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venerdì 28 maggio 2010

“Economia del bisogno ed etica del desiderio” (Pensa Multimedia) di Mario Signore. Interveno di Luciano Pagano



















Il compito più difficile in cui può riuscire la filosofia è quello di risultare comprensibile, cercando di instaurare un dialogo fruttuoso con gli uomini e non soltanto con un gruppo sparuto di accademici dediti alla scrittura. Un traguardo arduo che non sempre è raggiungibile. L'ultimo libro pubblicato da Mario Signore per i tipi di Pensa Multimedia riesce in questo intento, trattando un argomento di estrema attualità, il ruolo dell'etica nella società contemporanea. Il titolo del testo delinea fin da subito l'ambito della ricerca: “Economia del bisogno ed etica del desiderio” (Pensa Multimedia, collana Inter-sezioni, pp. 238, €19,00). L'economia è la scienza che organizza e studia i bisogni del genere umano strutturato in società; l'etica approfondisce le regole del comportamento. Fu Hans Jonas, nel 1979, con la sua opera “Il principio responsabilità”, a teorizzare per primo l'esistenza di un valore etico che travalica la durata dell'esistenza del singolo, rendendo l'individuo responsabile di scelte che hanno conseguenze su coloro che verranno dopo di noi. Un contributo fondamentale alla costituzione di un'etica responsabile è dato dall'Occidente, inteso come luogo dove tempo e spazio hanno dato luogo a una tradizione consolidata che sola può fornire le basi per un'antropologia etica rispondente alle esigenze dell'uomo contemporaneo: “L'Occidente può offrire al dibattito interculturale il risultato più maturo della sua tradizione culturale, etico-politica e religiosa, ripartendo, magari, da quella base filosofica ispirata al concetto aristotelico di essere umano e a quel liberalismo neoaristotelico, per il quale, il fatto che l'uomo si possa definire un «animale con bisogni» è altrettanto importante e fondamentale del possesso della ragione, e richiede che ogni concezione dei diritti, della libertà, della stessa dignità umana debba fare i conti con la condizione di bisogno degli esseri umani”. In questo testo, nel quale non mancano puntualizzazioni storico-filosofiche e 'scorribande inattuali' nella filosofia antica e moderna (da Aristotele a Hegel passando per Montaigne e Marx fino a Zygmunt Bauman), sono contenute diverse riflessioni sulla condizione del cittadino della polis attuale nei confronti della sua libertà di pensiero e azione; le questioni sollevate sono molteplici, non ultima la mutazione, ad esempio, del concetto e dell'applicazione della libertà intesa in senso 'moderno' nel mondo contemporaneo. Questo saggio riesce in un intento, quello di ricucire lo strappo avvenuto sul territorio filosofico dell'etica contemporanea tra il dopoguerra e oggi, integrando le acquisizioni della filosofia moderna alle più recenti istanze filosofiche dell'etica, assumendo diversi punti di vista, che vanno dal religioso e filosofico in senso stretto e approdano fino alla laicità più estrema, passando per l'etica dell'individuo sociale. E se la via di un'etica universalmente condivisa si nascondesse in una trascendenza laica? Come ha sostenuto lo stesso Massimo Cacciari, che oggi presenterà il libro a Salice Salentino, insieme all'autore, l'etica è laica per sua stessa definizione, non rifacendosi ad altro che a un ethos, ovvero sia a una norma di comportamento che si attua nel rispetto della salvaguardia della collettività, ad esempio potremmo difficilmente concepire un'etica che incoraggia all'uccisione del prossimo. Esistono fondamenti dell'etica, quindi, che sono incontrovertibili al di là del nostro credo o non-credo di appartenenza. L'invito è senza dubbio quello di approfondire queste tematiche a partire dalla lettura integrale di un libro come questo “Economia del bisogno ed etica del desiderio”, che offre allo stesso tempo risposte e domande su questioni importantissime dalle quali ogni nostro vissuto non può prescindere. Mario Signore è docente di filosofia presso l'Università del Salento da quaranta anni, con i suoi studi ha approfondito diverse aree della filosofia contemporanea, da Giovanni Gentile a Max Weber, passando per i filosofi dello Storicismo e dell'Ermeneutica. I suoi studi di storia della filosofia, epistemologia, etica della responsabilità e la globalizzazione, tradotti e pubblicati all'estero, costituiscono importanti strumenti nel dibattito delle discipline storico-filosofiche contemporanee.

Il libro del giorno: Saigon e così sia di Oriana Fallaci (Rizzoli)





















"Saigon e cosi sia", dal titolo di un famoso articolo di Oriana Fallaci pubblicato da "L'Europeo" nel maggio 1975, raccoglie per la prima volta in volume i reportage dal Vietnam del Nord e dalla Cambogia (1969-1970), alcune celebri interviste ai protagonisti di quel conflitto e lo straordinario resoconto della caduta di Saigon. Come scrive Ferruccio de Bortoli nella Prefazione, "è l'ideale continuazione di "Niente e così sia", un diario preciso, un racconto fedele. Che comincia con una delusione, cocente. Con la sensazione, dolorosa (quando Oriana sbarca ad Hanoi), che quel Paese avvolto in 'un silenzio disumano' fosse molto diverso dall'immagine eroica e antimperialista che ne aveva gran parte dell'Occidente, e che aveva sedotto anche lei". Quest'opera molto attesa, alla cui preparazione la Fallaci aveva messo mano più volte, ancora nei mesi precedenti la sua scomparsa, completa l'eccezionale testimonianza della guerra nel Sud-Est asiatico. È il governo comunista di Ho Chi Minh a invitare Oriana, nel 1969, dopo i reportage dal Vietnam del Sud pubblicati da "L'Europeo" e tradotti nel mondo intero. La Fallaci incontra il generale Giap, parla con le giovani donne impegnate nella difesa antiaerea, intervista due prigionieri americani. Così come nel Sud aveva condannato la politica estera della Casa Bianca, qui sarà la prima a esprimere posizioni critiche su un regime immobile, cupo, "chiuso a chiave in muraglia ideologica".

A braccia aperte, di Piersando Pallavicini (Edizioni Ambiente). Intervento di Nunzio Festa

















