. Poi lasciarlo sfiorire e fiorire nelle dimensioni perdute di uomini normali e sofferenti. Il romanzo dello scrittore Luca Canali, penna che non sopporta limiti d’ingegno e d’impegno ed è abituata a protestare contro l’omologazione culturale e consumistica, approfitta vagamente del poliziesco ‘de genere’ per affrontare alcune pietre dei secoli. Il commissario Strina, infatti, per esempio: è un uomo tanto affaticato al punto d’essere a qualche passo dal pensionamento ma annunciato da una tremenda malattia; però, il Paolo Strina, che un po’ di passato se lo ricorda e prova a ricordarcelo grazie alle passeggiate stilistiche dell’efficace Canali, devi fare i conti con il fato. Più il maestro, ex professore e schivo scrittore Stefano Nullian. Quello che appunto sarà l’interdetto. Ovvero un uomo che affronta i tempi cercando di dare beni materiali agli animali e prendersi dalle persone, e in special modo dalle donne, quello che può. Provando poca anzi pochissima stima per questo nostro genere. La stessa compagna di Strina s’imbatterà nel maestro-scrittore Nullian. Ma l’uomo più segnato dall’ex professore sarà appunto lo Strina medesimo. Insomma, Paolo Strina più che turbato dal Nullian si fa sommergere la vita dal fascino di questi. Come molti altri personaggi delle vicende e della storia tutta. Spesso senza volerlo. D’altronde lo scrittore sta in mezzo ad almeno un paio di cosette della quotidianità di Paolo. L’interdetto deve vedersela con parenti velenosi, oltre che con parte dell’inospitale mondo, atti a toglierli soldini dalle tasche rovinate. Per giunta. Canali, che è autore notevolmente segnato dallo studio e dall’analisi dei flussi intimi dell’umanità, sorride ai malati umani concedendo proprio al maestro Stefano Nullian la meravigliosa capacità di dimostrarsi debole e forte motivo esistenziale del destino di tanti minori. Quest’opera di Luca Canali è prova letteraria che di nuovo tocca i malesseri, e li fa sussultare.

mercoledì 6 gennaio 2010

Annalisa Fantini, L’innocenza indecente (Il Filo) il 15 gennaio allla Biblioteca Provinciale “Bernardini"

“Le sedici storie de L’innocenza indecente si presentano piuttosto come ‘brani di vite’ giustapposti, su cui l’autrice con scrittura sobria, lucida, ma carica di tensione narrativa, focalizza l’attenzione, con l’immediatezza della narrazione breve, in qualche caso lasciata come in sospeso e quasi senza conclusione. [...] Inquadrature in esterno, dove riconosciamo ambienti e vicende che hanno attraversato il campo visivo della cronaca, sono lo sfondo all’interno del quale i personaggi femminili si muovono con passo talvolta indecente, il più delle volte innocente. [...] In questi contesti la narratrice si addentra quanto basta per assistere al nascere, in mezzo al ‘lezzo di una umanità sporca di sudore e sfinimento’, di un sentimento di solidarietà femminile appena accennato, sul quale posa lo sguardo con discrezione, quasi con pudore. [...] C’è, al di qua della penna che annota, uno sguardo che sa vedere altro. Perché anche quando ogni cosa sembra macchiata, vengono alla luce sentimenti puri che restituiscono dignità.”

(dalla prefazione di Ada Donno)


Annalisa Fantini è nata a Cesena. È laureata in Lettere Classiche all’Università di Perugia. Giornalista professionista, ha fatto parte della Commissione nazionale per gli esami di accesso alla professione. Fa parte del corpodocente del corso “Donne, politica e istituzioni” dell’Università di Lecce. Cronista e inviata, collaboratrice di testate locali e nazionali, quali “Il Messaggero”, le reti Mediaset e alcune TV estere, svolge ora attività di free lance e di fotografa. Nel 2008 ha vinto il concorso “Conflitti” della casa editrice Mediterranean Media (Cosenza) ed è stata fra le finaliste del premio letterario indetto dalla Consulta femminile di Trieste, nella sezione racconti. È presente, come fotografa, in uno dei volumi che l’Università di Siena ha destinato alle professioniste europee. Si è occupata a lungo di immigrazione e della mafia pugliese. Si occupa sempre delle tematiche relative alla questione femminile.

Venerdì 15 gennaio alle ore 18,00 presso la Sala Teatrino della Biblioteca Provinciale “Bernardini” sede Convitto Palmieri, in p.zzetta Carducci- Lecce. Intervengono Loredana Capone – vicepresidente Regione Puglia, e Teresa Romano – libreria Gutenberg

Fuori i secondi di Vito Antonio Conte (Luca Pensa editore) visto da Paola Scialpi

Carissimo Vito Antonio,
inizio a scriverti con qualcosa che ti riguarda...” Aprii le ali/faticosamente/e più mai le chiusi".
Leggendo il tuo libro” Fuori i secondi”sono stata trasportata spesso in un’atmosfera rarefatta dove natura e uomo si identificano a tal punto che occhi azzurri diventano mare , capelli biondi oro del cielo, chiome inebrianti terre dell’Africa.
E poi i ricordi fatti di odori, profumi in cui perdersi per ritrovare luoghi perduti atmosfere dimenticate o volutamente messe da parte . Allora mi chiedo perché certe immagini le cerchiamo e poi con la stessa intensità le perdiamo, perché se appartengono a quello che poi siamo diventati, quando tornano alla mente ci inondano di malinconia. Già, la malinconia ... che spesso sento impadronirsi dei tuoi versi come qualcosa che appare e fugge dinanzi alla tempestività della quotidianità che ci rapisce ma che non ci fa più volare.
Allora perché chiuderle quelle ali, perché quasi vergognarsi di essere un sognatore, uno degli ultimi romantici. La vita si impadronisce di noi e ci trascina nei grandi magazzini, nella giungla del lavoro ,ci porta a guardare in faccia l’ipocrisia, l’odio, l’indifferenza...... ma se le ali le teniamo bene aperte nessuna cosa potrà intaccare “ L’ultimo cielo “.
Ciao!
Paola Scialpi

martedì 5 gennaio 2010

Daniela Marcheschi, “Si nasce perché l’anima – poesie e poemetti 1995/2003" (Zona Franca)

A me è toccato l’esemplare n.113. Fortunato senza ombra di dubbio, non tanto per il fatto di essere detentore di un volume a tiratura limitata, quanto di poter leggere della bella poesia, racchiusa in uno scrigno di cartone, e realizzata da chi i versi li compone pensando alla delicatezza ed eleganza di maioliche dal sapor medio-orientale, alla rarefatta bellezza della misura contenuta nel pensiero della nostra madre patria Grecia, alla forza del silenzio che ricerca il principio primo di ogni cosa. Il fatto è che la casa editrice “di cartone” Zona Franca (www.zfzonafranca.it) di Lucca ma nata a Buenos Aires, sa come si fanno i bei libri, anche con tutte le difficoltà di un’operazione ai limiti dell’esistenza dadaista come questa pubblicazione di Daniela Marcheschi dal tiolo “Si nasce perché l’anima – poesie e poemetti 1995/2003". Che sia una necessaria classificazione della critica quell’attribuire al poiein della Marcheschi una sorta di configurazione strutturale e semantica propria della meta/poesia, mi va sinceramente stretto, almeno per il mio personale modo di sentire questa splendida voce, che va conosciuta, apprezzata, sostenuta, incoraggiata, amata. Sento in Daniela (perdona questo mio esserti così amico), non la forza e il rigore della studiosa, che pure ha nel suo dna, ma la perfezione della ricercatezza nel ritmo e nella pausa che diviene oscurità appagante dal frastuono dell’inutile. Per questa donna che i versi li genera e li accudisce come madre ancestrale filosofia non è una dimensione geografica opposta alla musicalità del verso, anzi è strumento di controllo del furore e della gioia creatrice, di un sacrilegio panico che sa usare machiavellicamente metafore e rime, asserzioni e persuasioni. Imperdibile!

No, non voglio ignorarlo
quest’animale rubacuori
caro a Luciano, a Omero,
e che nel peso ha stipato
a memento un chiaro destino.
E’ logico
quel suo portamento.
E’ lui
il maestro della mia presunzione.

(da ‘Versi dell’asino’, poesia che sul finire si apre così al macrotesto letterario)

Perché dovremmo dimenticare
Talete di Mileto,
secondo cui tutto
è ripieno di dei ?
Perché farne un nome vuoto
quando il pensiero è frutto
del corpo
e insieme suo parallelo ?

