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mercoledì 10 febbraio 2010

Il libro del giorno: Il ladro di suoni di Vittorio Giacopini (Fandango)

Torre del Lago, Versilia, primi anni Cinquanta. Un uomo sbarca in paese tornando dall’America; viene a morire. Con sé ha un baule misterioso e l’aria equivoca, di chi nasconde un segreto da non dire. Dicono che sia un musicista e ha l’andatura estenuata di un bradipo in processione, sembra un vecchio. I compaesani lo chiamano ‘il bandolero stanco’, l’americano. Negli stessi anni, in una suite lussuosa di Manhattan, a casa di un’amica miliardaria, muore il genio del be bop, Charlie Parker. Non fa neanche in tempo a crepare che attorno a lui già fioriscono oscuri miti. Sulla metro di New York una mano misteriosa scrive ‘bird live!’ e qualcuno mette in giro la voce, indimostrabile, che nascoste da qualche parte, chissà dove, ci siano ore e ore di registrazioni perdute di Bird, suoni rubati da un pazzo spacciatore, un parassita, che lo seguiva ovunque, come un’ombra, e registrava tutte le sue serate, i suoi concerti. Quei nastri diventano il Sacro Graal del Jazz, una leggenda. Ma chi era il ladro di suoni, e dove stava? La storia di Dean Benedetti, quel giovane vecchio che si era rintanato a morire giù in Toscana, nasce così, già postuma dall’inizio, evanescente. Poteva essere tutto vero o tutto falso. Quel tesoro esisteva davvero o era una balla? E se c’era davvero dove stava? Nessuna prova provata, nessun indizio. Nel ladro di suoni l’autore narra (e inventa) questa vicenda ormai dimenticata,. Il racconto è un romanzo di (de)formazione e un viaggio nel tempo che compone trascurabili reperti e dati frammentari, inconcludenti, per ricostruire un mosaico ricco di avventure e affollato di imprevisti e di spavento. È una storia di fallimenti e di rinunce, un lento viaggio iniziatico on the road che dalle montagne spoglie del Nevada, raggiunge la California, poi New York sino alla provincia toscana. Un romanzo limpido e memorabile che racconta un mito americano diventato improvvisamente tutto italiano.

Vittorio Giacopini è nato a Roma nel 1961. Collabora alla rivista “Lo straniero”. Tra i suoi libri, Scrittori contro la politica, Bollati Boringhieri 1999, Una guerra di carta, il Kosovo e gli intellettuali, Eleuthera 2000, Al posto della libertà, breve storia di John Coltrane, e/o 2005 e il romanzo Re in fuga. La Leggenda di Bobby Fischer, Mondadori 2008 (premio Comisso per la letteratura).