Tanto per cominciare, sappiamo che il vigevanese Piersandro Pallavicini, che tra le sue attività ha quella di dare spazio di segnalazioni letterarie a diversi interessanti autori italiani, non è solamente l’autore dell’istrionico “Atomico Dandy”. Che Piersandro Pallavicini, per esempio, è lo stesso scrittore che per la piccina bolognese Edizioni dell’Arco – proprio quella dei libri distribuiti (per strada) da diversi ragazzi senegalesi e in diverse città italiane - cura una collana editoriale d’italiani che si muovo nella sfera ‘letteraria’ dei migranti. “A braccia aperte”, romanzo agile ma in un certo senso sfrenato che le puntuali Edizioni Ambiente hanno recentemente mandato in libreria, si svolge, innanzitutto tra Parigi e la provincia milanese, non senza echi di Camerun; e tra l’ospedale per il quale il protagonista svolge l’attività di primario, che va a intrecciarsi rumorosamente con i luoghi ameni che i migranti devono frequentare per ricevere un obolo sotto forma di permesso di soggiorno. Dunque, Samuel Badjang, nominato con l’abbreviativo Bad perché gli italiani non sanno pronunciare il vero “Badjang”, nonostante un matrimonio fallito e una vecchia storia che tornerà dalla culla dei tempi e dagli abissi appunto della geografia, è diventato un apprezzato chirurgo, un primario. A parte che le braccia chiuse della società italiana non accettano, alla fine, questo dato di fatto. Però, carriera a parte, a un certo punto il dottor Bad deve mettersi a rifare i conti con gli uffici dei “permessi” e, specialmente, con le leggi del governo della razzista Bossi-Fini. Perché direttamente da quel remoto del quale accennavano prima, arriverà una figlia, la figlia del dottor Bad, Gaelle. Dal Camerun. Che, come è ovvio, e come tanti altri migranti e studenti stranieri dei paesi non comunitari d’Europa, deve riuscire a ottenere la possibilità di stare nell’Italietta dei Berlusconi e dei D’Alema. Fino a recuperare un rapporto padre/figlia. Perché quindi le braccia aperte sono quelle del padre. Non ovviamente quelle brutte storte e respingenti dello Stato Italico. In questo romanzo civile la scrittura di Pallavicini è leggera ma abbottonata al tassametro della burocrazia. Senza impennate. Lineare. Eppure sempre capace di farci ritrovare, oltre al momento dell’inchiesta giornalistica, la malattia atroce che respira al di là di luoghi comuni comunque rappresentanti con una lingua svegliata dal piccolo e dolce letargo del barocco. Per incrociare, a tratti con accenti di ripristino d’un dialogo usato per le prove della normalità, le vicissitudini di campi dove l’immigrazione e i migranti costantemente sono serviti con soprusi.



giovedì 27 maggio 2010

Il libro del giorno: Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà di Manjit Kumar (Mondadori)




















Per molti "teoria quantistica" è sinonimo di scienza misteriosa, accessibile a pochi iniziati. Manjit Kumar propone un'avvincente storia di questa fondamentale rivoluzione scientifica che inaugurò l'età dell'oro della fisica e innescò il più grande dibattito intellettuale del ventesimo secolo. Se l'ipotesi avanzata nel 1905 da Einstein, in base alla quale la luce era da considerare una particella e non un'onda, fu capace di mettere in discussione un secolo di esperimenti, il "principio di indeterminazione" di Werner Heisenberg (1927) e il famoso paradosso del gatto di Erwin Schrödinger (1935) dimostrarono l'incompletezza dell'interpretazione classica della meccanica quantistica fino ad allora dominante (la cosidetta "intepretazione di Copenaghen") e aprirono nuovi orizzonti alla ricerca. Come dichiarò Niels Bohr, "chi non è rimasto sconvolto dalla teoria quantistica non l'ha veramente capita". Kumar colloca la scienza nel contesto dei grandi sconvolgimenti dell'epoca moderna e illustra in maniera chiara e rigorosa i termini del conflitto. "Quantum" non solo ci aiuta a capire il ruolo essenziale svolto da figure minori di pensatori e scienziati solitamente trascurati, ma offre anche una lettura irrinunciabile per chiunque sia affascinato da questa avventura della conoscenza umana complessa ed emozionante.

La battuta perfetta, di Carlo D’Amicis (Minimum Fax). Intervento di Nunzio Festa

















D’Amicis, con “La battuta perfetta”, incastra la corrosività di passaggi al colore della satira a passaggi epocali, con “La battuta perfetta” Carlo D’Amicis incide, e avremmo volentieri – a questo scopo – eliminato quei troppo ridondanti “padre” e “figlio”, nel solco assurdo quanto anomalo che racchiude una vicinanza a tratti non visibile fra paesi che sappiamo bene (tipo Pomarico e, soprattutto, la più spaziosa Matera) con Pier Paolo Pasolini e Silvio Berlusconi. Questa volta, il D’Amicis Carlo, dopo aver nuovamente rappresentato il dramma ossessionante di ben due padri, intinge chiacchiere tutte sottratte alle più recenti vicissitudini della cronaca politica e giudiziaria. A ridire bocconi d’un’Italia piccolissima che fu ben annunciata appunto da Pasolini, e che Berlusconi Silvio il padrone suo e anzi nostro spinge sempre più nel baratro; il B. che, per esempio, è così preponderante nell’immaginario tutto individuale delle ‘vittime’ da riuscire a spiegare al suo dipendente più accanito, il protagonista, che lui sarà Silvio I mentre il figlio del protagonista del romanzo, in omaggio al ducetto, verrà battezzato e stramazzato al suo col nome di Silvio. Ma che sarà sempre, per il secondo padre ‘snaturato’, alla fine solamente un Silvio II. Però è il caso di risalire la china d’una trama scorrevole quanto carica di soggettività da conservare per anni. Filippo Spinato, appellato persino Spinato Filo, da maestro elementare a Matera, vivrà scappando da quando nella Città dei Sassi Pier Paolo Pasolini avrà già visto nascere gli stessi “stronzi” d’altri luoghi. Il democristianissimo e raccomandato, da un vescovo, Spinato è dunque assunto alla Rai. Il fatto è però che Filo Spinato è, appunto, meno simpatico e sicuramente più austero del filo spinato. Tanto da, per esempio, in contemporanea riuscire a devastare mentalmente una moglie che alla fine addirittura lo tradirà e nel lavoro essere più duro della censura mussoliniana. Infatti, l’ultra-bacchettone Spinato alla Rai, dall’alto della sua cultura e intransigenza di costume, vorrebbe bloccare l’ormai arrembante processo di spregiudicatezza del piccolo schermo. Lo Spinato, nonostante i DC raccomandati siano tantissimi, è solo soletto in una battaglia che appare anacronistica. Nel frattempo, il figlio Canio, che da bambino è da adulto sognava di far ridere la gente, diventa il ghost-writer delle battute dell’imperatore B. Oltre a diventare pappone di donne e donnine, d’altre vittime che incarnando il potente che può decidere se mandarle o no in video le chiama ad avere rapporti sessuali con lui. E Canio Spinato, infine, sarà sentito da un magistrato che in realtà è una sua ex compagna di scuola. Quella che in una grotta del Sasso Caveoso aveva impersonato per fare fesso un altro compagno. Lo stesso compagno cavia che poi si suiciderà. Proprio la stessa che anni prima aveva incontrato in un altro tugurio, ma di Pomarico quella volta, nel mentre lui per la festa patronale era arrivato all’esibizione prima da comico e su palcoscenico pubblico. Canio Spinato è brutto quanto il padre. Spinato figlio non riesce, infine, a essere padre. Pareggiando i conti col padre suo. La tragedia contenuta nel nuovo romanzo di Carlo D’Amicis è quasi speculare alla satira, a quei brandelli di comico che vengono fuori da pagine davvero divertenti e a tratti leggere. Oltre, ovviamente, alla corrosiva forza delle spesso non bellissime barzellette che inventerà non a favore della società. Ma contro di questa. A servizio, quindi, del capo. “La battuta perfetta” legge l’attualità per tracciare nel passato non proprio recente fili che stordiranno il futuro. La scrittura di D’Amicis, qui somigliante molto a quella di Cappelli, sperimenta più linguaggi per cedere al linguaggio comune dei tempi nostri. Che, al termine dell’opera, avrà per giunta accantonato i problemi della lingua stessa.


mercoledì 26 maggio 2010

Il libro del giorno: La casta dei radicalchic di Massimiliano Parente (Newton Compton)





