Daniela Marcheschi è nata a Lucca, dove risiede. Studiosa e critico, ha pubblicato i suoi versi in varie riviste (tra cui Tabula, Tellus, Frontiera, Confini, Poesia) e in volume (L’Amorosa Erranza, Siena, 1984; Sul molo Foraneo, Firenze, 1991, prefazione di Giuseppe Pontiggia; La Regimazione delle acque, 1992, con un saggio di Amedeo Anelli). E’ redattrice di Kamen, rivista di poesia e filosofia diretta da Amedeo Anelli. Nel 1996 ha ricevuto il Rockfeller Award per la Letteratura (Critica e Poesia) e nel 2006 è stata insignita del Tolkingspris dell’Accademia di Svezia.

lunedì 4 gennaio 2010

Da Josè Pablo Feinmann per Marcos Y Marcos a Raffaele Polo per Lupo editore: due letture da Vito Antonio Conte

Che sto in una fase di volitiva refrattarietà lo sapete di già. Che questo stato è concausato dalla mia stessa interiorità e dall'idiozia d'intorno l'avrete intuito e, se anche così non fosse, c'è poco da aggiungere. È, la mia, una sorta di distacco da certo mondo, senza apatia, però. Anzi, densa di mille intensità. E di marginalità, che mai smetto di frequentare. Cose che cambiano la pelle e l'anima. Che rendono la pelle più vulnerabile e l'anima più fragile. E, paradossalmente, ispessiscono la serenità. Più dei tanti sms di auguri per Natale che scaldano poco. Specialmente se privi di mittente. Sì , non ho nessun numero di cellulare memorizzato sul mio telefonino. Ma ho risposto a tutti, per educazione. Perché vi dico dei cazzi miei? Non lo so, ma non sono capace di scrivere in un altro modo. Comunque. In questi giorni, a parte lavorare e struggermi, ho scritto come un pazzo e letto ancor di più. Vi dirò cosa e valga come invito alla lettura, ché sembra vada di moda -pur fottendomene io delle mode- in questo periodo. Se amate il noir, leggete “Il cadavere impossibile”, di José Pablo Feinmann (edito da Marcos Y Marcos, Collana Le Foglie, 2004, pagine 159, € 10,00). Una storia argentina che si consuma in uno sperduto carcere femminile dell'ultima Terra in una sequela di colpi di scena annunciati e compiuti, tra assassini e assassinati, la piccola Anna, attrice e strumento intorno alla quale ruota la narrazione, che ha la peculiarità di svolgersi in forma di epistola-bozza inviata dall'autore all'editore, senza risparmio alcuno di trovate letterarie. Il libro s'apre così: “Egregio signor Editore, io sono un uomo che vive appartato, distante. Distante non solo dal rilucente mondo delle lettere, con i suoi principi e cortigiani, ma anche distante e appartato dal mondo in generale.”, e confesso di averlo acquistato per questo incipit. Un libro ricco di spunti, un inseguirsi di generi oltre il noir, del quale non svelerò -per ovvie ragioni- altro, a eccezione che tutta la storia si sviluppa intorno a questa frase: “Solo l'amore può resuscitare i morti”. Il secondo libro che ho letto in una manciata di giorni, è “Il cielo in ogni stanza”, ultima fatica di Raffaele Polo (Lupo Editore, 2009, pagine 79, € 12,00). Stavo per aggiungere a “ultima fatica” “letteraria”, ma non l'ho fatto perché di letterario in questo libro non c'è nulla. Nel libro di Polo si muovono persone reali che, per altro accidente, si trovano a cercare il senso della vita, cercando di restare aggrappati alla stessa nell'incombenza della fine. Un libro di una delicatezza che supera ogni forza, in cui le parole servono unicamente a dar voce a uno stato dell'esistenza, spesso quello terminale, che viene generalmente ignorato, inconsapevolmente o scientemente. Quello stato è l'unico passaggio della vita comune a ognuno, l'unico che ci rende davvero uguali. Conoscerlo migliora la vita di ciascuno e, dunque, quella di tutti. Non so quando questo pezzo uscirà. Prima della fine di quest'anno o quando il nuovo sarà iniziato? Non lo so! Lo chiudo alle 22:11 del 29 dicembre: un giorno triste e bello, per me. Ignorare quanto sopra mi permette di evitare di dirvi: auguri. Ché, anche questo avrete capito, non è che ci impazzisco. Il mio nuovo libro (sono arrivato a pagina 25) è “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout, ve ne parlerò quando l'avrò finito. Buona lettura e quant'altro desiderate, comunque.

domenica 3 gennaio 2010

Elisabetta Liguori, Rossano Astremo/ Tutto questo silenzio (Besa) Intervento di Antonio Errico

Quanto più il lettore tenta di non farsi intrappolare dall’intreccio, e cerca di stabilire una distanza con la narrazione in modo da avere una visione complessiva, per cercare di maturare un’opinione circostanziata e lucida, tanto più si ritrova intrappolato negli accadimenti che si incastrano, si annodano, si aggrovigliano. Una scrittura sola per due autori: “Tutto questo silenzio”, un romanzo di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo, edito da Besa. Straniamento. Leggerezza. Corporalità. Iperrealismo e antirealismo insieme. Condensato metaforico. La consapevolezza dell’ambiguità della realtà come principio teorico per l’indagine dei fatti, per lo scavo nella loro struttura semantica, nei loro enigmi. Il sospetto, il dubbio, il rifiuto di qualsiasi condizione aprioristica costituisce il metodo della ricerca e della narrazione. Lo spettacolo della quotidianeità – tragedia, commedia, tragicommedia - che si manifesta in grumi psicologici, in ossessioni malcelate che ad un certo punto esplodono. Il fondale che Liguori e Astremo scandagliano è quello dell’inconscio, o del rimosso, delle verità profonde che non si vedono, che non perdonano, che tarlano il pensiero, lo dilaniano, lo perforano. Sotto lo scorrere in superficie dei fatti, nell’apparente ineluttabilità degli avvenimenti, si agita l’inquietudine mostruosa di personaggi che si confrontano con un’angoscia quieta, pacata, ma stravolgente. Non pensano nemmeno di opporsi a quella vertigine di alienazione che li priva di ogni equilibrio, al gorgo di incomunicabilità che li risucchia. Si lasciano andare nel nulla senza nessuna resistenza, si nascondono nel grigiore, si scagliano contro l’altro, soprattutto contro se stessi, con tutto l’ odio disperato e cieco che hanno dentro. Si dividono in due categorie: i pesci arpionati e i pescatori. Sono figure con una personalità contratta, contorta, nevrotica, con una visione del mondo che non va oltre le pareti di un appartamento, reclusi in una soggettività egoistica, senza spiraglio, senza scampo. Sanno, o più esattamente sospettano, che la salvezza dell’uomo è possibile solo se si riesce a sentirsi pietosamente simili a un altro. Ma talvolta – o spesso - questa sensazione si avverte quando è troppo tardi, quando la specularità con l’altro non può più realizzarsi perché si è oscurata. Così Mirko si sente pietosamente e dolorosamente simile a qualcuno quando il dramma che taglia in due la sua vita si è già consumato, dopo che ha ucciso a sassate una prostituta bionda e forte come un giunco: si sente simile al volo che quella creatura fa oltre la balaustra nel buio di uno squallido posto di mare. Simile nell’orrore e nel ridicolo. Poi si scopre simile a Carlo, il fratello: simile nella allucinata disperazione. Sono esistenze inchiodate a qualcosa: “un muro, una cornice, un destino qualunque”. Tutto questo silenzio è un viaggio nei gironi infernali dell’esistere nella contemporaneità. O forse dell’esistere e basta. Ma la contemporaneità rappresenta probabilmente in modo più evidente, plastico, le scene del dramma. Fa vedere meglio – perché è più crudelmente viva - l’ostilità oscura, la guerra sotterranea che coinvolge e sconvolge i destini nella loro solitudine traumatica, irrimediabile. Paralizzati da una sorta di predestinazione, i personaggi di questo romanzo costituiscono la smentita vivente che l’uomo sia l’artefice della propria fortuna. Falso. Completamente illusorio. L’uomo è trascinato da una forza invisibile e incomprensibile, rapito da una benedizione o da una maledizione, non va da nessuna parte per scelta progettata e consapevole. “Tutto questo silenzio” finisce che dei personaggi non si sa più niente. Mirko viene condannato a settemilatrecento giorni di carcere. Vent’anni. La somma dei giorni della vita della figlia. Si sa questo e nient’altro. E’ come se si disperdessero in un deserto in cui nessuna narrazione li potrà mai raggiungere, dove nessuna consolazione potrà lenire il dolore muto, raggrumato. Non hanno più esistenza. Sono nati insieme al racconto. Muoiono insieme al racconto, lì, sepolti nelle pagine. A loro non appartiene nulla se non questa scrittura, se non questo gesto di pietà che gli ha dato fiato, se non lo sciabordio di parole sulla battigia della loro vita che per il tempo che dura il narrare apre uno spioncino nella cella del loro silenzio, irrimediabile e terribile.

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sabato 2 gennaio 2010

Life Codes di Patty Harpenau (Newton Compton)

Come nella migliore tradizione di tutto ciò che ruota attorno al Nuovo Pensiero, anche se non espressamente dichiarato dalle intenzioni dell’autore o dell’autrice di turno, anche questo lavoro di Patty Harpenau dal titolo “Life Codes” (I codici della vita – ndc) uscito in Italia per i tipi di Newton Compton, presenta vuoi per scelta tipografica dell’editore italiano, vuoi perché forse esiste un protocollo editoriale internazionale da rispettare quando si tratta di questi argomenti, innumerevoli similitudini con le opere della Byrne, Proctor, Wolf, Vitale, etc. Scelta del carattere ben leggibile, immagini a tutta pagina ampie e chiare sovente ricche di colori che vanno dal giallo al celeste sino all’azzurro, e una copertina finemente lavorata, con grande cura, e senza lesinare sulla qualità della carta, come se la casa editrice sapesse di avere tra le mani un “best winner”. E cosa assai singolare, viene presentato come saggio, quando in realtà si tratta di un racconto lungo dalla trama molto semplice: una giovane donna olandese ripara a Gerusalemme alla ricerca di se stessa, e in questo viaggio avrà l’opportunità di scoprire quali sono i codici di accesso per la saggezza e la ricchezza spirituali, guidata da maestri illuminati di grande spessore e umanità, ma anche da entità in grado di poterle insegnare il cammino. Per ogni giorno della settimana viene proposto un segreto, nel quale vengono esposti una serie di concetti basilari indispensabili per comprendere il significato profondo di categorie come Amore, Fiducia, Perdono, Abbondanza, Desiderio. Ma l’aspetto che fa apparire interessante il percorso di scrittura e contenuti seguito dall’autrice, risiede nel fatto che molte delle notizie, delle nuances, delle riflessioni portate avanti abbracciano svariati livelli di profondità teologiche, che vanno dall’islamismo, all’ebraismo, al cristianesimo. Alcune delle fonti citate, fanno riferimento addirittura ai “vangeli proibiti” di Qumran, con l’obiettivo non tanto di costruire alcunché di provocatorio, quanto invece di dare luce ad un tentativo sincretico di meta-religione che unisca in un unico corpus le tre grandi religioni monoteistiche. Progetto ambizioso, ma irrealizzabile in sole centocinquantacinque pagine ( a tal proposito consiglio la lettura di , "Gesù e i Manoscritti del Mar Morto" di David Donnini edito da Coniglio editore, che rivela aspetti inediti sulle origini della più diffusa religione del mondo, spiegando le modalità con cui, nel corso dei secoli, la Chiesa ha progressivamente costruito un Cristo sempre più distante da quello della realtà storica e individuando tutta quella serie di rapporti tra l'ebreo Gesù e i movimenti rivoluzionari e fondamentalisti della Palestina del I secolo; della vera identità degli apostoli e di Maria Maddalena; dell'autentico luogo di nascita di Cristo; dei contatti tra il Cristianesimo primitivo e la comunità essena di Qumran; del ruolo centrale avuto da Paolo di Tarso nella elaborazione del Cristianesimo). Questi i codici proposti tra le pagine di questo volume:

* LUNEDÌ, IL CODICE DI DIO, Legge dell’unità
* MARTEDÌ, IL CODICE DI ADAMO, Legge della dualità
* MERCOLEDÌ, IL CODICE DI EVA, Legge del desiderio
* GIOVEDÌ, IL CODICE DI GIOSUÈ, Legge del perdono
* VENERDÌ, IL CODICE DI MIRIAM, Legge dell’amore
* SABATO, IL CODICE DI MOSÈ, Legge della fiducia
* DOMENICA, IL CODICE DI ABRAMO, Legge dell’abbondanza

E in questo modo, secondo le indicazioni contenute nella premessa del libro,devono essere letti e meditati. Nulla di nuovo però quanto a messaggio proposto in questa sede, dal momento che non si parla di legge dell’attrazione, di fisica quantistica, di visualizzazione o focalizzazione ma di pura e semplice mistica per molti aspetti. In sintesi Dio è Tutto, Dio è Uno, Uno è Dio, Tutto è Dio, Noi siamo Dio, Dio è Noi … basta scoprirlo … come?! Con l’autoconsapevolezza e la Fede in questo assunto. L’antica saggezza contenuta in questi sette Codici sprigiona una forza straordinaria e rivela a ciascuno di noi la strada da seguire per assicurarsi una vita felice. «E adesso… respirate profondamente, sedetevi comodi e godetevi il viaggio. Fatevi guidare dai maestri che incontrerete tra queste pagine e lasciate che le loro parole vi riscaldino il cuore, affinché i codici possano davvero cambiare la vostra vita.»

Patty Harpenau
- è autrice di numerosi libri, che hanno venduto centinaia di migliaia di copie. Dopo aver studiato a lungo con Deepak Chopra, ha tenuto numerosi seminari in Europa, Oriente e Stati Uniti. Vive ad Amsterdam con il marito e i due figli. Life Codes è già stato pubblicato con grande successo in numerosi Paesi. Per scoprire tutto sui sette Codici visitate il sito www.thelifecodes.com.

Un solo libro 3 grandi religioni, 7 codici che cambieranno la vostra vita
ISBN: 9788854116559

Prezzo € 18,00


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venerdì 1 gennaio 2010

Insegnare a leggere nei primi tre anni di vita. Aidan Chambers: «è l’unico modo per rimodellare la generazione Y» di Maria Beatrice Protino

Aidan Chambers, autore inglese di romanzi per cd. giovani adulti e teorico di una pedagogia della lettura «insegnata, precoce e ad alta voce» - come lo si sente dire nelle conferenze o nei corsi di formazione per docenti – sostiene l’importanza della pratica alla lettura fin dai primi mesi di vita del bambino grazie all’intervento dei genitori prima e degli insegnanti poi. Nel 38° Congresso mondiale Iasl – associazione internazionale di biblioteconomia scolastica – svoltosi per la prima volta in Italia, presso l’Università di Padova, oltre 300 studiosi venuti da tutto il mondo hanno ascoltato la teoria esposta da Chambers, secondo cui gli adulti soli hanno il potere e il dovere di trasmettere il sapere – e il piacere – del leggere. I genitori dovrebbero, così, iniziare a nutrire il cervello dei loro figli fin dai primi vagiti e poi gli insegnanti continuare, trasformando le loro classi in veri e propri templi della lettura. Il professore sostiene che, essendo l’attività della lettura innaturale e in assoluto fra le più difficili per l’essere umano, è necessario tener conto della nostra dimensione fisica, dei cinque sensi, cercando di soddisfarli. Così, se nella lettura silenziosa si ascolta il ritmo, in quella fatta ad alta voce e magari da altri – che trova il suo antenato nella tradizione orale che fa parte della storia stessa dell’uomo – si può riscontrare uguale importanza, perché un bambino legge più in fretta ciò che ha già ascoltato. Importantissima anche la precocità: da zero a tre anni nel cervello si forma una sorta di network di connessioni e conoscenze, per cui maggiori saranno le informazioni, maggiore la capacità del bambino di accrescerle sempre di più e spontaneamente. I genitori e i docenti dovrebbero, quindi, insegnare la lettura e questa non dovrebbe durare meno di venti o trenta minuti al giorno e arricchirsi regolarmente con testi sempre più complessi in relazione all’età del bambino.

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giovedì 31 dicembre 2009

L'augurio di Monica Silva per il nuovo anno ai miei lettori!

I confini del possibile. Conversazioni con Pancrazio Toscano, di Rocco Mazzarone (L’Ancora del Mediterraneo, 2009). Recensione di Nunzio Festa

“In passato il servilismo era espressione di una cultura fondata sull’accettazione del proprio destino; ora il servilismo è frutto di una scelta e nasce dal proposito di migliorare la propria condizione pur godendo di un certo livello di benessere. Quando questo atteggiamento dilaga, lo spettacolo diventa molto triste perché minaccia la collettività”. Questa affermazione è tratta dal lungo scambio tra Rocco Mazzarone e Pancrazio Toscano. Più esattamente, l’analisi è di Mazzarone. Siamo all’interno del volume recentemente dato alle stampe da L’Ancora del Mediterraneo. Con il contributo del Centro di documentazione “Rocco Scotellaro” di Tricarico. Il volume nasce grazie al lavoro di Pancrazio Toscano, che ha voluto raccogliere il risultato d’una serie d’incontri con uno dei protagonisti del meridionalismo di marca lucana, Rocco Mazzarone, scomparso qualche anno fa. Il tricaricese Mazzarone che è stato, come in sede di ricordo che annuncia l’arrivo delle pagine sottolineerà Goffredo Fofi, fra i “pionieri della medicina sociale in Italia, e meridionalista competente e appassionato”. Mazzarone è una delle figure più rilevanti della Basilicata e non solo, in quanto, nonostante il suo vivere apparentemente appartato ma sempre a contatto con tutto il mondo, è riuscito a conoscere il linguaggio delle sue terre e la natura stessa di molte comunità. In buona parte, s’intende, e non per mancanza di strumenti e competenze. Più che altro per una complessità e banalità contestuale alla base della tradizione lucana e della sua fluttuante involuzione. Leggendo il dialogo tra il professor Pancrazio Toscano, altro acuto osservatore, è il Mazzarone non solamente amico di Scotellaro, Levi, Nitti, Fofi, eccetera eccetera, fino ad arrivare alle frequentazioni piccine persino con il Banfield già tanto noto in certi limiti territoriali, scopriamo l’interesse che può nutrire un pezzo di Sud per alcuni esseri umani assolutamente condannati a ragionare. Le memorie di Rocco Mazzarone – è qui non di certo siamo di fronte al tempo della santificazione ma più giustamente alla presa diretta di spunti – , come la sua vita comprensiva di tutta una formazione diversa da quella (chiaramente) di tante altre e altri, permettono a chi s’avvicina a certe suggestioni di trovare una prima analisi di quello che per certi versi è un piccolo settore della Basilicata del Meridione dell’Italia. Insomma il libro illumina su alcuni dei lati più maltrattati della società. Tanto per non fare scempio d’esempi, si pensi, non ci si stancherà di ripeterlo, ai passi sul servilismo quanto allo stesso tempo a una certa visione della realtà priva di malati condizionamenti. La figura di Rocco Mazzarone è quella del maestro che ha voluto i maestri e scordato i suoi maestri tenendoli in mente.

I confini del possibile. Conversazioni con Pancrazio Toscano, di Rocco Mazzarone, con introduzione di Goffredo Fofi, L’Ancora del Mediterraneo (Napoli, 2009), pag. 161, euro 17.50.

fonte iconografica: Hieronymus Bosch (Garden-Earthly-Delight)

mercoledì 30 dicembre 2009

Anna Maria De Luca e il suo Divento (Lupo editore) vista da Teresa Romano

Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.
Non si conosce la grammatica, tutto resta fuori e hanno forza solo le parole senza notizia che delineano una traccia nell’arrendersi all’altro mediante Verba, pensiero del tu. Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel “In principio era il Verbo”, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. “Pa-ro-le, pa-ro-le, solo parole impastate di terra rossa e acqua di mare. Parole sempre acerbe, come l’Amore errabonde nel reticolo cangiante delle vene o imbrigliate nel cuore incastonato nei denti”. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. Materia e cuore sembrano coagularsi nei versi di Anna Maria De Luca: “ E la malinconia è una serpe lunga e sottile che si raggruma nello stomaco. E che porta lontano, come il treno dell’addio”. Parole che s’incarnano nell’eros, volto dell’anima, nella seduzione di certi gesti, nella magia sconcertante di certe esperienze, in cui l’io/altro diventa “rasoio tagliente… tra le socchiuse gelosie ardente”, nella musicalità seducente di quell’“ente-ente” dove l’io/tu è rappresentato da interminabili file di stanze incatenate in un noi. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvivono fisicità e metafisicità. Catene, catene, cuore incatenato e parole che lasciano correre un battito prepotente, intermittente, a volte, spesso, bloccato in un pensiero fisso, in un tormento, “in una raffinata melodia sigillata in una conchiglia avvitata sul cuore”. Amore-prigione, chiuso nella bontà, bloccato nell’abitudine, nella fissità, nella tirannia, nella gelosia. Amore che non concede il lusso della fuga e “tuttavia qualcosa risplende nel silenzio”. Parole luce sulla carta, quelle dell’autrice, non parole-moneta né macchine remuneratrici. Parole apoftègma, frutto di germinazione nel silenzio, nel dolore, in cui il lettore gusta l’evento della donazione in un andare nella parola-scrittura, nella parola-dono. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole.