Quel che rimane ... di Vito Antonio Conte


Sul tavolone -che funge da scrivania- nello studio di casa mia, dopo i mandorli in fiore nei campi adiacenti la strada che ho percorso e amato (insieme a te), lo spazio è quasi ormai colmo. Pile di libri, fotografie, agende e altro, molto altro, a consumare ritagli di legno residuo. Ho acceso un incenso (Goloka, varietà Nagchampa Agarbathi), il suo profumo si sposa bene col the bollente al limone che sto bevendo, intanto che per cinque minuti son venuti giù fiocchetti di neve. Scrivo il mio nome il mio indirizzo e il mio numero di cellulare sulla Moleskine intonsa, a fogli bianchi (senza righi, né altro, intendo), con la copertina cartonata rigida di colore rosso. Sotto, accanto alla dicitura “As a reward: $”, aggiungo “0”. Tanto vale oggi il ritrovamento e la riconsegna a me, semmai dovessi perderla (la Moleskine nuova, intendo). Lo stereo diffonde le note di quel che la copertina del CD assicura essere The Very Best Of Charles Mingus. È quel che ci vuole a quest'ora. Adesso. Faccio un po' d'ordine: ripongo nella libreria qualche libro: “Il mio nome è rosso” di Orhan Pamuk. Ne ho letto appena un ottavo: non è momento. Una raccolta di storie a fumetti di Milo Manara (eros d'autore: molto interessante...). Un altro fumetto: “Alan Ford Story” di Max Bunker (ritorno all'infanzia e uno scambio di battute d'attualità: il suicida, sulla spalletta di un ponte, dice: “Voglio buttarmi, sono un fallito! Non merito di vivere, voglio buttarmi”, Alan, rispondendogli, osserva: “Qui non otterrà niente, l'acqua è alta sì e no mezzo metro. Più avanti, di là, la profondità sarà di almeno sei metri, e allora...”, al che il suicida: “Grazie, grazie buon giovane! Un po' di calore umano fa sempre piacere ai morituri!”, pag. 103 del n. 1 di Alan Ford – Il Gruppo TNT del maggio 1969). Ripongo sulla libreria anche “Lo schiavo del manoscritto” di Amitav Ghosh: sono giunto a pag. 53 e non riesco proprio a continuare... Verrà il suo tempo anche per questo! Forse. E, forse, avrei dovuto iniziare la lettura di questo Autore con “Mare di papaveri”, di cui avevo letto un'ottima recensione su un vecchio “Style”, il noto supplemento del Corriere della Sera. Via anche “Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008”, edito da Progredit, a cura di Ettore Catalano, 526 pagine (indice dei nomi escluso) ricche di spunti e notizie sul panorama letterario pugliese degli anni indicati nel titolo del libro, ma decisamente deludente e confusionario nei capitoli XIII e XIV, curati, rispettivamente, da Antonio Lucio Giannone e da Maria Ginevra Barone e Fabio Moliterni. Quel che desta perplessità non è tanto il ritrovare menzione della tale rivista o del tale Autore, che -indubbiamente- è frutto di scelta dettata da una qualche motivazione, quanto la farraginosità dei capitoli nella disamina e nella descrizione del tema di cui si occupano, nonché alcune pesanti assenze, le cue conseguenti lacune sono inspiegabili. Frutto di scelta. Sarebbe interessante capire quale! Se qualcuno vorrà dirmelo, spiegherò meglio quanto sopra. Rimane su questo grande tavolo “Antigua, vita mia” di Marcela Serrano: lo leggerò intanto che rammento “Nostra Signora della Solitudine”, della stessa Autrice, letto diversi anni fa. M'era piaciuto! E mi accendo un'altra sigaretta... per chiudere questo pezzo, che non è una recensione, né altro, ma soltanto un'incursione nel mio tempo che scivola via, come questo giorno. Di cui rimane (come di versi) una parvenza di neve, mandorli in fiore e un libro da leggere...


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martedì 9 febbraio 2010

Il libro del giorno: L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (Newton Compton)

Con L’interpretazione dei sogni Sigmund Freud ha avviato una delle grandi rivoluzioni del Novecento divulgando la sua teoria dei processi inconsci. In nessuna altra opera è riuscito a coniugare in modo così brillante l’esigenza della completezza e del rigore con quella della chiarezza e della semplicità dell’esposizione. Tanto da rendere questo libro una sorta di passepartout in grado di aprire tutti gli accessi principali ai concetti della psicoanalisi. Alla vita onirica e alla sua interpretazione viene riconosciuto un ruolo fondamentale per la comprensione delle patologie psichiche – nevrosi e psicosi – ma anche delle motivazioni di tanti nostri atteggiamenti e peculiarità caratteriali. Spiegare cosa si nasconde dietro l’apparente bizzarria delle immagini e dei contenuti del sogno equivale, per Freud, a penetrare nei meandri della nostra psiche, a scoprire desideri e pulsioni rimossi, a dissotterrare un materiale affettivo e mentale preziosissimo, che la coscienza tende ad occultare perché “inaccettabile”. Il raggiungimento di tale consapevolezza è il primo, importantissimo passo verso la conoscenza del nostro Io più autentico.