C'è una "casta" nella cultura italiana? Tra i cosiddetti intellettuali "liberi", gli opinionisti televisivi, i critici per tutte le stagioni? Secondo Massimiliano Parente sì. Questo libro è uno spietato manuale di sopravvivenza per difendersi dalla mediocrità culturale, quella dei romanzi che invadono le librerie e le recensioni, quella che impoverisce il cinema, la musica, la televisione, la destra e la sinistra. Lobby mediatiche si danno battaglia, fingono rivalità inesistenti, e di nascosto si mettono d'accordo per non pestarsi mai i piedi. Un'ignoranza arrogante e contagiosa che l'autore attacca con lucidità, cinismo e distaccata ironia. Dal Premio Strega a Sanremo, dai David di Donatello alla Biennale di Venezia fino ad arrivare all'Isola dei Famosi. Questo libro è una vera cassetta degli attrezzi per denunciare i personaggi di cartapesta, i vecchi cliché elevati a sistema di pensiero, gli alibi, le scuse, le autoassoluzioni di figure che vorrebbero essere tutte diverse e invece sono tutte uguali. È anche un viaggio esilarante dove scopriremo dizionari per riconoscere i trucchi e le paraculaggini in trasmissioni di successo come Annozero di Michele Santoro. Massimiliano Parente, scrittore politicamente scorretto, ci guiderà nel provincialismo culturale del tragicomico Paese nel quale viviamo: cialtrone, snob, ipocrita e finto-buonista.

Andrea Inglese a Lecce all'Università del Salento




















Lunedì 31 maggio, presso l’Edificio Codacci Pisanelli dell’Università del Salento – Aula Ferrari, I piano, inizio ore 9 e 30 – si svolgerà un seminario sulla poesia contemporanea a cura di Fabio Moliterni e con la presenza di Andrea Inglese. Sono tutti invitati a partecipare, si tratta di un incontro con un autore ‘giovane’ che ha molto da dire (e da ascoltare) sui temi centrali della cultura letteraria italiana di oggi: la responsabilità etica, o politica, o civile dello scrittore – e del lettore; lo stato di salute della poesia contemporanea, nel rapporto con l’editoria e con l’idea dominante di letteratura; le prospettive di una scrittura ‘di ricerca’, tra prosa, poesia e altre espressioni possibili. A partire dalle 19 e 30, presso il Padiglione Chirico del Monastero degli Olivetani, l’autore terrà un workshop su “Poesia e nuove scritture”. Il workshop è a numero chiuso (max 15 persone) e in accordo con Andrea Inglese prevede un lavoro di gruppo di tipo laboratoriale su testi dell’autore e dei partecipanti, ma anche su quelli di altri scrittori contemporanei. È un’occasione per un confronto, né più né meno: nessuna lezione di scrittura creativa, invece un dialogo – un lavoro – per riflettere e fare il punto sulle possibili idee di letteratura e sulla pratica responsabile di una (possibile) scrittura di ricerca.

Andrea Inglese è nato nel 1967: filosofo di formazione, è considerato uno degli autori più significativi nel panorama della poesia italiana contemporanea. Ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003); i libri di poesia: Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano a cura di F. Buffoni (1998), Inventari (2001), Colonne d’aveugles in edizione bilingue con traduzione (2007), La distrazione (Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009); le raccolte di prose Prati nel volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009); e Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001 (La Camera Verde, 2010). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei fondatori del blog letterario Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com) ed è tra i redattori di http://gammm.org.

martedì 25 maggio 2010

Quando non ci sarò di MariaViteritti (LUPO Editore). Intervento di Donatella Neri




















Primavera 2100. Elisa è in classe alle prese con una versione di latino, materia che lei conosce poco perché nella scuola precedente non lo studiavano, ma che nemmeno le interessa molto, visto che morirà presto, come dice la data incisa dal laser sul suo tallone.

Real, adolescente sognatore, ha aspettative di vita ben più lunghe; forse anche per questo ha deciso di cimentarsi a modo suo con L’albero della Vita di Klimt, visto che la sua passione è dipingere.

Elisa alias Artemisia (come firma sul blog i suoi “racconti al Lexotan”) e Real alias Lario (autore di curiosi personaggi che appaiono in rete) si imbattono l’uno nell’altro in modo fortuito, ed è un incontro di anime e di cuori, un amore che si traduce in sfida.

Dopo il successo di Al di là del muro, Mary Viteritti ritorna a Bologna in un futuro prossimo per parlarci di un mondo in cui l’efficienza socio-sanitaria è tutelata da un marchio di scadenza impresso sugli esseri umani come sui prodotti di consumo. La società è impregnata di arido laicismo e ognuno è chiuso in se stesso, se ha qualcosa da nascondere: ad esempio, una scadenza troppo vicina per poter essere un investimento affettivo per qualcuno, ma anche la capacità di creatività e di poesia.

Un’altra splendida storia di una scrittrice che ha il coraggio di guardare a un certo futuro come ad una terribile possibilità e sa trasformare la narrazione in un messaggio di speranza. Un romanzo mirato ad un lettore adolescente per intensità e messaggio etico, ma anche una lettura appassionante per tutti coloro che apprezzano le trame coinvolgenti e una bella penna.

Il libro del giorno: La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro di Gino Roncaglia (Laterza)




















Se la scrittura si avvale già da tempo degli strumenti offerti dal mondo digitale, la lettura - e in particolare la lettura di libri - è rimasta finora legata prevalentemente ai supporti cartacei. Quando pensiamo a un libro pensiamo ancora, come nei secoli passati, a un oggetto composto di pagine di carta, stampate e rilegate. Ma l'introduzione di libri elettronici e biblioteche digitali, la diffusione di tecnologie come la carta e l'inchiostro elettronici, o di dispositivi di lettura come il Kindle di Amazon, il Nook di Barnes & Noble e il chiacchieratissimo e ancora misterioso iPad, sembrano destinati a cambiare le nostre abitudini e il mercato librario. Il mondo della lettura si avvia a conoscere una rivoluzione che molti ritengono per ampiezza e importanza paragonabile all'invenzione della stampa. Una rivoluzione al cui interno non è affatto facile orientarsi. Dove sta andando, il libro? È veramente minacciato? Le nuove tecnologie rappresentano per la cultura del libro un pericolo o un'opportunità (o entrambe le cose)? Di quali competenze abbiamo o avremo bisogno, per poter continuare a scrivere, a pubblicare, e soprattutto a leggere?

Quello che i mariti non dicono di Bal Efe, Berbenni Stefania (Mondadori)



