martedì 29 dicembre 2009

L’Accademia della Crusca ristampa il Vocabolario degli Accademici della Crusca * Di Maria Beatrice Protino



















Nel 2008 è stata portata a termine l’iniziativa di promuovere la ristampa anastatica della prima impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (www.accademiadellacrusca.it) - edito la prima volta nel 1612 – quale contributo dell’Accademia stessa alle celebrazioni per i 150 anni (1861-2011) dell’Unità d’Italia. Il progetto editoriale comprende anche il fascicolo di presentazione e un cd-rom con l’edizione elettronica di un importantissimo documento storico della nostra lingua che rimarca e ci ricorda il faticoso percorso unitario del nostro paese, ancora oggi messo spesso in discussione da deliranti fasce politiche. L’Accademia della Crusca fu fondata nel 1584 a Firenze dalla cd Brigata dei Crusconi, un piccolo gruppo di letterati e giuristi che la sera si incontravano per conversare di argomenti culturali in modo scherzoso (appunto “in crusca”, cioè in modo leggero, per burla e senza impegno). La brigata si costituì in Accademia e prese come simboli la pala e il frullone, il cassone di legno in cui si separava la farina dalla crusca. La parola “crusca”, quindi, designò gli elementi meno puri della lingua che, appunto, gli accademici avrebbero rifiutato. Si realizzò un vocabolario che venne pubblicato nel 1612 e al quale sono seguite quattro edizioni ampliate: un traguardo nella scienza lessicografica e nella conoscenza linguistica non solo italiana, ma addirittura europea. Non a caso, il Vocabolario è stato dichiarato il modello per i grandi dizionari di paesi quali la Francia, la Spagna, il Portogallo, l’Inghilterra, la Germania. Attualmente, tutti gli accademici della Crusca , compresa la presidente Nicoletta Maraschio – la prima donna a ricoprire questo ruolo in oltre quattro secoli - sono volontari, non percependo alcun compenso per le loro attività. Nell’era della globalizzazione - con l’inglese dominante sul piano internazionale ed entrato ormai anche nei nostri dizionari con lemmi di matrice soprattutto tecnico-scientifica – e delle leggi italiane scritte in modo tortuoso, di certe sentenze della magistratura e di comunicati aziendali, sindacali o ministeriali scritti in azzeccagarbugliesco, la consulenza dell’Accademia sarebbe davvero auspicabile. Se è vero che la distanza tra lingua scritta e parlata si è davvero ridotta, è anche facile notare un certo appiattimento linguistico, dovuto ad un uso troppo semplificato dei termini o ad un vocabolario personale davvero ridotto. Compito dell’Accademia, allora, lo studio della lingua e la promozione ad un uso corretto della stessa, e non per ultimo quello di essere testimone del raggiungimento di un traguardo importantissimo per il nostro paese, raggiunto più di quattro secoli fa e ancora fortemente attuale.

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lunedì 28 dicembre 2009

Taranto-Firenze, monologo dell’ultimo dei Pazzi (Lupo editore) di Agostino Palmisano alla Libreria Nomine Rosae di Castellaneta

MARTEDI 29 dicembre ore 19:00, presso la Libreria Nomine Rosae, via Mercato, Castellaneta, Luca Dell'Abate presenta il romanzo d'esordio di Agostino Palmisano, Taranto- Firenze, Lupo editore. Il romanzo, dell'autore trentenne di Castellaneta, pubblicato nella collana 'Incipio', diretta da Michelangelo Zizzi per Lupo Editore, è la storia di un semidisoccupato che dalla provincia di Taranto si trova a Firenze, città nella quale gigioneggia in cerca di fortuna, vivendo di espedienti, tra lassismo e divertimenti casuali. Finché non giunge allo stato di stasi maniacale in forma di monologo, tra accenno di nostalgia e mitomania a sfondo erotico. Il lavoro si inserisce certamente nel filone della recente e fortunata produzione meridionale di romanzi a sfondo socio – esistenziale, ma colpisce per la ricerca di una scrittura corrodente, cruda e senza retorica. “Ora è tutto finito. Sono vuoto. Ogni tanto faccio un sogno. Ogni tanto mi arriva una lettera che io stesso mi spedisco. Ora posso solo aspettare e ubriacarmi. Ubriacarmi a morte. Aspettare all’infinito. E’ tutto finito ora che sono l’ultimo”. Romanzo a sfondo problematico sociale, scritto in forma di monologo dialogico, affronta problemi del nostro tempo: precariato, mancanza di ideologie forti, qualunquismo delle società post-moderne, senza liquefarsi in teorie sulla società, ma con un’attenzione alla quotidianità sempre uguale a se stessa del protagonista, Renato Dei Pazzi. Palmisano, al suo esordio, dimostra di possedere talento nel raccontare una storia di un eroe tragico: l’ultimo dei Pazzi.

OSCAR GLIOTI, Fumetti di evasione (Vita artistica di Andrea Pazienza), Fandango. Intervento di Osvaldo Piliego

Di Andrea Pazienza non si parla mai abbastanza. Artisti come lui meritano continue riletture, una vita se pur breve, intensissima da tutti i punti di vista. Una vita così vicina e astratta dalla realtà che finisce per sconfinare e invadere anche il suo immaginario artistico. Ecco che è possibile ricostruire vita e opera di Andrea Pazienza con un registro che sembra essere letteratura e cronaca dei fatti al contempo. Quando si dice una vita da romanzo, o in questo caso, una vita da fumetto. E tre sono i personaggi raccontati in queste pagine, tre capitoli, tre periodi della formazione umana e artistica di Andrea. Pentothal, Zanardi e Pompeo. “Il giogo mentale di Pentothal, la valvola di sfogo di Zanardi”, e poi la liricità di Pompeo “il ritorno alla carne, al dolore, a una testimonianza sincera e senza mediazione”. Emozioni e vita insieme. Pentothal incarna il Pazienza del 77, il suo utopismo in controtendenza con l’ideologismo del tempo, Zanardi è la perdita dell’innocenza, il lato oscuro di Andrea, quello malato e poi Pompeo, la fine, l’ultimo capitolo di una vita e di un’opera. E in tutto questo c’è la sperimentazione, la voglia e la capacità di oltrepassare il limite per trovare nell’equilibrio o disequilibrio tra immagini e testo nuove forme per l’illustrazione. Fumetti di evasione è un bel libro, si legge come un “film”, nel suo associare immagini a una storia speciale. “Il fumetto è evasione, è sempre evasione, deve essere evasione, del resto la parola evasione è una bellissima parola, evadere è sempre bello, la cosa più saggia da fare... Poi se c’è qualcos’altro ben venga.” (Andrea Pazienza, 1984)

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domenica 27 dicembre 2009

Bruno Munari: mirabile coniugazione tra idea e manufatto, tra spontaneità e controllo di Maria Beatrice Protino
















Era un uomo minuto, dall’apparenza delicata, eppure un artista poliedrico, un intelligente designer e grafico, impegnato in diversi campi: dai libri ai giochi, dalle illustrazioni alla grafica, dalla scultura alla cinematografia, dal design industriale alla poesia. Nel 2007 si è celebrato in tutto il mondo il centenario della sua nascita e nel 2008 il decennale della sua scomparsa: mostre, letture pubbliche e inaugurazioni di spazi permanenti da Milano, a Tokyo, a Roma. Studiare il lavoro di B. Munari è una scoperta continua. Era un artista e un grafico, un designer e un pedagogo, impegnato in arte quanto in politica, un inventore e uno studioso attento dell’animo umano. Insieme a Maria Montessori e Dewey lo si ricorda come uno dei più importanti pedagoghi del Novecento. Teorizzatore e creatore dell’educazione attiva e di un metodo di insegnamento oggi registrato con marchio “Metodo Bruno Munari“ e acquisibile solo con un apposito master (www.brunomunari.it): si pensi agli splendidi libri per ragazzi, pieni di invenzioni tecniche e poesie, e le illustrazioni per Rodari, i giochi prodotti per Danese. Ma Munari è anche il grafico editoriale per Einaudi e Zanichelli; è lo scrittore di innumerevoli libri - ciascuno diverso, impegnato e sognante ad un tempo; è l’artista erede del futurismo e sperimentatore cinematografico che ha lasciato importanti contributi anche nel campo dell’architettura; è un politico polemista dell’Italia piccolo borghese e arricchita, quella del grande lusso ignorante. «Questo vivere senza amore, senza partecipazione; questo senso di miseria lo possiamo trovare anche in certe case di lusso dove una madornale miseria culturale fa sì che esse siano fatte con i materiali più costosi (solito equivoco tra prezzo, valore, funzione), per cui possiamo trovare case con i rubinetti d’oro ma senza un libro di poesia, senza addirittura alcun libro». Per Munari ogni invenzione è la risoluzione di un problema specifico, determinato. “Da cosa nasce cosa” (Laterza 1981) si apre con un detto di Lao Tse che recita: «Produzione senza appropriazione, azione senza imposizione di sé, sviluppo senza sopraffazione», seguito dalle quattro regole del metodo cartesiano e da lui pienamente condiviso e praticato: l’evidenza, la suddivisione dei problemi in parti, l’ordine dei pensieri, l’esaustività del pensiero. Quel che oggi forse più piace ricordare di questo grande uomo è l’ammirevole capacità di poter comporre le due tensioni: spontaneità e controllo, ordine e liberazione, l’uso del metodo per arrivare alla creazione del nuovo attraverso dalla fantasia.