«Quando ci siamo occupati della relazione tra i sogni, la vita da svegli e la fonte del materiale onirico, abbiamo notato che i più antichi e i più recenti studiosi di sogni sono concordi nell’opinione che gli uomini sognano quello che fanno durante il giorno e quello che interessa loro mentre sono svegli.»

Angeli a pezzi, di Dan Fante, traduzione di Marcdo Giovannini e Mary Sellers (Marcos y Marcos). Intervento di Nunzio Festa


Bruno Dante lascia la moglie, ovvero è lasciato da sua moglie, appena esce nuovamente da una clinica dove ormai ritualmente è internato, dopo che tenta il suicidio, per merito dell’alcolismo. Ma questa volta, a parte il fatto che in sostanza la mogliettina lo odia totalmente e lo lascia a se stesso, suo padre, il grande scrittore Jhonatan Dante sta morendo. Dan Fante, figlio di Jhon, ma questa riflessione-precisazione serve solamente a dirci quanto di memoria del padre è serrata nel romanzo, ha composto un’opera degna, ci viene da dire, proprio, appunto, di suo padre. Però, per rendere giustizia a Dan Fante, cerchiamo di dimenticarci della sua parentela. Anche se questa, ripetiamo, è parte forte di “Angeli a pezzi”. Il romanzo, infatti, fra le sue doti migliori ha questo avvistamento a distanza, fatto di memoria e di stima, d’affetto e di delusioni. Dante è fiero, si capisce, del Dante senior. La scrittura di Dan Fante è sottile come un raptus, potente quanto una mossa di ladro, è sicura e si beve d’una serie di sottigliezze che paiono assorbite direttamente dalla ‘scuola’ d’altri padri nordamericani. Che “Angeli a pezzi” è un romanzo che avrebbe potuto firmare qualsiasi altro grande autore di queste lande, con tutto il rispetto con questa bravissima nuova scoperta dell’editoria italiana. “Angeli a pezzi”, dove il rapporto con un padre-simbolo diventa stretto rapporto e contatto con il cane che a questo padre apparteneva, sperimenta le farneticazioni e i ribollimenti inventati dall’alcol. Viaggia sul binario lungo e scodinzolante della solitudine d’una persona che sa d’essere pronto a scrivere per vivere, dopo che è stato un abilissimo venditore di tutto quel che si può vendere. Il protagonista del romanzo, in pratica, è bravo a “fottere” l’umanità, ma allo stesso tempo è bravissimo a “farsi fottere”. Possiede, come altri casi celebri, il destino di voglie sessuali, inoltre, abbastanza ambigue. Anzi, non proprio ambigue. Si dica che il protagonista sente fortemente un forte richiamo spedito da una libidine non conforme a una certa tipologia di ‘normalità’. Bruno, per esempio, è bisessuale. Però non in senso puro. In quanto il suo volere pure corpi maschili è semplicemente una sfida alle regole. Più che una vera voglia o tentazione corporale. Non proprio, insomma, istinto. Alla stregua dei gusti sessuali, o della abitudini, Bruno Dante ama il vino che l’ammazza. Cosa tutt’altro che scontata, poi, il protagonista – forse molto ‘autobiografico’ – custodisce un desiderio di riscatto e chili e chili di consapevolezza delle proprie capacità e della sua sorte. La storia creata da Fante Dan permette alle pagine di girarsi quasi da sole. Le avventure inventate da Fante Dan ci spingono in faccia ad alcuni paesaggi nordamericani, non quelli fatti di tanta natura, comunque, e c’inducono a rafforzare il nostro desiderio d’immaginare gli spostamenti di quelli che di solito i benpensanti definiscono “borderline”. Bruno Dante è una persona che sconfigge le imposizioni, bravo nello sperpero del denaro, è uomo che vuole avere dalla sua storia tutto quanto dovrebbe servirgli per farlo stare in vita - e al meglio che crede. Poi Dante è debole. Però Dante si scontra con i dolori dell’animo. Esattamente alla maniera della stragrande maggioranza degli esseri umani. Dan Fante, con “Angeli e demoni” ricorda a lettrici e lettori che i terreni della dannazione sono ancora pieni di gente che in quelle dimensioni striscia e/o vola. Con il romanzo di Dan Fante è possibile rinnovare un’intesa con le corse delle percezione. A contatto col precipizio. A stretto giro di pericolo insistente. L’uomo comune, il cittadino medio è nuovamente visto bene e male, di male e di bene.