"Non dico tutti, ma quasi tutti gli uomini, vogliono provare l'esperienza del trans, far girare adrenalina nelle vene sclerotizzate dalla routine. Se penso a chi è passato dal mio letto - avvocati, manager, operai, ragazzi, commercialisti, creativi, baristi, imprenditori, ignoranti e laureati - alla fine sono tutti uguali quando sono qui a casa mia, liberi di chiedere ciò che vogliono perché pagano”. L’eterna lotta tra mister Hyde e il compassato dottor Jekyll si sostanzia tra le pagine di questo libro, quasi fosse obbligatorio e del tutto normale, anzi consueto, per un uomo ai nostri giorni, voler esplorare certe zone d’ombra della sessualità, ovviamente continuando la barocca recita del bravo maritino, o della dolce metà tutta casa e chiesa. E proprio non molto tempo fa ricordiamo per un’insana associazione di idee dopo aver letto questo libro, le cronache di tutti media nostrani che hanno fatto esplodere il caso Marrazzo, generando un vespaio di inquietanti interrogativi da tenere rigorosamente e assolutamente privati, perché a dirli la vergogna sarebbe più pesante dell’essere messi alla gogna: Perché? Perché gli uomini, così tanti poi, anche insospettabili, vanno con le/i trans? Quali sono le prestazioni che richiedono questi maschi ai/alle trans, per risultare così desiderabili, così sessualmente appetibili? Efe (che ha scritto “Quello che i mariti non dicono” per i tipi di Mondadori) è il/la trans più famosa/o e desiderata/o d'Italia. Oltre i duemila uomini, sono stati oggetto delle sue attenzioni/prestazioni, in maniera totalmente e sinceramente democratica e perfettamente costituzionale, proprio come sostenuto dal pilastro dell’art. 3 della nostra Carta, circa la rimozione degli ostacoli di razza, credo o posizione sociale. Per Efe questo è assiomatico in ambito sessuale, kantiano forse. Fondamentalmente questo è un libro schietto e sincero (editing o ghost writing a parte) che racconta le esperienze di questo attore sociale trasversale rispetto a generi e connotazioni, senza la benché minima intenzione di voler necessariamente scandalizzare, ma quasi con la delicatezza di un pettegolezzo al femminile da dirsi in un bar del centro mentre fuori c’è traffico e stress. Una cosa è certa: ne viene fuori uno spettro di situazioni e tipologie maschili sicuramente sorprendente, ma non certo incoraggiante. Anche se il libro non risponde alla domanda del perchè gli uomini sposati vanno a trans c’è da dire che tutto il libro può essere letto come un felice prodotto di costume, un ulteriore tassello per stordirsi dalla crisi che ci attanaglia le viscere, e che sortisce l’effetto di un tonicizzante anti-depressivo rispetto alle solite seratine della nostra piccola povera patria

domenica 23 maggio 2010

Il libro del giorno: La nostalgia languida dell'Ombra di Fabio Cerretani (Edizioni Ilisso). Intervento di Sergio Pent *












La provincia è lo specchio dell’anima.. Da Simenon a Prisco, da Faulkner ad Ammaniti, spulciando alla cieca tra Italia e altrove, tra classici e contemporanei, possiamo evidenziare il disegno narrativo di un luogo geografico-psicologico essenziale per delineare le sotterranee perversioni delle esistenze di confine. Una marginalità che sovente si fa cronaca da Cogne a Erba, per rimanere nel campo delittuoso e che riesce quasi sempre a concretizzare enfaticamente ciò che l’istinto svelto e soffocante delle metropoli mette in scena in un continuo, delirante, anonimo caos di gruppo. La provincia centellina, osserva, deride e decide. E tutto ciò che accade, da cronaca diventa Storia, memoria, in un contesto spesso anacronistico, paradossale, in cui lo spirito umano trova comunque le più favorevoli congiunzioni astrali del peccato, sia esso ludico o assassino.
Fabio Cerretani ha l’animo del provinciale di lusso, che contempla l’umanità in transito della sua epoca e ne coglie gli umori più intimi, malinconici o depressi. La fortuna di un narratore si gioca spesso, quasi sempre, sulle convenienze e sulle scommesse editoriali. Nella sua sordina, Cerretani è rimasto finora un narratore appartato e poco visibile, com’è tipico di chi si muove da indipendente sul terreno delle majors. Editori piccoli ma attenti gli hanno permesso di entrare in punta di piedi in libreria, anche se i suoi romanzi curiosi, emozionali, severi e scritti con lucida parsimonia non hanno finora trovato i meritati riscontri. Questione di stile? Non diremmo, visto che lo stile di Cerretani è assai più levigato e insinuante ad esempio di quello di un Andrea Vitali, che sta vedendo invece lievitare in classifica le acque del suo lago. Semplicemente, se mancano le giuste sponsorizzazioni, si corre come sempre il rischio di stazionare in un limbo di belle scritture ignorate dal pubblico. Spesso anche dalla critica, complice l’overdose ormai quasi letale di novità in libreria. Le ragazze del Delta e Finis terrae segnavano, ciascuno a suo modo, tappe già fondamentali per misurarsi con la capacità di scrittura di Fabio Cerretani. Tra memoir sentimentale alla Cassola e spruzzate gogoliane, i romanzi tracciavano un percorso esemplare della narrativa di questo autore appartato, alla ricerca di belle storie più che di scommesse azzardate o ammiccamenti sperimentali fortunosi. La nostalgia languida dell’ombra è un discorso ancora diverso, ma l’animo provinciale rimane in primo piano, con tutte le ironie e gli intoppi del caso. Dal delta del Po alle derive metafisiche di Finis terrae, arriviamo alla paciosa provincia umbra di un 1966 segnalato a vista dall’autore, poiché potrebbe benissimo trattarsi dell’altro ieri, nell’ambiguo e ricorrente gioco di tradimenti ed equivoci che portano infine come spesso accade nei deliri dei sensi all’omicidio. I personaggi, caratterizzati quasi sempre da nomi emblematici, ricoprono ruoli di confine in un contesto sociale bizzarro e bizzoso, dove tutto si gioca all’insegna di una grandeur sui generis, come se i destini dell’umanità dovessero dipendere dal chiacchiericcio irrisolto dei diversi interlocutori. Davide Golia, un nome un destino. Protagonista smorto e asettico, il classico “uomo dal vestito grigio” che attraversa il suo tempo in sordina, il mite insegnante di lettere presso il Liceo Classico “Sallustio Amedeo Brandini”, riveste invece un ruolo determinante nello scompigliamento di carte che porta alla morte della collega Cecilia De Maria, tracagnotta arrapante che ama sollazzarsi in amene scappatelle extraconiugali. E’ qui, in questa ironica visione di una provincia buzzurra e velenosa, che a tratti rammenta il geniale film di Germi “Signore e signori”, che si gioca la partita del romanzo di Cerretani, nato come commedia di costume provinciale e dirottato dall’autore sul versante di un noir quasi surreale. La vicenda minima, più grottesca che sensuale, del rapporto fedifrago tra il pavido professor Davide Golia e la vorace Cecilia, serpeggia infatti al di sopra di un sotterraneo contesto strapaesano in cui i notabili della cittadina umbra complottano per spartirsi i proventi della vendita di preziosi reperti etruschi rinvenuti da un rozzo tombarolo nel dedalo di gallerie dei dintorni. Malaffare in giacca e cravatta, sesso spicciolo e deprimente, tradimenti, ripicche e rancori, generano il disegno di una comunità bislacca ma perfida, dove è sempre il più debole a soccombere. Si lascia ovviamente al lettore il piacere di scoprire i piccoli, meschini segreti che covano sotto la cenere dei camini di provincia, ma è necessario rilevare come l’arguzia del narratore riesca a dirottare la trama verso un consapevole disegno di denuncia morale. La grettezze dei diversi personaggi in quel 1966 segnato da piovaschi sempre più dirompenti sfociati nell’alluvione di Firenze si riflette sulla nostra contemporaneità e sui nostri mali più di quanto non si creda. Figurine di un passato quasi remoto, stanno lì a significare malevolenza, invidia, arrivismo, indifferenza alle sorti del prossimo. Proprio come adesso. In questa dinamica da commedia con delitto, il romanzo di Cerretani svolge un suo ruolo sulfureo, a tratti landolfiano, nel delineare l’ottusità arricchita e potenzialmente delittuosa del contesto sociale, in cui ogni dettaglio deve sempre rimanere uguale nei secoli dei secoli. In un mondo di ancora ferventi campanilismi, non c’è tregua né compassione sotto il campanile in cui il povero professor Golia e la sua malcombinata amante trovano il loro unico, tragico punto d’arrivo.