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sabato 26 dicembre 2009

Mitili e Cenere (Edit Santoro) di Annamaria Cenerini. Intervento di Carlo Spinelli

Mitili e Cenere, i trentatré componimenti poetici di Annamaria Cenerini esprimono un elevato uso della parola poetica, lì dove la poesia è sapiente scrittura naturale della parola essenziale che, come tale, non rimanda oll’oggetto che nomina, come direbbe Mallarmé, così caro all’autrice. Una poesia che diviene profonda sensualità e piacevole percorso di percezioni e di memoria, nella musicalità avvolgente dei versi che, pur liberi, concedono gradevoli assonanze e allitterazioni, nel fluido procedere di un linguaggio che sovente cede il passo agli enjambement. E il risultato finale è un ritmo continuo, un succedersi di suoni che nella mente arrivano quasi a configurarsi in un alternarsi del cerchio e della linea, così come si avvicendano da una parte il sacro, nel profondo desiderio di trascendenza (e il desiderio si fa vegetazione) e dall’altra l’immanenza del quotidiano, che si vuole conquistare alla stregua di tanta razionalità invocata, intravista nella disposizione dei libri sui ripiani squadrati e inseguita come un farmaco, (…) un ordine alfabetico da reiterare come monotone litanie domenicali. Tutte le poesie esprimono una sensibile tensione poetica nel raffinato tentativo di aspirare all’apollineo ordine delle cose, fuggendo dal caos naturale della percezione. Situazioni della vita quotidiana assurgono al più alto rango del sentire poetico, attraverso una sensualità che non ha più il corpo per oggetto della sua percezione, come nella precedente inedita produzione, ma la natura, con la quale l’autrice vive quasi un processo di identificazione dall’eco dannunziana (vorrei… esser nata oleandro o aloè); una natura che si fa parola poetica e ineluttabile nutrimento: parole che lievitano, che sanno di sale e rovi, parole impastate con farina di rose e acqua di ninfee; una parola poetica che, nel quasi rimorso di non aver potuto regalarla alle persone care che non ci sono più, continua a svolgere la sua antica funzione eternatrice. Pertanto questi versi svelano anche il loro contenuto metapoetico, come anche nelle voragini delle parole o nel groviglio dei pensieri che si fa ricordo e lei, divenuta bambina, rincorre schive galline prolifere di uova deposte altrove/altro tempo altre parole. E’ esplicito il ricorso ad una parola che sprofonda a recuperare innumerevoli significati, collocandosi in altri luoghi, altri tempi; divenendo, quindi, una parola “altra”. E da luoghi lontani, ancora una volta la natura restituisce la memoria di un’infanzia felice, come il profumo del mallo acerbo di quel noce che ombreggia il gioco di Tita e Francesco. Ma al di là del mallo e il noce, altre immagini simboliche si aggiungono da subito, dopo l’apertura salmodiante del primo breve componimento (Beati coloro che hanno verità e disegni definiti…). E così la luce e l’acqua, di cui la poetessa vuole nutrirsi, vanno a scomodare inveterati archetipi che preludono alla figura di un dio e di un divino intesi in senso umanistico, utili a superare l’immanenza. E ancora, l’antico giardino dei desideri, che nella nostra cultura arriva a confondersi con l’orto, ci regala mediterranei profumi familiari di salvia, menta e prezzemolo; peperoni, arance e limoni; percezioni totali che arrivano al sinestetico profumo biancastro del gelsomino materno. E poi la civetta e la gazza, il gufo e la rondine. Tutti simboli che rimandano ai quattro elementi naturali, ad eccezione del fuoco che compare indirettamente attraverso il sale che, estratto dall’acqua mediante evaporazione, altro non è che un fuoco liberato dalle acque. Il sale, così carico di significazioni, rimanda ancora una volta alla figura di Cristo (Matt. 5,13) e al suo valore di forza e salvezza; al concetto di purificazione e, più di tutto, a quello di una trasmutazione (fisica, morale, spirituale): il sale conserva gli alimenti ma può anche distruggere per corrosione. Ecco perché, nel suo ultimo avvertimento metapoetico, appreso nella famigliare fucina materna, Anna Maria suggerisce quel ‘sale quanto basta’, quasi ad indicare una certa parsimonia nell’uso della parola poetica, in sintonia con quella tenue luce che poche ore dopo/ il tramonto regala ombra/ e poi il silenzio agguerrito/ contro la parola urlata.

casa editrice: http://www.editsantoro.it/index.asp

su concessione dell'autrice

venerdì 25 dicembre 2009

Emmaus di Alessandro Baricco (Feltrinelli) visto da Elisabetta Liguori

Un romanzo misurato, quello di Alessandro Baricco, ma radicalmente diverso dalle storie alle quali ci aveva abituato lo scrittore tra i più mediatici del momento. Il tema? L’incapacità dell’uomo di riconoscere se stesso, le proprie ideologie, i propri limiti, narrata partendo dall’antica strada di Emmaus. Forse una scelta provocatoria, oggi che siamo chiamati a decidere se appendere in classe un crocifisso o lasciare a ciascun luogo la libertà che merita. Quella di Emmaus è infatti la più poetica tra le testimonianze evangeliche sulla Resurrezione di Cristo. Di certo la più amata dai fedeli. Vediamo il contesto: Gesù è appena morto sulla Croce. Il Sepolcro è stato trovato vuoto dalle donne, dopo giorni di strazio. I discepoli di Gesù sono sconvolti. Siamo a sole sette miglia da Gerusalemme. qui due pellegrini tristi incontrano un viandante. Parlano, camminano. Solo dopo, durante la cena, i due, guardando il viandante spezzare sapientemente il pane, lo riconoscono: è il loro maestro tornato uomo. Quando lui, come era comparso scompare, i due restano a domandarsi come abbiano potuto essere così ciechi. Tutta la testimonianza attribuita all’apostolo Luca è quindi giocata sulla dimensione dello smarrimento. Desiderio, paura e amore s’intrecciano, mentre la verità resta sullo sfondo: anelito irraggiungibile.
Da questo umano bisogno di verità prende le mosse l’ultimo Baricco. I suoi personaggi non sono apostoli, ma quattro diciassettenni, figli di una generazione cattolica e quieta, ormai in via d’estinzione. Anche i due discepoli descritti dal Vangelo erano alquanto misteriosi. Di uno soltanto di essi Luca fa il nome: Cleopa. Non sembra si tratti di due apostoli - cioè della cerchia più stretta di Gesù - ma di due discepoli appartenenti alla cerchia più ampia di coloro che si erano aggregati a lui, dopo le predicazioni e i miracoli. Cleopa - Kleopas nell'originale greco - potrebbe essere la contrazione di Kleòpatros, cioè Figlio di Padre famoso. Un appellativo assai diffuso nella Palestina dell'epoca. Secondo fonti antiche, questo padre famoso sarebbe stato nientemeno che lo zio di Gesù. Con buona pace di Dan Brown che forse non l’ha ancora scoperto! Figure oscure quanto i ragazzini scelti da Baricco: quattro anime piccole borghesi, ancora impreparate alla vita. Tra questi solo Luca ha un nome; gli altri sono desiderio astratto, contesto generazionale, cultura, modo di essere. Nulla appare più fragile, mesto e stupefatto della loro giovinezza. Emmaus è, dunque, una storia dura, che parte da un suicidio e si spinge verso temi quali la violenza, la bellezza, il tradimento, la malattia. Snodi cruciali in cui fede e ragione vengono messe a dura prova. Un raggio di luce taglia il piano orizzontale della loro vita quotidiana. La profondità del vivere diventa pulviscolo, intuito d’improvviso dal sole in una stanza buia. Quello che illumina questo romanzo è infatti il desiderio di chiarezza, di necessaria narrazione, così come sembra voler reclamare la sua copertina, sorprendentemente bianca e silenziosa.

su concessione dell'autrice

giovedì 24 dicembre 2009

Al Fondo Verri Lemaniel’ascolto IX edizione
















Torna Le Maniel’Ascolto. Come consuetudine - con il sostegno dell’Amministrazione Comunale di Lecce - un pianoforte abiterà il Fondo Verri. Un appuntamento che si rinnova in occasione delle festività per il Capodanno, una rassegna di parole e di suoni giunta quest'anno alla nona edizione. Libri, esperienze autoriali e ricerche sonore in una maratona di ascolti che avrà luogo e pubblico dal 28 dicembre al 6 gennaio nella saletta di Via Santa Maria del Paradiso. Il costante contatto con la scena creativa (musicale e letteraria) è una delle prerogative del Fondo Verri. Le Maniel’Ascolto rinnova il desiderio di costruire avventure sonore proponendo repertori che hanno il pianoforte come elemento di guida e di raccordo delle performance, pretesto di incontri, scambi, creazioni, in una tensione di ricerca che attraversa i generi, i modi d’espressione, l’arte con le sue con-fusioni esistenziali e con il rigore che interviene a fare stile, segno, lingua.
Otto serate di incontro di contaminazione tra suono, poesia, scrittura, teatro e immagini. Il primo appuntamento il Lunedì 28 dicembre, dalle 20.30, con il libro di Manila Benedetto, Donne e altri animali feroci, edito da Coniglio. La tastiera del pianoforte è affidata alle Interferenze di Stefano Pellegrino.
A seguire:
29 dicembre
Il libro di Pierluigi Mele, Da qui tutto è lontano, Lupo
La musica di Raffaele Vasquez, Nicotina 06
30 dicembre
La poesia di Giuseppe Greco
La musica di Roberto Gagliardi e Massimiliano Ingrosso, Melting pot duo
2 gennaio
Le poesie di Guido Picchi e Maurizio Nocera che legge Totò
La musica di Raffaele Casarano e Marco Bardoscia
Ospite della serata l’arpa di Keti Giulietta Ritacca
3 gennaio
Il libro di Vito Antonio Conte, Fuori i secondi, Luca Pensa
La rivista, Palascia, l’informazione migrante
La musica di Emanuele Coluccia, Volo e di Claudio Prima, Dentro la città
4 gennaio
La poesia di Daniela Liviello con Il segno e il suono
per la musica di Rachele Andrioli e Donatello Pisanello
5 gennaio
La poesia di Anna Maria Mangia e Patrizia Ricciardi letta con
Giovanni Santese e Fernando Bevilacqua
La musica di Mauro Tre e Irene Scardia, Piano Duet
6 gennaio
Da Qui Salento, Salento da favola, storie dimenticate e luoghi ritrovati”
Letture di Andrea Contini, Antonella Iallorenzi, Ippolito Chiarello,
Angela De Gaetano, Piero Rapanà, Mauro Marino,
Simone Franco, Simone Giorgino, Fabrizio Saccomanno