lunedì 8 febbraio 2010

Il libro del giorno: Liberaci dagi sbirri di Gabriele Reggi (Isbn edizioni)


«Com’era possibile che l’avessero concepita così come la vedevo, quella scuola? Sottoterra, morta, si direbbe. Una scala sostenuta da pilastri scendeva come in un girone dantesco fino al portone d’entrata trenta metri più giù. Ho fatto un segno d’intesa al meccanico. Anche lui. Sono sceso. L’edificio era privo d’intonaco, impiantato miracolosamente nel terreno come fosse caduto da sopra, qualcuno gli avesse dato una spinta e fatto rotolare per il paese fino al punto più basso; qualcosa di cui vergognarsi. Ecco. Una discarica di scuole.» Una violenta, ancestrale parabola del Sud profondo. Una racconto d’amore e di sangue

Spedito a far supplenze in una scuola del Sud più profondo, il protagonista di questo romanzo si accorge ben presto di essere finito in un villaggio dei dannati che sembra partorito dalla mente di Stephen King, più ancora che da Ignazio Silone o da Ernesto De Martino. La Storia non arriva a Stimmate, dove le donne sono costrette a lavorare nei campi e i carcerati sono chiamati Presidenti e vivono come al Grand Hotel. Il tasso di mafiosità di questo Meridione allucinato e piovoso porta uomini e donne a pregare ogni giorno «liberaci dagli sbirri», mentre un cruento rito religioso chiamato la Piaga sembra tenere insieme la comunità. Finché Stefano, il prossore del Nord, non si innamora di Anorea, bellissima e intoccabile.

Gabriele Reggi è nato nel 1961 ad Atri (Te). Vive e lavora a Rieti. Liberaci dagli sbirri è il suo primo romanzo.

Puccetto: "La mia mano una radice disposta sull'orizzonte". Intervento di Mauro Marino

E’ pittura viva quella di Puccetto. Pittura che viene dall’urgenza del corpo, una necessità espressiva che muove poesia mutandola in colore, in concreto atto di attacco: questo è un’imbrattamento. Una lotta, una sfida! Osare è cifra fondante in quest’agire. Motivo d’un riscatto che oggi abita le stanze paludate di un ‘castello’... A pensarci bene solo una “t” è di troppo per dire ‘casello’ - il luogo dove quest’arte si fa opera - che sempre reggia è, se ci abita l’arte, il cercare, l’impazienza, la ribellione, il contemplare! Recinto d’una regalità ‘fatta’ dell’odore forte delle trementine e delle vernici, scandita dal trillo d’un telefono a muro, di bachelite nera, che annuncia il passaggio dei treni. Eppure quello è un mondo fermo, nonostante il trafficare del passaggio a livello. Un mondo custodito tutto intero nella sua purezza che cova ingegno per far furba la mano e sagace l’occhio nel guardare in divenire. Antonio Rocco D’Aversa è poeta, di scritture fini che mischiano la lingua e la declinano nell’incanto di visioni prossime a pochi. E’ miracolo il suo versificare, come miracolo è l’equilibrio che le sue “pezze” accolgono nel calibro del graffio, della pennellata data con le mani, nello stridere d’una punta sulla superficie. Scive Puccetto: La mia pelle è una terra/ Il mio corpo un sentiero senza destino/ La mia vita è un errore/ La mia mano una radice disposta sull'orizzonte/ L'odio è una bocca piena di sabbia/ La mia pelle rubata al tempo/ Nel pozzo profondo esistono immagini/ E un grido che nessuno ascolta/ Io sono affascinato dal pozzo poiché è là che e mie grida mi abbandonano/ Il mio corpo è blu e non riflesso di luce/ Io sono un secolo di silenzio e di argilla/ Un campo tracciato dalla notte/ Il mio corpo è un incendio.