(*) = Scrittore (“Il custode del Museo dei Giocattoli”, Mondadori 2002; “Un cuore muto”, e/o 2005; “La Nebbia dentro”, Rizzoli 2007) e critico de “La Stampa Tuttolibri”. Contenuti del post ricevuti dalla casa editrice Ilisso

Sabbia, di Paul Muldoon (Guanda ). Intervento di Nunzio Festa



















La notorietà di Muldoon, soprattutto fuori dall’Italietta che sappiamo e dobbiamo mai scordare, è sempre più grande. Ma, grazie a “Sabbia” sappiamo che ogni ‘complimento’ e tutte le parole di stima e rispetto dirette a uno dei maggiori poeti del nostro tempo sono anche pochissima cosa rispetto al valore reale che s’apprendere verso su verso, verso in verso. Di poesia dentro poesia. Perché, tanto per fare iniziazione con le paroline spicciole e spiccianti, la poesia, anzi tutto il corpo poetico di Paul Muldoon è pieno d’altre liriche, d’altri poeti fratelli dell’autore irlandese. Ovviamente questo non è che un dettaglio. Muldoon è moderno e classico in quanto contiene nelle stesse parole la terra senza lampi e i lampi della letteratura, la storia priva di retorica e la retorica delle storie di donne e uomini come di paese e città e campagne. Con Sabbia, d’altronde, P. Muldoon ha ottenuto il Pulizer nel 2003. Già dal titolo, nonostante si debba andare meglio a vedere l’originale, è possibile capire qual è il contesto se così davvero si può dire – e a maggior ragione per il poeta che è Muldoon. L’analisi della lingua, la teoria per così dire sui termini e sulla terminologia utilizzata dal poeta nordirlandese, devono far affermare senza ombre di dubbi e paura d’illustri smentite che Muldoon è ugualmente in grado di sconvolgere mettendoci di fronte al chiarore della rima, alla purezza del verso libero estremo, all’imperiosità del taglio netto ove è necessario. Impastata, per servire i temi a lui più cari, la spensierata scorrevolezza d’accenni di versificazione discorsiva, accesa da picchi d’evocazione ritmata al fumo d’un’epica mai ma proprio mai stucchevole. Andiamo a scoprire, però, dove la ‘regola’ è rotta. Dove l’evasione da uno schema che non è schema né gabbia, per esempio, si fa evidenza di passaggio letterario. Piano sentiamo, allora, “Lo spaccone”: “Voleva farti credere di aver succhiato / il leggendario sesto dito della fetta / di una sosia di Marilyn Monroe giovane, // e che il maritino si fosse un po’ incavolato / scoprendoli sul sedile posteriore di quel catorcio. / Gli altri giornali prendano nota”. Per continuare, con “La sosta”: “Pensa a questa lapide / come a una sedia bassa e lunga / piazzata strategicamente / sul pianerottolo di una scala”. Non a caso abbiamo scelto questi due componimenti. Non a caso due poesie brevi, fra le più brevi e frammentate del poeta. Che, ma solo apparentemente, spezzano il filo dell’opera. E che invece sono la prova d’omogeneità. Nella prima lirica ci si nutre d’una rapsodia in tono minore, una scansarsi del verbo che deve intercettare l’immagine creata in principio di chiusa. Mentre nel secondo tempo poetico, Paul Muldoon, più che chiaramente, liscia il terreno sempre soffice d’un pensare oltre il vaghissimo ruggito della morte, scherzando effettivamente con questa. E sappiamo che amore e morte sono le tematiche della vita. Per lo meno del suo frangente letterario. Si legga Muldoon, infine, nonostante si debba nel contempo, oppure forse proprio per questa ragione ancora più specifica, riconoscere maggiormente quel maestro Sanguineti di “Ideologia e linguaggio”. In questi giorni che spremono il suo abbandono definitivo e infinito. In questi giorni che un Sanguineti letto da Muldoon o un Muldoon che legge Sanguineti ci fa innamorare costantemente delle poesia.


Il libro del giorno: Giro d'Italia. Gli eroi della bicicletta (Mattioli 1885). A cura di M. Ballestracci

















La volontà di rinascita espressa nell'organizzare il Giro d'Italia del 1946, su strade che portavano ancora i segni dei cingoli dei carri armati, non era stata un'illusione. Questa è la storia di quegli anni: Bartali che sconfiggeva Coppi per 47 secondi, nel 1947, Coppi che distanziava Bartali di un minuto e 43 secondi, nel 1948, Magni contestatissimo vincitore davanti a Cecchi per 11 secondi con Coppi che si ritira per protesta dopo aver vinto la Cortina Trento scalando in solitudine il Falzarego e il Pordoi. Ognuno di questi uomini corse a lungo anche nel futuro, a segnare un'epoca fatta di italiani che aspettavano Bartali, seduti sui paracarri, scalpitando dentro ai sandali, soltanto per veder quel viso triste da italiano allegro.

"Scendo. Buon proseguimento" di Cesarina Vighy (Fazi editore). Intervento di Elisabetta Liguori














Mentre leggi non lo diresti affatto che Cesarina Vighy sia morta. In questo suo ultimo epistolario “Scendo. Buon proseguimento” edito da Fazi, sospeso in una sorta di terzo luogo, tra vita e morte, la Vighy strappa due anni di sano pensiero al suo nemico per consegnarli ai suoi lettori. Il suo nemico è una malattia “ cronica e degenerativa” detta SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), per molti sconosciuta, per altri inspiegabile, balzata agli onori della cronaca grazie ad alcuni casi eclatanti. Un morbo oscuro (un sasso lanciato alla cieca da un cavalcavia come lo descrive l’autrice) capace di annientare progressivamente i moto neuroni presenti nei muscoli umani e quindi ogni funzione motoria (camminare, respirare, deglutire) lasciando intatte quelle intellettive.

Che sia la letteratura a rivelare questo terzo luogo addolora e rallegra allo stesso tempo. La letteratura come poche altre scienze sa adattarsi. Non soffre di rigidità, di preconcetti, non teme il futuro e dell’ignoto si nutre. Forse per questo la voce della Vighy ci arriva da un altrove imprevisto, eppure chiara e libera da interferenze. La sua verità così intima e dolorosa, diventa pubblica senza essere oscena. La sua, coltissima, ironica, fanciullesca, è la voce di chi conosce una verità terribile e la vive con grande dignità.

E ne ride. Si dice che ogni risata avvicini a Dio, ma quelle di Cesarina Vighy non sono nient’affatto divine. Hanno l’odore dello zolfo infernale e il brio geniale di certe antiche biblioteche. Custodiscono un’anima forte ma non garantiscono la salvezza eterna. Sono moderne, se non addirittura post moderne, per estro, insolenza e capacità divinatoria. Linguisticamente rapidissime in sprezzo alla lentezza fisica della sua portatrice. Non uccidono ma ridicolizzano la morte, annunciandola. Sono carezze e schiaffi. Gentilezze finali, destinate alle persone più care. L’amata figlia soprattutto, l’altra donna, quella con la quale ogni madre si confronta sempre con tormento e che desidera come e ben più dello specchio di Biancaneve.