Tutte le serate dalle h. 20.30


Città di Lecce / Assessorato alla Cultura. Associazione Culturale Fondo Verri, Presidio del libro di Lecce. Lemaniel’ascolto, IX edizione. 28 dicembre ’09 / 6 gennaio ‘10

Oltre The Secret di Brenda Barnaby (Età dell'Acquario)

Ormai parlare di The Secret e di Legge dell’Attrazione, vuol dire fare riferimento ad una sterminata bibliografia e videografia a tutt’oggi in Italia edita parzialmente. Tra le opere che recentemente sono uscite nel nostro paese, due in particolare meritano una certa attenzione. La prima di Jack Canfield e D. D. Watkins, edita da L’Età dell’Acquario nella collana Anterpima dal titolo “La Chiave della Legge dell’Attrazione – il metodo Canfield per creare la vita dei tuoi sogni”; la seconda sempre per la stessa casa editrice ha per titolo “Oltre The Secret – nuove rivelazioni del Segreto per cambiare la tua vita” di Brenda Barnaby. Partiamo dal primo libro dicendo che si tratta di una pietra miliare in questi ambiti di ricerca, dal momento che la Byrne - si dice - abbia preso ispirazione proprio da quest’opera per fondare il “sistema filosofico” che l’ha resa celebre in tutto il mondo. La peculiarità del lavoro di Canfield e Warkins risiede soprattutto nell’aver messo l’attenzione sul potere della scrittura e della parola di attivare un processo di energia visualizzante nella mente delle persone che si concentrano sul desiderio di modificare le proprie condizioni di esistenza, tale da aver realmente delle ricadute extra/mentali significative, da lasciare a bocca aperta. Si tratta di qualcosa di semplice e di rivoluzionario insieme. La chiave di volta è l’evocazione di ciò che si desidera, attraverso un’autodisciplina volta a controllare la qualità dei propri pensieri, mediante atteggiamenti e azioni coerenti. Gli autori pianificano esercizi e verifiche, e ciascun lettore è messo gradualmente in condizione di vivere una vita degna di tal nome. Ciò che appare come “segreto” altro non è che la capacità del singolo di mettere in pratica una sorta di ecologia mentalistica tale da condizionarne lucidità e capacità di interpretare i fenomeni che accadono nella quotidianità del soggetto agente. La seconda opera presa in considerazione, quella della Barnaby (realizzata tra l’altro anche con la collaborazione di altri studiosi come Roma Bettoni, Anil Bhatnagar, Gerina Dunwich, Gerald Epstein, Christian H. Godefroy, Alison Greiner, Susan Jeffers, Deirdre Jones, Peter Kummer, Dennis Lewis, Linda Mackenzie, Ursula Markham, James. J. E Constance Messina, Vera Peiffer, Lee Pulos, Peter Ragnar, Remez Sasson, Marty Varnadoe Dow, Waldo Vieira) parte da un’approfondita analisi delle correnti di pensiero e degli autori che fanno parte in maniera diretta ed indiretta del New Thought, per proseguire poi nella definizione di strategie d’azione per quanti volessero andare al di là del “Segreto”. I prodromi delle considerazioni e riflessioni portate avanti dall’autrice partono dalle consuete affermazioni per questa tipologia di pubblicazioni, che dicono come la Legge dell’Attrazione regoli l’Universo, e come il pensiero attragga irresistibilmente ciò che immagina. La singolarità di questo lavoro però, è che ha qualcosa di più esoterico e scientifico insieme ( si tenga presente ad esempio come le teorie di fisica quantistica di cui ne fa ampiamente uso il New Thougth, sono state utilizzate dallo scrittore Dan Brown nel suo ultimo lavoro “Il simbolo perduto”). In sintesi in queste pagine si prende in considerazione la legge, utilizzata anche nella tradizione alchimistica, del “come in alto, così in basso” propria della Tabula Smeralgdina attribuita ad Ermete Trismegisto. Esiste dunque un collegamento tangibile e reale che collega e rende quasi un unico organismo macroscopico l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grade, ossia tutte le energie e vibrazioni fanno parte di un’unità psico-cosmica. In più si accostano metodologie di ricerca proprie della psicoanalisi e del mentalismo, alle pratiche mistico/ascetiche la cui fonte sta nelle Upanishad. Il tutto per spiegare che la volontà di realizzare i propri desideri può entrare a far parte della nostra vita. Con la sola forza di ciò che pensa, ciascuno di noi può essere protagonista di una rivoluzione, che comincia nell’interiorità ma si traduce rapidamente in occasioni sorprendenti. Le storie raccontate in questo libro sembreranno a molti incredibili, ma sono tutte vere. Dimostrano che la malattia può essere sconfitta, che qualunque difficoltà può essere superata, che la ricchezza è alla portata di tutti, che l’amicizia non può escludere nessuno.

Nuove rivelazioni del Segreto per cambiare la tua vita

ISBN: 9788871363110

Prezzo € 13,60
invece di € 16,00 (-15%)


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mercoledì 23 dicembre 2009

Roberta Calò, Scavamilanima (Giuseppe Laterza editore, 2009)

Parlare di Roberta Calò e del suo lavoro dal titolo “Scavamilanima” edito per i tipi di Giuseppe Laterza, risulta agevole per la chiarezza degli intenti poetici che sono alla base dell’intera raccolta e per la immediatezza e forza dei versi che l’autrice manifesta senza veli ai suoi lettori. Parliamo di una dimensione lirica dove i sensi sono all'erta e l’amore sviluppato in ogni sua dimensione, e latitudine, tanto che la parola diviene strumento di scandaglio ideale per potenziare il senso stesso del rapporto e del dialogo amoroso che vive del suo essere corpo, pelle, vita. In questi versi sopravvivono solo piccoli ma essenziali punti di riferimento (l’amato è non solo l’oggetto del sentimento ma forza deflagrante eros e sensualità; l’amante invece è universo generante il canto delle due voci narranti e narrate) indispensabili alla sopravvivenza dell’io poetico dell’autrice che proprio per il contenuto essenziale ed esistenziale del canto prodotto cerca di superare solitudine e desolazione con uno sguardo lucido che racconta una realtà come tante, una storia d’amore come tante, ma proprio perché simile a molti altri universi di relazioni amorose, richiede delicatezza, sensibilità, eleganza, e uno sguardo in grado di produrre una scrittura lacerante, lacerata, mai paga.
Roberta Calò è una giovane poetessa che non si risparmia nel suo darsi al pubblico, e non ama nel modo più assoluto fare economia del suo poter essere senza limiti, considerando che si tratta anche della prima raccolta poetica. E devo dire che sebbene si tratti di un’opera prima, non vi ho trovato solo entusiasmo, e determinazioni tipiche dell’esordio, della giovane età o di altre caratteristiche che comunque rientrerebbero in altri criteri di analisi extra-testuali, di chi insomma è alle prime armi in un mondo come quello della Poesia rischioso, rischiosissimo soprattutto se si pensa all’enorme produzione di pseudo-poesia che oggi riempie gli scaffali di molte librerie nel nostro paese. L’autrice è sulla strada giusta, quella della maturità poetica che sa cogliere l’universale nel particolare, ovvero quella capacità di saper essere nei cuori di chiunque parlando delle proprie esperienze e di rendere tutto questo entrando nel respiro del verso e nel suo ritmo. Ingenuamente (perché ancora lontana da un’autoconsapevolezza di poter divenire grande con la sua Poesia) nella sua prefazione al volume, spiega il miracolo di un sentimento che diviene per lei incanto cosmico: l’amore, quello di cui tutti parlano, da tutti vissuto e a volte perso, di cui comunque non si finirà mai di dire e di trattenere nel cuore e nei gesti. Roberta Calò è in grado di trascinare il lettore in un turbinio di versi caldi, a volte “very hot”, a volte delicati come le nuvole, ma gravidi tutti di inarrestabile furore, e gemito che toglie il respiro. Sono d’accordo con quanto scrive Lino Patruno della giovane autrice dicendo che la sua scrittura è perennemente oscillante “fra torrido erotismo e ingenuo candore”. Ed ecco allora che Roberta Calò ci farà immergere in tracciati di pelle e gola, sudore, sesso, e sentimento, tra il senso dell’oblio e la ricerca di un’identità corporea, sciolta e ricomposta incessantemente dalla parola, quasi in un’estasi orgasmica che brucia gli attimi. Un lavoro che si lascia apprezzare nel suo parlare e scrivere di amore e di morte e forse … di altre sciocchezze!