fonte iconografica by Cinesalento

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domenica 7 febbraio 2010

Il libro del giorno: Delfini di Banana Yoshimoto (Feltrinelli)

Kimiko, giovane scrittrice di romanzi rosa, esce con Goro, che convive con Yukiko, una lontana parente molto più grande di lui. Una sera, dopo una visita all’acquario di Tokyo a vedere i delfini, Kimiko fa l’amore con Goro, ma capisce che la loro storia non ha futuro. Temendo di legarsi troppo a lui, decide allora di abbandonare Tokyo. Nel tempio vicino al mare in cui trova rifugio, conosce Mami, una ragazza con doti soprannaturali, e da lei viene a sapere di essere incinta. Kimiko contatta Goro per chiedergli di riconoscere il bambino, senza però pretendere né di essere sposata, né tantomeno che lasci Yukiko. In attesa della nascita della piccola Akake, la gravidanza di Kimiko è scandita da un sogno ricorrente: delfini che nuotano nell’acqua.
Le opere di Yoshimoto vengono spesso paragonate ai manga per le situazioni descritte e per i loro protagonisti. Tra le sue amicizie rientra Kyoko Okazaki, famosa autrice di Shojo manga di grande successo nei primi anni '90.

E' finita la controra (Manni editore) a cura di Filippo La Porta. Intervento di Dario Goffredo

ll bravo editore Manni ha da poco pubblicato È finita la controra, un’antologia curata dal critico Filippo La Porta che raccoglie brani dai romanzi di diciannove scrittori pugliesi nati tra il 1956 e il 1986. Se-condo La Porta la Puglia sta vivendo un nuovo rinascimento letterario, o Nuovelle Vague. Il critico parte da una domanda: è possibile rintracciare una linea comune tra le diverse anime narrative della Puglia? La risposta è, naturalmente negativa, ma riesce, La Porta a descrivere una certa tendenza comune alla mutazione, una resistenza alla modernità, seppur inconsapevole.
Fa molto piacere vedere raccolte in un unico volume alcune delle migliori pagine scritte da autori pugliesi negli ultimi anni. Leggere, come se fosse un unico grande racconto, le storie di Puglia. I diciannove autori raccolti nel libro sono diversissimi tra loro per genere e tematiche trattate: si va dal giallo-noir di De Cataldo, Carofiglio, Lomunno e, se vogliamo, De Michele, al western pugliese di Omar Di Monopoli, ai reportage di Alessandro Leogrande, al blog trasferito su carta di Pulsatilla, alle invenzioni narrative e linguistiche di Livio Romano, Carlo D’Amicis, Mario Desiati e Cosimo Argentina, allo sguardo cinematografico di Andrea Piva, al romanzo di formazione di Nicola Lagioia. Chiudo dicendo che condivido appieno l’idea di La Porta e Manni di pubblicare questo libro che può essere l’occasione per rileggere o leggere alcuni validissimi autori pugliesi che ben rappresentano davvero questa Nuovelle Vague del tacco d’Italia. Insomma, come direbbe Francesco Facchinetti, sosteniamo e compriamo la buona narrativa pugliese.

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sabato 6 febbraio 2010

Il libro del giorno: Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli)

Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d’uscita. Poi un giorno arriva l’amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l’amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male.
Attraverso gli occhi di due ragazzine che diventano grandi, Silvia Avallone ci racconta un’Italia in cerca d’identità e di voce, apre uno squarcio su un’inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più. E lo fa con un romanzo potente, che sorprende e non si dimentica.