“A volte me lo svuoterei con un cucchiaio il cervello, per metterci dentro roba buona e fresca” scrive l’autrice di sé, quando il brulicare dei suoi pensieri si fa troppo intenso, ma sono solo momenti. Per il resto del percorso la sua scrittura resta quella di un grande autore: incontro felice di personalità, struttura e lingua. Affermazione condivisa e strenuamente difesa del sé. Solido filtro di un io che ha vissuto la propria esistenza con intensità e tenta di offrire la sua visione del mondo, la più completa e onesta possibile, benché rinchiusa nel recinto delle sue quattro mura e pur servendosi del solo ausilio tecnico di alcuni gatti, un marito sorprendentemente devoto e un albero da giardino. Una visione completa forse proprio perché offerta dal limitare dell’abisso, confine ardito proibito ai più, lungo il quale vibra solo il barbiglio di un onesto, pungente, determinato e progressivo rodarsi del pensiero.

sabato 22 maggio 2010

Il libro del giorno: Quando cade l'acrobata, entrano i clown. Heysel, l'ultima partita di Walter Veltroni (Einaudi)





















È notte. Un uomo è sul terrazzo di una stanza d'albergo sul mare; è qui per festeggiare il suo decimo anniversario di matrimonio. La donna dorme. L'uomo ripensa alla loro storia d'amore, a una relazione costruita sulla sincerità. Ritorna con il pensiero agli anni trascorsi e a un'unica bugia: un viaggio. Aveva mentito sulla destinazione, per vedere una partita di calcio: la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, a Bruxelles. L'uomo ripensa a quella partita, allo stadio malandato dove si svolgeva, l'Heysel. Ritorna al dramma di una vicenda che doveva essere allegra e giocosa, grandi e bambini insieme per condividere una passione. E che invece era diventata una battaglia, un insensato perdersi della ragione nella cecità della violenza. La parola Heysel avrebbe da allora significato morte: trentanove morti e seicento feriti innocenti. Una strage immane per una partita di calcio, una ferita aperta e non più rimarginata. Nonostante la strage fosse già consumata, si era deciso, per motivi di sicurezza, di giocare egualmente. Una narrazione lirica volta a ricordare una strage assurda, che ha stravolto tutto ciò che di positivo lo sport rappresenta. Tutto, attraverso lo sguardo commovente di una storia d'amore.

Io innalzo fiammiferi di Irene Ester Leo (LietoColle). Intervento di Nunzio Festa


















Le parole di Irene Ester Leo, frammiste a passione immensa e universale con odore della terra di Sud, è molto semplice ma essenziale, almeno per alcune contemporaneità di contenuti, accomunarle fin da subito con i versi dell’indimenticabile ma sempre poco ricordata Claudia Ruggeri, non casualmente motore e ispirazione della Leo. Non basterà di certo, e non solo all’autrice, spiegare che le ciglia della Irene Ester Leo alimentano il Sud tutt’altro che melanconico o, come vorrebbero i critici oramai sempre più affermati, lagnoso. La Leo incontra l’intimità per dare una posizione d’immedesimazione, non di mediazione, tra il sentire che sfugge persino ai tanti aggettivi e alle aggettivazioni a questa intimità che deve sorreggere una perenne sfida, o quasi disfida, con il mondo geografico ben identificato; al di là dell’assenza delle contestualizzazioni. Il fiato della poetessa salentina, che s’era anche portata qualche tempo fa nel solco della narrativa, spiana un percorso – anzi il suo contario – che saluta, ovvero abbraccia riferimenti che vanno da Scotellaro a V. Curci. Per non sottolineare il sostegno palese, oltre che palesato, della più importante poesia statunitense. In definitiva la voglia di I. E. Leo è quella di spiare il fuori utilizzando il mezzo poco sicuro ma almeno ‘infaffidabile’ della propria interiorità. Spesso certamente vergata o a tratti vessata da un pessimismo che prova ad affacciarsi, però per comprendere che deve sparire alla vista d’un sole di cui un po’ s’ha forse paura. “Io innalzo fiammiferi” è una silloge che rompe il muricciolo della sperimentazione troppo condizionata dal manierismo, spiegandoci che è possibile non forzare i propri limiti quando si vuole sperimentare un mondo interiore che è semplicemente in linea, quindi contro la linea, di quello esterno. La raccolta di Irene Ester Leo manda versi fuori dalla bozza di società che si vive.


venerdì 21 maggio 2010

Prossimamente per Manifesto Libri: Fenomenologia di ANTONIO DI PIETRO Pierfranco Pellizzetti




















I
l paradosso di un uomo intrinsecamente di destra (l'eroe di Tangentopoli, il fondatore e padrone dell'Italia dei valori) che lancia un'Opa sull'intera sinistra italiana come segnale di una crisi generale della politica nello stallo dei processi di modernizzazione del paese.
Il fenomeno di un magistrato, ex questurino, che diventa una star, con curiose analogie con il fenomeno contemporaneo incarnato dal suo avversario: Silvio Berlusconi. In un tempo in cui i personaggi sostituiscono le personalità, Di Pietro assume le sembianze di un Marco Pannella del XXI secolo, ma anche di un nuovo Bertoldo, intriso di antichissima cultura contadina furbesca. Campione di quella politica delle "persone perbene" che pretende di assumere il ruolo di una sorta di comitato di liberazione nazionale, con le sue ambigue scorciatoie e la sua retorica del rancore.

L'autore: PIERFRANCO PELLIZZETTI (Genova 1947), insegna Politiche Globali nella Facoltà di Scienze della Formazione nell'ateneo genovese. Saggista di Micromega e Critica Liberale, è opinionista de Il Fatto Quotidiano. I suoi libri più recenti sono: Italia disorganizzata (con Giovanni Vetritto, Dedalo, Bari 2006), La Quarta Via (Dedalo, Bari 2008), Fenomenologia di Berlusconi (Manifestolibri, Roma 2009), Liberista sarà Lei! (con Emilio Carnevali, Codice, Torino 2010).


Il libro del giorno: Per l'alto mare aperto di Eugenio Scalfari (Einaudi)




















"Questo libro è la rivisitazione della modernità, da Montaigne e Cervantes fino a Leopardi e a Nietzsche, Descartes, Kant e Hegel, e ancora Tolstoj, Proust, Kafka e Joyce. Un'epoca durata quattro secoli, mai simile a se stessa, sempre in cerca di sperimentare il nuovo, di allargare il respiro delle generazioni, di modificare l'identità senza smarrire la memoria". Così Eugenio Scalfari riassume, nell'epilogo che chiude il libro, il suo viaggio attraverso la modernità, che tocca, con un approccio stilistico che sta tra l'analisi e il racconto, le varie fasi dei tempi moderni, dall'Illuminismo al Romanticismo, dalle avanguardie al nichilismo, dalla razionalità allo scatenarsi delle emozioni e degli istinti. "La modernità - scrive Scalfari - è stata sconfitta da una sorta di invasione barbarica, ma la storia non finisce, un'altra epoca nascerà come è sempre avvenuto finché l'homo sapiens riuscirà a guardare il ciclo stellato e a cercare dentro di sé la legge morale. A me questo viaggio dentro l'epoca è sembrato un sabbah, non di diavoli e di streghe, ma di anime e di stelle danzanti".