L'acqua scivola sul mio corpo
come la tua mano avanza dentro di me

e goccia dopo goccia
ci incontreremo
nell'abbraccio di un'onda

martedì 22 dicembre 2009

STORIA DI GIUSEPPE, DAGONET E TANTI ALTRI AL MONDO. Di Silla Hicks















A volte la nebbia è così spessa che proprio devi fermarti e aspettare ore che non passano, incolonnate come tir sull’Adriatica mentre fa giorno.
E non puoi nemmeno bere che se ti beccano all’alcolemico addio patente, così parlare e mangiare e fumare è tutto quello che riempie il vuoto: chi può telefona o dorme, sì, ma siamo tanti a non avere nessuno da chiamare o rivedere chiudendo gli occhi, tanti a restare lì, immobili, sulle sedie di plastica fuori da un autogrill mentre il grigio ci si condensa addosso. Nel fumo di MS fissiamo il vuoto umido che ci avvolge, potrebbe esserci qualsiasi cosa, ovunque, oltre i pochi centimetri che possiamo scandagliare. Alberi, case, persone, che lavorano e vivono e fanno l’amore, strade che portano a casa, ammesso se ne abbia una. Qualcuno tenta di indovinare, altri non sono così fortunati da aver voglia di provarci e s’azzuffano, litigano per cazzate, bestie che finalmente hanno il tempo per rendersene conto, per pensare.
Io li guardo, ci guardo, e finalmente capisco di avere un posto nel mondo, non importa se scomodo e umido e freddo, è il mio posto, questo, e io sono uno di loro, uno di questi articolati forzatamente fermi cui nessuno fa caso, tappezzeria delle autostrade, lavori in pelle, direbbe Ridley Scott, che come tutti hanno le stesse domande e la stessa mancanza di risposte, anche se non dovrebbero, anche se a nessuno importa. Mentre tiro fuori il termos dallo zaino lo sento, più che vederlo, sbattere il portello del suo Scania bianco e sedermi vicino senza dire niente, l’offerta di una sigaretta come saluto mentre si passa la mano sul cranio rasato, non credo ricordi di non avere i capelli. Porta occhi più azzurri dei miei, del celeste assoluto che è sopra di noi oltre la caligine densa che non ci lascia vederlo e una cicatrice dal sopracciglio al labbro che gli attraversa la faccia arrossata come il trucco pesante di un mimo: è lo sfregio del sergente Barnes che gli dà l’aria triste di un gigantesco Pierrot. Perché è alto, alto quasi quanto me e forse venti chili più pesante, un colosso, sì, ma anche un origami nelle parole che gli gocciolano lungo il solco slabbrato che dovrebbe indurirlo e invece l’addolcisce dell’imperfezione umana mentre cerca il coraggio per dirle: non so perché a me, ci conosciamo appena. Di lui so il nome, il CB e poco altro, so che malgrado l’aspetto vichingo è italiano e meridionale, e abita a Taranto: me l’ha detto, una volta, ma è stato prima che ritrovassi la capacità di ascoltare, che tornassi me anche senza esserlo, dio, mi hai bruciato l’anima, solo da qualche mese ho ricominciato a sentire almeno dolore. Ma lui non può saperlo, lui crede che io rammenti, e mentre penso solo che somiglia al personaggio di uno dei miei film ma non so bene quale, è convinto che io sappia già che l’ha conosciuta quest’estate, che ricordi tutto quanto mi ha detto di lei mentre solo adesso scopro che ha vent’anni meno e il codino, che lavora all’Esselunga e porta vestiti leggeri anche d’inverno. Particolari così minuziosi che posso quasi vederla, questa ragazzina che descrive dipingendola e pretende io riconosca, perché non può credere ci sia qualcuno immune dal demone che lo possiede come tuttora io non mi rassegno a che tutto esista anche senza noi. Vorrei dirglielo: non mi merito questo regalo, non mi merito il tuo cuore e il tuo sangue, davvero non so quasi chi sei, davvero non ricordo, non so niente, nemmeno ti stavo a sentire. Vorrei dirglielo, ma all’ultimo momento capisco, sarebbe ancora peggio voltargli le spalle adesso, nella nebbia, mentre il racconto gli si affolla sulle labbra spaccate dal freddo e forse dalla febbre, col brusco cambio di temperatura quasi tutti noi andiamo avanti a nimesulide e lui ha i brividi sotto la giacca a vento di nylon giallo con la zip tirata fino al mento: non s’è mai accorto che non lo ascoltavo, fuori dalla mia consapevolezza non gli ho mai fatto veramente male, ma potrei fargliene adesso, e non volevo e non voglio. Perché davvero quasi non lo conosco, ma vorrei abbracciarlo, quest’omaccione di cinquantatre anni e due metri che s’accartoccia sulla sedia di plastica, qui, davanti a me, ai piedi della sua Cristina che fa la ragioniera e doveva essere un’avventura e invece gli ha mangiato via il cervello e la vita, questa ragazza che è un fuscello ma gli si è abbattuta addosso come una sequoia, imprigionandolo tra il proprio corpo e i cocci di tutto il resto. Ha moglie e due figli grandi, il camion è suo, si è comprato casa e aveva una vita, fino a ieri. Qualche storiella in giro, sì, perché gli piacciono le donne e lui piace a loro, così granitico e immenso e con quella faccia e con quel sorriso e con quel modo sfacciato di spogliarle coi suoi occhi così azzurri: ma sempre niente di che, in piedi contro un muro e poi tornare da Adele e i suoi strilli nel cellulare, ma dove sei, stai dormendo, si sono messi insieme adolescenti e certo l’amore è un’altra cosa, ma cazzo, c’è una vita intera di mezzo e i ragazzi, che hanno studiato e saranno qualcuno, nella patente la foto della figlia, che è anche lei bionda, ed è bellissima e torna solo a Natale, Manuela che fa l’architetto, e sì, mi ricordo, almeno di lei. Ma poi c’è stata Cristina, Cristina cui ha dato un passaggio a casa un giorno che i treni erano in sciopero e lei aveva la macchina rotta, un passaggio dopo qualche settimana di schermaglie, che doveva essere un episodio e invece ha cambiato tutto il film. Sliding life, come porte che scorrono e tutto cambia se sali o no sul quel vagone, sul sedile dello Scania sono passati dallo scherzo più o meno allusivo ai fatti concludenti, o meglio è stata lei a passarci, mentre lui continuava a guidare. E quaranta chilometri scarsi d’autostrada sono stati due ore e mai era stato così, senza nemmeno fermarsi, la sua bocca e le sue mani dappertutto, che proprio – testuale – avrebbe voluto ricambiare, ma lei gli ha detto no, non sono cose che si ricambiano, e: sono collaudato a centotrenta, conclude, fiero e insieme quasi ancora incapace di crederci lui stesso, d’altronde: sai, anche lei mi ha detto che se l’avessi raccontato in giro non mi avrebbe creduto nessuno. Ma no, io invece lo credo, ti credo, Giuseppe, e poiché ti credo so anche che non è stato quello, non è stato per un pompino che sei ridotto così, che di certo te ne avranno fatti tanti altri, e anche migliori di quello che può averti fatto mentre guidavi una ragazza con le labbra sottili da cui avevi strappato via il gloss a morsi, che invece ti è parso l’unico della tua vita perché quelle erano le sue labbra, e quella era lei. È così che funziona, con l’amore, ed ho già capito tutto ma non voglio interromperlo mentre si affanna a cercare le parole per spiegare com’è stato: parole accurate, delizioso, sopra tutte, parole che non ti aspetteresti e invece ci sono, perché ha la terza media, forse, ma ha letto La Storia della Morante un mare di volte, e anche L’isola di Arturo, perché è un camionista ma anche un uomo, e per quello non servono le scuole ma solo occhi per guardarsi attorno, e i coglioni per tenerli aperti, anche, vabbè, ma questa è un’altra storia. Ed era il trenta di ottobre, ed era sabato, e il lunedì mattina è andato a prenderla per portarla al lavoro e vaffanculo c’era anche Paolo che doveva aiutarlo a scaricare e per tutta la strada le ha guardato le gambe e si è sentito esplodere senza poterla sfiorare: mi dice della sua pelle sotto le calze che gli si incollava al cervello, si era messa la gonna apposta per smarrirlo e ci era riuscita bene. E quando è scesa e Paolo ha detto che era un gran gnocca, allora l’avrebbe ammazzato, davvero, voleva mettergli le mani al viso, che cazzo, come si permetteva, era roba sua. Me lo dice così, e senza accorgersene finalmente ammette che già non poteva essere una scopata e basta, e che se anche lei non avesse compiuto gli anni dopo qualche giorno e non le avesse regalato una notte intera qualcosa dentro il suo meccanismo di chilometri da e fino a casa s’era inceppato senza rimedio, nel momento esatto in cui le aveva sfiorato la faccia con le dita dentro alla cabina, cinque minuti dopo che era salita, prima ancora di baciarla e tutto il resto. Ma comunque sia, poi c’era stata la sera del quattro novembre che s’erano visti alla fine del suo turno nel piazzale dell’Esselunga, e mentre l’aspettava già sentiva le sue mani sulla pelle sotto la maglietta e la camicia, leggere, dolcissime: sono proprio queste le parole che usa, che scivolano giù dall’azzurro dei suoi occhi lungo la sua cicatrice fino alle sue labbra, e mai te la immagineresti nella sua voce roca e coerente con tutto quanto in lui una tenerezza così fonda mentre le dice, ha la forza di scaricare un rimorchio intero senza transpallet e l’ho visto farlo, ma l’amore l’ha spezzato, come fa con tutti gli altri. Lui non lo chiama, non gli dà un nome, ma in questa nebbia è evidente, che si è perso, ed ha paura, così tanto da non riuscire più a pensare né a salvarsi, e no, non gli servirebbe una doccia fredda, anche se è questo che le ripete quando l’incontra, il fatto è che paradossalmente è solo con quel corpicino addosso che si sente al sicuro. Così immenso, con quelle spalle e quelle braccia, sta tutto nella mano di una ragazzina, rannicchiato tra le sue dita, perché è questa l’illogicità dell’amore: con il suo tocco lieve lei l’ha fatto