AA.VV. - "La sposa barocca - sette saggi su Claudia Ruggeri" edito da LietoColle

"Un sabato pomeriggio una ragazza solitaria, misteriosa, molto bella, si confessa nella chiesetta di San Lazzaro ad Alessano, piccolo centro agricolo in provincia di Lecce. Dopo essersi confessata fa la comunione. Si chiama Claudia, ha 29 anni, appare silenziosa, molto tranquilla e nulla lascia presagire quello che accadrà. È di Lecce, la sera torna a casa sua in città. Claudia trascorre la sera in casa, per leggere, forse scrivere, oppure solo pensare. All’una e trenta Claudia Ruggeri si lancia nel vuoto, si lancia dal balcone di casa sua." Era il 1996. Con queste parole Mario Desiati ricorda Claudia Ruggeri nel suo Note per una poetessa, apparso qualche tempo fa sul sito di letteratura e poesia poiein. Poiein non è l’unico sito che di recente si è occupato della poetessa salentina. Oltre a lecceweb nel giugno 2004 il sito di letteratura e poesia musicaos ri-propone, con una breve introduzione di Luciano Pagano, una sezione de "Il Matto", pubblicata nel 2000 dalla rivista underground leccese S/Pulp, con contributi di Rosanna Gesualdo e Maurizio Nocera. Il testo era stato ricavato da un’audiocassetta (attualmente custodita con cura dallo scrittore Maurizio Nocera), dove Claudia recitava i suoi versi. La voce della giovane autrice sembrava provenire da chissà quali distanze, un canto distorto, quasi fosse il canto d’amore di una Furia. Potremmo parlare di modulazioni recitative improntate su categorie tonali-performative della separazione, del lutto, della distruzione. Sarebbe riduttivo. Andiamoci cauti. Ascoltarla, lo assicuriamo, ha richiesto nervi saldi. Ancor più di recente sul settimanale Diario tra il 30 e il 5 agosto 2004, lo scrittore e giornalista Pietro Berra, parla di "Poeti maledetti, a Lecce". Accanto a Salvatore Toma, Stefano Coppola, Antonio Verri, anche Claudia Ruggeri. Scrive Berra: "Fu a uno dei tanti incontri promossi da Antonio Verri che Claudia Ruggeri conobbe Franco Fortini. La ragazza, già distintasi in alcune letture pubbliche per la bellezza e per il modo con cui recitava i suoi versi, affidò al maestro un pugno di poesie trasbordanti di parole, un po’ barocche e un po’ decadenti. Ricevette in risposta una lettera in cui il critico-poeta le definiva collane e gioielli".

Questi contributi e queste iniziative editoriali marcano a fuoco l’esigenza di approfondire il caso Ruggeri (perché di caso si tratta, finchè qualcuno non si accingerà a una sistemazione organica e critica della poetica dell’autrice), e aggiungono altro materiale, accanto a quanti precedentemente hanno parlato e scritto di lei: Walter Wergallo, Arrigo Colombo, Carlo Alberto Augieri, Michelangelo Zizzi, Donato Valli, Rossano Astremo, Luciano Pagano, Giuliana Coppola, Antonio Errico, Sergio Rotino, Franco Fortini, Mario Desiati, Rossano Astremo, Elio Scarciglia. Ora esce per i tipi di Lieto Colle "La sposa barocca - sette saggi su Claudia Ruggeri" un bellissimo volume prefato da Michelangelo Zizzi, a cura di Pasquale Vadalà con le testimonianze di Andrea Cassaro, Mario Desiati, Stelvio Di Spigno, Andrea Leone, Flavio Santi, Carla Saracino e Mary B. Tolusso. Un lavoro che attesta quanto ancora ci sia da dire e da fare su un personaggio di spessore e rilievo che merita di essere nelle più importanti antologie di poesia contemporanea italiana. Quello voluto dalla casa editrice comasca e dai curatori del volume, appare subito evidente come voglia essere un’opera che contribuisca a dare finalmente un approccio sistematico al verso, al respiro grandissimo di questa poetessa e al suo essere per la Poesia con generoso rispetto e amore. Dunque nulla di commemorativo, anzi si parla di uno spazio letterario dove sette autori si confrontano attraverso serratissimi punti di vista sul livello poematico della Ruggeri come è avvenuto con Bodini, Comi, Verri. Un volume assolutamente imperdibile perché testimonia la stima intorno alla verità della Poesia, e all’autenticità dell’essere Poeta di questa splendida “sposa barocca”