Boing Generation di Luca Sacchieri (Edizioni della Sera). Un estratto












Pietro, tassista culturista, è aitante, equilibrato quasi in modo zen e amato dalla gente intorno a sé che non vede altra figura in lui se non quella del gigante buono. Rosco è un uomo attraente che è capace di amare e prodigarsi per la sua donna con una profondità e una premura di gesti e parole che sembrano d’altri tempi. Davor Crema è una rockstar di fama mondiale, che ama ciò che fa – la musica – e che viene costantemente ripagato da questa genuina passione che gli dona un’inesauribile scorta di combustibile emotivo. “Il narratore”, personaggio indolente di cui si raccontano le vicende in prima persona, sembra non riuscire a fare altro che lagnarsi, ma senza riuscire a prendersi mai sul serio (“...ero uno che si stava lamentando perché non aveva niente di cui lamentarsi. Quindi, un coglione.”). Vite queste, di gente più o meno realizzata, vite più o meno semplici, vite più o meno normali. Vite, comunque, tutte inattaccabili, come pretende la società odierna, che ti vuole senza punti deboli, in una gara che non sai nemmeno tu quando hai iniziano né perché e nemmeno cosa ci sia in palio. Ma noi le vediamo da fuori, le loro vite, da una distanza di sicurezza. E non ci stupiamo che siano così, poiché, vivendo in quella stessa società, sappiamo che sono il semplice prodotto di un determinato ambiente. Quattro varianti, su chissà quanto. Forse però sono proprio loro che vogliono farcele vedere così. Forse sono proprio loro che vogliono vederle così, le loro vite. Ma chi sono davvero Pietro, Rosco, Davor Crema e “il narratore”, loro lo sanno meglio di chiunque altro. Altrimenti per quale ragione, dopo pochi capitoli, Pietro si ritroverebbe a scarrozzare uno losco spacciatore e a sniffare cocaina con la Polizia che gli fa gli appostamenti sotto casa? Per quale ragione Rosco scaricherebbe l’ennesima ragazza, eliminandola dalla sua vita con la stessa facilità con cui la eliminerebbe dalla rubrica del suo cellulare? Per quale ragione Davor Crema, devoto fino alla morte a sua moglie e a sua figlia, verrebbe abbandonato di punto in bianco? Per quale ragione “il narratore” si ritroverebbe sul davanzale della sua finestra, pronto per buttarsi giù? Sull’orlo di un precipizio, per qualcuno più letterale, per qualcun altro un po’ meno, i quattro protagonisti si ritrovano quasi per caso (o per destino) nel taxi di Pietro con un solo scopo: andare. Andarsene. Ma non sarà un viaggio alla scoperta di nuovi orizzonti, nessuna romantica partenza alla ricerca di se stessi. Sarà la fuga istintiva da chi è braccato da un predatore più grande e affamato. Sarà la fuga animalesca ed ingenua di chi pensa di poter risolvere i propri problemi semplicemente mettendo più distanza possibile tra sé e loro. Ma, se c’è un qualche animale a cui l’essere umano può essere metaforicamente accostato, questo è il canguro. Quest’ultimo, di natura, nel marsupio di porta dietro la propria vita. Avete mai visto un canguro che va in giro lasciando a casa il marsupio? E per quanto si sforzeranno – Pietro, Rosco, Davor e “il narratore” – di frapporre asfalto tra loro e le loro vite quotidiane, per quanto proveranno ad allontanarsi da quello che sono, alla fine in un susseguirsi di tuffi nel passato si ritroveranno – loro malgrado – ad avvicinarsi a ciò che erano. E che li ha resi così. Un’infanzia comune, un amico “collante” che verrà a mancare, un progressivo allontanamento, una laboriosa costruzione di una propria corazza dorata, per una società fatta di specchi che ti vuole forte (più forte di chi ti sta accanto), ma al tempo stesso brillante, pieno di successi personali (almeno più di quelli di chi ti sta accanto). E poi droga, risse, rock, inseguimenti, scene talmente surreali da non poter essere che vere. Si ritroveranno faccia a faccia, i quattro canguri, con il loro passato, quello condiviso e quello personale. Merito o colpa proprio d quello stesso gioco di specchi che li ha allontanati l’uno dall’altro e sovraccaricati di frustrazione. Quindi si affronteranno, i canguri, tra loro e dentro di loro. E, finalmente, si accetteranno. Certo, per riuscirci servirà ritrovarsi in Australia (o meglio, Ausiralia: desolato paesino sperduto nell’entroterra italiano le cui insegne sotto vittime dell’umorismo scaccia-noia dei ragazzini del posto), ma in fondo sempre di canguri stiamo parlando. Servirà una notte lunga una vita, servirà cogliere un segno nel cielo ad un passo dall’ultimo salto, servirà la donna giusta al momento sbagliato, servirà improvvisare un concerto e passare una notte in cella. Ma tutto questo, alla fine permetterà un ritorno, lì dove nemmeno era stata prevista un’andata. E finalmente i canguri troveranno il coraggio per fare una promessa.

giovedì 20 maggio 2010

Il libro del giorno: Innocente di Scott Turow (Mondadori)



















Rusty Sabich, sessant'anni appena compiuti, presidente della Corte d'Appello della Kindle County e in corsa per un posto alla Corte Suprema statale, è accusato di omicidio. Una mattina, al risveglio, trova la moglie Barbara morta nel letto accanto a lui. Aspetta però quasi un giorno prima di chiamare la polizia e i soccorsi, e non avverte nemmeno suo figlio Nat. Perché? Vuole forse cancellare tracce compromettenti? Vent'anni prima lo stesso uomo, allora viceprocuratore, era stato processato per l'omicidio di Carolyn Polhemus, sua collega e amante, e aveva avuto in Tommy Molto il suo più acerrimo accusatore. Rusty era stato infine prosciolto, ma le turbolente vicende legate al processo avevano avuto ripercussioni diverse sulla carriera dei due uomini. Il nome di Molto era stato trascinato nel fango, mentre la carriera di Rusty aveva ripreso a salire. Ma ora per lui si aprono le porte di un nuovo incubo. Le circostanze della morte di Barbara si prestano a varie interpretazioni, anche se tutto pare condurre alla sua colpevolezza, e in Tommy Molto la voglia di rivincita non si è mai sopita. Sarà un sfida senza esclusione di colpi quella che li vedrà di nuovo contrapposti in un'avvincente partita psicologica nel tentativo di catturare una verità tanto ambigua quanto sfuggente.

Dizionario di fate, gnomi, folletti e altri esseri fatati, di Katharine Briggs (Avagliano). Intervento di Nunzio Festa












Lo scrittore Riccardo Reim è sicurissimo nell’asserire come “la tradizione contadina afferma che si tratta di angeli caduti: non tanto cattivi per essere dannati, ma neppure abbastanza buoni per essere salvati… Del resto, la loro natura bizzarra sembrerebbe deporre a favore di tale ipotesi: sono capricciosi, incoerenti, stizzosi, lunatici, dispettosi, suscettibili, ma anche disponibili, simpatici, allegri e generosi – quasi mai maligni”. Un’informazione prima dell’uso nel vero senso della parola, quella di Reim. Una coincisa quanto essenziale noticina, poche righe e pennellate, che aumentano il desiderio d’entrare nel corpo del dizionario che fu stampato per la prima volta nel lontano ‘76; e che, coraggiosamente, Avagliano decide di mandare nuovamente in libreria in anni meno a disposizione di favole e fiabe. Che fate gnomi folletti dovrebbero essere, da quanto si capirà in seguito, proprio caratterialmente come con cura e meticolosità li descrive Reim. “Firbolgs: secondo un’antica tradizione, i primi abitanti d’Irlanda furono i Firbolgs che, in seguito, furono conquistati e confinati nell’Ovest dai Tuatha de Danann. I Firbolgs divennero, così, i primi esseri fatati dell’Irlanda, creature simili a giganti (Giants) di aspetto grottesco. Essi e i Tuatha de Danann possono essere equiparati ai Titani e agli dèi olimpici dell’antica Grecia”. Oppure: “Grateful Fairese (Gratitudine degli esseri fatati): Gli esseri fatati furono sempre gentili con coloro che prediligevano, generalmente per le buone maniere (Good maners) e la discrezione che questi mostravano nei loro confronti. Le fate usavano ringraziare sia con atti di pura cortesia sia con doni che portavano fortune e prosperità.(…)”. Le definizioni raccolta dal robusto dizionario possono essere descrizioni di ‘specie’ di fate o folletti come possono essere, addirittura, le descrizioni del carattere di questi, d’atteggiamenti, d’abitudini. Il dizionario della Briggs, corposa opera che lungo lavoro costò alla studiosa e ricercatrice inglese è la perfetta rappresentazione d’un vero e proprio mondo a parte. Se il tanto osannato, seguito, giustamente studiato Tolkien fu grandioso per aver inventato mondi su mondi e gnomi su gnomi, la Briggs ha creato un libro che il frutto d’un’interminabile operazione di scavo. Viaggiando su binari paralleli, le pagine di Katharine Briggs possono essere comunque unite a quelle, sicuramente più numerose, di Tolkien. Lo studio, lavorato da due attentissimi e fini traduttori, come si sono mostrati Casorati e Iovane, è indispensabile sia per i cultori di questo genere di ‘folklore’ sia per quante e quanti vogliono avere “informazioni” utili su terre solcate da esseri simili in tanto ai nostri monacelli. Eppure tanto diversi da noi brutti, sporchi e fetenti esseri umani.

