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mercoledì 30 dicembre 2009

Anna Maria De Luca e il suo Divento (Lupo editore) vista da Teresa Romano

Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.
Non si conosce la grammatica, tutto resta fuori e hanno forza solo le parole senza notizia che delineano una traccia nell’arrendersi all’altro mediante Verba, pensiero del tu. Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel “In principio era il Verbo”, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. “Pa-ro-le, pa-ro-le, solo parole impastate di terra rossa e acqua di mare. Parole sempre acerbe, come l’Amore errabonde nel reticolo cangiante delle vene o imbrigliate nel cuore incastonato nei denti”. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. Materia e cuore sembrano coagularsi nei versi di Anna Maria De Luca: “ E la malinconia è una serpe lunga e sottile che si raggruma nello stomaco. E che porta lontano, come il treno dell’addio”. Parole che s’incarnano nell’eros, volto dell’anima, nella seduzione di certi gesti, nella magia sconcertante di certe esperienze, in cui l’io/altro diventa “rasoio tagliente… tra le socchiuse gelosie ardente”, nella musicalità seducente di quell’“ente-ente” dove l’io/tu è rappresentato da interminabili file di stanze incatenate in un noi. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvivono fisicità e metafisicità. Catene, catene, cuore incatenato e parole che lasciano correre un battito prepotente, intermittente, a volte, spesso, bloccato in un pensiero fisso, in un tormento, “in una raffinata melodia sigillata in una conchiglia avvitata sul cuore”. Amore-prigione, chiuso nella bontà, bloccato nell’abitudine, nella fissità, nella tirannia, nella gelosia. Amore che non concede il lusso della fuga e “tuttavia qualcosa risplende nel silenzio”. Parole luce sulla carta, quelle dell’autrice, non parole-moneta né macchine remuneratrici. Parole apoftègma, frutto di germinazione nel silenzio, nel dolore, in cui il lettore gusta l’evento della donazione in un andare nella parola-scrittura, nella parola-dono. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole.

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