venerdì 5 febbraio 2010

Calpestare l'oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana




















Nei prossimi giorni sarà diffusa attraverso il web l'antologia "Calpestare l'oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana" con cui si conclude questa prima operazione di rivolta poetica contro l'oblio nazionale.

Gli autori di "Calpestare l'oblio" sono:
Francesco Accattoli, Annelisa Addolorato, Nadia Agustoni, Fabiano Alborghetti, Augusto Amabili, Viola Amarelli, Antonella Anedda, Gian Maria Annovi, Danni Antonello, Luca Ariano, Roberto Bacchetta, Martino Baldi, Nanni Balestrini, Maria Carla Baroni, Vittoria Bartolucci, Alberto Bellocchio, Luca Benassi, Alberto Bertoni, Gabriella Bianchi, Marco Bini, Brunella Bruschi, Franco Buffoni, Michele Caccamo, Maria Grazia Calandrone, Carlo Carabba, Nadia Cavalera, Enrico Cerquiglini, Antonino Contiliano, Beppe Costa, Andrea Cramarossa, Walter Cremonte, Maurizio Cucchi, Gianluca D’Andrea, Roberto Dall’Olio, Gianni D’Elia, Daniele De Angelis, Francesco De Girolamo, Vera Lùcia De Oliveira, Eugenio De Signoribus, Nino De Vita, Luigi Di Ruscio, Marco Di Salvatore, Alba Donati, Stefano Donno, Fabrizio Falconi, Matteo Fantuzzi, Anna Maria Farabbi, Angelo Ferrante, Loris Ferri, Fabio Franzin, Tiziano Fratus, Andrea Garbin, Davide Gariti, Massimo Gezzi, Maria Elisa Giocondo, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Raimondo Iemma, Andrea Inglese, Giulia Laurenzi, Maria Lenti, Bianca Madeccia, Maria Grazia Maiorino, Francesca Mannocchi, Giulio Marzaioli, Emiliano Michelini, Guido Monti, Silvia Monti, Davide Morelli, Renata Morresi, Giovanni Nadiani, Davide Nota, Opiemme (laboratorio), Fabio Orecchini, Claudio Orlandi, Natalia Paci, Adriano Padua, Susanna Parigi, Fabio Giovanni Pasquarella, Giovanni Peli, Enrico Piergallini, Antonio Porta, Alessandro Raveggi, Rossella Renzi, Roberto Roversi, Lina Salvi, Stefano Sanchini, Flavio Santi, Lucilio Santoni, Giuliano Scabia, Francesco Scarabicchi, Alessandro Seri, Marco Simonelli, Enrico Maria Simoniello, Giancarlo Sissa, Luigi Socci, Alfredo Sorani, Pietro Spataro, Roberta Tarquini, Rossella Tempesta, Enrico Testa, Fabio Teti, Emiliano Tolve, Adam Vaccaro, Antonella Ventura, Lello Voce, Matteo Zattoni

L'e-book conterrà una prefazione dello storico Luigi-Alberto Sanchi e una mia breve premessa alla nuova versione.