Dizionario di fate, gnomi, folletti e altri esseri fatati, di Katharine Briggs, traduzione di Cecilia Casorati e Giovanni Iovane, con una nota di Riccardo Reim, con illustrazioni, Avagliano (Roma, 2009), pag. 495, euro 36.00.



mercoledì 19 maggio 2010

Il libro del giorno: Il viaggio d'inverno di Amélie Nothomb (Voland)


















Un romanzo in cui tutto è improbabile, a cominciare dai nomi dei protagonisti: Zoïle, impiegato di una società elettrica con la passione per l'Odissea, Astrolabe, splendida ragazza che si prende cura di Aliénor, scrittrice di successo che soffre di una curiosa forma di autismo. Affascinato da Astrolabe e infastidito da Aliénor, Zoïle inizia a frequentare le due donne cercando di insinuarsi in questa strana coppia. Un viaggio psichedelico è la bizzarra tecnica di seduzione messa in atto dal giovane per conquistare la bella ma l'esito sarà disastroso, in tutti i sensi...

L'appetito vien leggendo















Quattro giorni dedicati al libro e alla lettura, nel cuore di Lecce; dal 20 al 23 maggio in P.tta Arco di Prato, infatti, si terranno degli eventi che avranno come unico protagonista il caro vecchio amico libro. L’Agenzia di comunicazione Titania Brand Consulting, ha ritenuto di aderire ad all’iniziativa della “GIORNATA NAZIONALE PER LA PROMOZIONE DELLA LETTURA” indetta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e realizzata dal Centro per il Libro e la Lettura. Si tratta della prima campagna di comunicazione intitolata “SE MI VUOI BENE, IL 23 MAGGIO REGALAMI UN LIBRO”, che mira ad incentivare la lettura, attraverso il suo più tradizionale supporto: il libro. L’Agenzia Titania ha voluto, per quest’occasione, ricreare una rassegna dell’editoria locale, invitando le Case Editrici della Provincia di Lecce a partecipare all’evento mediante la realizzazione di banchetti espositivi di prodotti editoriali. Si svolgeranno, inoltre, presentazioni di libri da parte di alcuni autori e reeding di poesie o passi significativi di romanzi e racconti. Alla campagna di promozione parteciperà anche il ristorante VIC – Very Important Cuisine -, sito nella P.tta in cui avranno svolgimento gli eventi, che, negli stessi giorni, con l’iniziativa “L’APPETITO VIEN LEGGENDO”, regalerà un libro ai suoi clienti.

PROGRAMMA DELLE SERATE:

20 maggio ore 19.30: verrà presentata la casa editrice PENSA MULTIMEDIA con l’intervento del prof. Vito D’Armento e dell’autrice Katia DE ABREU CHULATA autrice del volume “Palavras”. Introduce Stefano Donno (appuntamento rinviato per i primi di giugno);

21 maggio ore 19.30: KURUMUNY con il libro di ANTONIO ERRICO dal titolo “Le ragioni della passione”. Presenterà l’autore Vito Antonio Conte.

22 maggio ore 19.30: presentazione del libro di Anna Maria DE LUCA dal titolo “Di Vento” (LUPO editore) e Compagnia intercomunale del Nord Salento.

23 maggio ore 19.00 :Il bar degli appuntamenti mancati” Reading musicale in duo tratto dalla raccolta di racconti brevi “Senza Storie”di Luisa RUGGIO (BESA Editrice)

Ore 20.00 BHOOMANS con il libro di poesie “Più luce” di LARA CARROZZO. L’autrice sarà presentata da Rossella Bufano della rivista culturale Ripensandoci.


Titania – Brand Consulting
di Pizzi Alessandra
Via Pasquale Cecere, n. 1
73100 Lecce
tel/fax +39 0832393212

Tutte le donne di Manara. Intervento di Angela Leucci


















In mostra ancora per poco le tavole originali del maestro Milo Manara, a Maglie presso il secondo piano di Candido fino al 21 maggio. Da “Viaggio a Tulum” a “Tutto ricominciò con un’estate indiana”, si tratta di un evento eccezionale, anche se magari, per passione, abbiamo seguito con meticolosità tutte le fasi e i cambiamenti di un’artista che si è rivelato senza svelare. Come in alcuni episodi de “Il gioco”, i cui capitoli finali celebrano un’evidente disillusione nella giustizia, una cupezza nel osservare la morbosità che è nell’essere umano. Una caratteristica non riscontrata nell’opera “canonica” di Manara, dove esiste un senso spiccato del ludico, in particolare in quelle storie che traggono ispirazione dai classici della letteratura, come “I viaggi di Gulliver”, divenuto dalla sua matita “Gulliveriana”, e “L’asino d’oro” di Apuleio, tradotto in immagini per certi versi di gusto felliniano, con una fedeltà quasi devota al mondo che la latinità di matrice fescemnina tramanda. Al vernissage, che si è tenuto lo scorso 25 aprile, Manara ha raccontato della sua vita e soprattutto della sua opera. “Sono tante le collaborazioni che ricordo con affetto – ha raccontato – ma in cima c’è sicuramente quella con Hugo Pratt. Mentre quella che ricordo con più gratitudine è quella con Fellini, che per me è stata un’ottima scuola. Ma se si parla di affetto, io e Pratt eravamo un po’ come due fratellastri”. L’arte di Manara presenta dei modelli femminili dalla grande personalità, molto indipendenti ed emancipati, ma senza essere seriali, se escludiamo l’esperienza con il personaggio maggiormente caratterizzato, quello di Miele. “Non ho personaggi seriali – ha commentato - perché la serialità non mi attrae, ma il personaggio fisso diviene una gabbia da cui l’autore non riesce ad uscire. Ciò che mi affascina maggiormente del mio lavoro è la possibilità di viaggiare nel tempo e nello spazio, una delle libertà più grandi che ci siano. In certi casi, il personaggio fisso può aiutare la figura del suo creatore, ma non sempre, è accaduto, com’è naturale ad esempio a Corto Maltese, Valentina o Zanardi”.


foto di Andrea Colella (Bel Paese)

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