a pezzi, non gli arriva nemmeno al petto ma può schiacciarlo, voltandosi appena. Lei non gli chiede né gli ha chiesto niente, ma è lui a chiedere e volere, il suo tempo e i suoi pensieri e naturalmente la sua pelle, è successo tutto da solo, e forse è così che doveva andare, mi dice, Cristina non è come nessuna delle altre. Vorrei chiedergli perché, certo deve avere le palle una che non fa niente per non nascondersi il cuore, che ti guarda dritto e ti dice mi piaci, ho pensato tante volte a come poteva essere fare l’amore con te, volevo baciarti e via dicendo, ma non basta questo, dev’esserci di più per forza, non può bastare fartelo venire duro per farti perdere il senno, tanto più se la prima cosa t’è capitata spesso e la seconda mai. Ancora meglio se quando ne hai avuto la possibilità per la prima volta non sei nemmeno riuscito ad averla da tanto che la volevi: e lui racconta che la notte del suo compleanno ha passato gran parte del tempo a tenerla soltanto abbracciata, coperto di sudore freddo, disteso sul suo letto standard in cui non entrava, assolutamente felice di tenerla rannicchiata addosso: quando sono stanco capita, ha cercato di scusarsi, dopo i cinquant’anni non è come a venti, ma lei ha continuato ad accarezzarlo, e gli autotreni possono anche essere fragili, ha sussurrato, perché la cinquecento ha la doppietta e come guidi la guidi lo stesso, un autoarticolato va trattato con cura. Vorrei chiedergli se è stato questo a dare un senso diverso a tutto, ma non me ne lascia il tempo, e forse non gli importa nemmeno, parla di lei perché ne è intriso e questo basta: come e perché sia successo adesso non ha senso chiederselo, ed è comunque tardi. E forse lo è stato sempre, ha ragione lui, le cose succedono da sole, anche se no, ha torto, non è perché siamo grandi e consenzienti né perché – testuale – siamo due persone che si stimano, si vogliono bene e si piacciono molto, perché fosse così resterebbe posto, per Adele, e casa, e tutto il resto. Invece Cristina non ha lasciato posto a niente, l’ha travolto davvero come un tir e se l’è portato via, ridotto a carne maciullata e indifesa e sanguinante, e se lei ha mani delicate e lui morse attaccate ai polsi è solo un dettaglio, incongruo, sì, ma niente è mai come sembra, e io dovrei saperlo, in fondo, io che aspetto ancora che torni anche se sono passati quasi tre anni e lo so, che non tornerai. Io che ascolto quest’uomo, qui e adesso, fuori dalla stazione di servizio Chienti che è un’ora da Fano e a trenta minuti da Ancona Nord, quest’uomo che svuota la sua anima su questo tavolino di plastica come uno zaino in cui cerca le chiavi che non riesce a trovare, come se esistessero chiavi, come se esistesse via d’uscita, come se ci fosse modo di tornare a casa quando ci si è persi nella nebbia e sta diventando tutto freddo e buio. Apro il mio termos e gli verso del caffè, mentre lui si passa una mano sulla testa, di nuovo, ma adesso so che non è perché crede di avere ancora i capelli: cerca le tracce delle sue dita, invece.
Adesso la vedo, Cristina, che lo accarezza nella cabina dello Scania, i polpastrelli che s’infilano nel colletto della camicia per avvelenarlo, come serpenti: è esile quanto lui è mastodontico, può stringerla tutta con un braccio solo, e mentre lo fa capisce cosa vuol dire, essere dio. E c’è la strada, che mai è stata così sua come adesso, vorrebbe portarla in un altro mondo ed avere un’altra vita, e vaffanculo a tutto, vaffanculo, cazzo, gli anni gli cadono dalle spalle e la cicatrice si rimargina, non c’è più niente, solo lei: è tutto chiaro, da questa parte della storia, nel fumo di una MS vorrei dirglielo, dirgli che l’amore l’ha infettato, e per questo continua a rabbrividire e senza di lei non c’è cura: ha deciso di essere forte e non chiamarla ma poi squilla il suo telefono, e attraverso il Nokia ne sento la voce, appena percettibile, solo un soffio, come stai. E persino il suo nome comune in quella voce è caldo e liquido, un mare d’estate in cui si ha solo voglia di nuotare lontano, acqua scaldata dal sole, il blu sotto gli scogli che ti porta al largo prima che tu possa accorgertene: sì, ha ragione, è dolcissima, e lieve, persino la sua voce è irresistibile carezza: mi piace immensamente, mi ha detto, e ora quasi so anch’io che voleva dire. E mentre lo guardo parlarle, finalmente ricordo anche in che film l’ho visto, King Arthur di Hans Zimmer, certo: è identico al legionario Dagonet, invecchiato, ma con la stessa faccia di pietra e gli stessi muscoli fibrosi di cavallo da tiro e lo stesso incosciente coraggio di correre sotto una pioggia di frecce per aprire una crepa sul lago gelato a colpi di scure: cazzo, non ho mai capito perché non scegliesse lui, Ginevra, piuttosto che l’arciere Lancillotto o il tormentato Artù indeciso tra Celti e Romani, Dagonet che muore come Polinice, mentre il ghiaccio s’incrina e il lago inghiotte i Sassoni. Non è questo che spero gli capiti, ma certo è possibile, l’amore raramente lascia qualche via di scampo, e non c’è retroguardia che possa coprirti, quando decide di venirti a cercare: ci sei solo tu, senza difese sotto un nugolo di frecce nemiche, dardi che ti strappano via la carne a morsi. Difficilmente si resta vivi e anche quando succede si portano cicatrici molto più dolorose di quella che gli attraversa il viso dall’infanzia, piaghe infette che a tradimento marciscono di cancrena. Vorrei dirglielo, ma è la verità e avvertirlo non servirebbe, adesso l’unica cosa cui può credere è la sua illusione. La sua illusione, e questa sirena con la coda di cavallo che porta mollette viola tra i capelli, che ha oscurato tutto con la sua ombra sottile e se lo porta dietro, nella mano. Cristina che non è come nessuna, perché l’amore ha mille facce, e questa è quella che ha guardato lui. Quando chiude, la nebbia ha cominciato a diradarsi, e qua e là il cielo è un frammento dei suoi occhi, azzurro intenso e terso, di cui c’è solo l’ombra, nei miei. Ci alziamo e gli tendo la mano, ma lui l’afferra e mi abbraccia, un muro di cemento armato che mi appoggia la testa rasata sulla spalla: grazie, mi dice, sorridendo, avevo davvero bisogno di parlare. Mentre riavvio il motore, lo Scania bianco è già uscito dall’aera di servizio, trascinandosi dietro il suo rimorchio e tutto quello che adesso so e non potrò scordare. Vorrei avere la speranza che ora lo scalda, la temperatura si è abbassata ancora. Apro una bustina di nimesulide, me la verso sulla lingua e l’ingoio, col resto del caffè. Senza accorgermene, sorrido. Non è detto che anche per lui sarà la stessa cosa, che finirà nello stesso modo, non è detto che anche i suoi occhi sbiadiranno e che si sveglierà e non riuscirà più a sentire niente, nemmeno dolore. Non lo so, che farà. Non lo so, come e per quanto potrà incastrare il dilagare di Cristina con quello che ha costruito finora, né se tutto finirà per travolgerlo e spazzarlo via, non so quanto dovrà soffrire e lacerarsi: di certo, che scelga lei o no, so che si farà male, e che arriverà il momento in cui sanguinerà e cercherà di tenersi dentro gli intestini con le dita, come Dagonet sulla lastra di ghiaccio che si spacca. Ma potrebbe riuscire a rialzarsi, e ad arrivare dall’altra parte, sulla riva. Ancora vivo. King Arthur, in fondo, è solo un film. Dagonet muore, io non ho avuto altrettanta fortuna, ma può darsi che a lui vada in modo diverso, che riesca a farcela, a stringere l’amore tra le dita, a non lasciarlo cadere e sfracellarsi, e insieme a non farsene fare a pezzi. Ma quando passo davanti all’Esselunga è la pausa pranzo e rallento, per vederla: fuma una sigaretta nel piazzale, una ragazza davvero sottile che non arriva all’uno e settanta, i capelli legati a coda che scendono fino a metà delle spalle. La mia piccolina. Si volta, e per un attimo ne incrocio gli occhi sfumati, porta un giacchetto leggero e i jeans negli stivali made in China e tutta la dolcezza del mondo a scaldarla in quest’aria tagliente – ci sono otto gradi. La mia piccolina. Vorrei raccontarle un’altra storia, ma non sono mai stato capace di inventare, e lo so che non ci può essere nessun lieto fine. Perché non c’è ne è mai, non solamente nei film, e la vostra, hai detto bene, è una storia assurda, Giuseppe, lei vent’anni di meno e tu sei sposato e per quanto tu sia forte non lo sei abbastanza per scardinare il mondo, né per andare oltre lei che ha la luce attorno. No, davvero non lo so che sarà di te, Giuseppe, né di Cristina, ho chiuso gli occhi sul finale, perdonami. La vedo, passarti le dita sulla testa rasata, in piedi è alta poco più di te seduto, ti accarezza la faccia e la stringi forte come per assorbirla nel tuo corpo: se solo potessi tenertela dentro, nascosta così che nessuno possa vederla, questa cosa che è più tua di tutto il resto, perché non devi chiamarmi, lo fai solo se vuoi, ti ha detto, ma poi è stata lei a farlo, come stai, e tutte le tue difese si sono incenerite: no, davvero non lo so, che ne sarà di voi, non lo so e non chiedermelo, non oggi, soltanto lasciami qui qualche minuto ancora, senza pensare, lasciami qui, soltanto a guardarla. In questo freddo in cui lei porta vestiti estivi e scalda l’aria attorno, col respiro.

ogni riferimento a cose, fatti, persone e luoghi è frutto di pura fantasia dell'autore

referenze iconografiche: Elegy for Darkness-The Lady of Shalott". Appearing on the cover of the novel, Banewrecker by Jacqueline Carey (57" x 46" Oil on Paper on Panel). © 2004 Donato Giancola - collection of Scot Tubbs.
http://www.donatoart.com/paintings/elegyd2.jpg

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