Il libro del giorno: L'invenzione di Palermo di Giuseppe Rizzo (Giulio Perrone editore)

Questa storia è una favola, ma piena di parolacce. Questa storia parla di Palermo, ma anche della neve. Questa storia è ricca di invenzioni senza brevetto. I Tirone vivono in una baracca di lamiera sul fiume Oreto, a Palermo. Da quando Gesù ha inventato le case popolari, cercano di farsene assegnare una. Nel frattempo, tirano a campare vendendo, al mercato popolare di Ballarò, roba raccattata nell’immondizia. Ci riescono, fino a quando ritrovano la madre morta. Per la precisione, morta ammazzata. Nello specifico: sparata. Da questo momento, succedono tante cose. Succederà che Totò, il marito, e il figlio maggiore vengano arrestati. Che Nino, l’unico maschio rimasto in casa Tirone, venga massacrato di botte dai malacarne. E che Annina, quindici anni, stivaletti di vernice rossa ai piedi e parolacce appiccicate alla lingua, si ritrovi a tirar fuori dai pasticci la sua famiglia. Da sola. A meno che si vogliano considerare d’aiuto uno psicoanalista che da dieci anni non esce di casa, un imbianchino che vive con le puttane di colore e un nano che tutti chiamano “Il Principe”.

Giuseppe Rizzo ha ventisei anni. Ha collaborato con il Giornale di Sicilia, Il Mucchio Selvaggio e Nazione Indiana. È stato finalista al Mondello Giovani e ha vinto il RomaEuropa Festival. Mangia la carne. Non ha un blog.

giovedì 4 febbraio 2010

Il libro del giorno: Walter Tevis, Il colore dei soldi, The Color of Money (Minimum Fax)

«Tevis è ineguagliabile nel ricreare la tensione delle sfide al tavolo da biliardo».
Publishers Weekly

«Tevis è uno dei più grandi scrittori americani del Ventesimo secolo. I suoi romanzi hanno cambiato l’immaginario collettivo».
Matteo Sacchi, Il Giornale

Pubblicato nel 1984, pochi giorni prima della morte di Walter Tevis, Il colore dei soldi nasce come seguito ideale del suo primo romanzo, Lo spaccone.
Vent’anni dopo l’epico incontro con Minnesota Fats, «Fast» Eddie Felson torna sui tavoli da biliardo per continuare la sua partita con la vita e con se stesso. Dopo aver tentato invano la carriera di imprenditore, Eddie capisce dolorosamente che il suo talento per la stecca è l’unico capitale di cui dispone per sopravvivere. Ma nel frattempo il mondo del biliardo professionistico è cambiato, e una nuova generazione di giocatori detta legge al panno verde. Alle prese con un ambiente del quale deve imparare a proprie spese le nuove regole, «Fast» Eddie si rimette in gioco, tornando a una vita fatta di competizioni, alberghi lussuosi e impersonali, sale fumose dove allenarsi e affrontare gli avversari. E vincere l’ultima sfida.
Questo romanzo ha ispirato il film omonimo diretto da Martin Scorsese, con Paul Newman (già protagonista di Lo spaccone nel 1961) e Tom Cruise.

Scassata dentro è la Luna (Ascoltando “Scassata dentro” di Enzo Mansueto). Intervento di Gianpaolo G. Mastropasqua










Dopo le performance epilettriche di Ian Curtis e l’ultimo estremo atto, l'uomo che r-esisteva si rifugiò nella notte, l'unica madre-vedova dark dove i lumi di punk antecedenti avrebbero abitato per essere ricordati eternamente, lottando e sputando contro-elettronica pensante contro i vampiri ultracorporei delle coscienze azzeranti. Ipnotico, ferale, ironico, disturbante e affilato come una costante lama dolce nelle tempie si muove il tessuto poetico nelle periferie perturbanti delle forme canoniche della metrica, scorporandosi al suo interno, nell'asse parallasse del testo o sulle ali di Pornography e Disintegration scassandosi nel rimare assolutamente moderno,metropolitano e global, nel remare nelle perdite corporali, scardinando lo scardinante nel continuum di una fusione musicale aderente come una pelle notturna, amplificante nel suo cono d'ombra, dove chitarre ritmano in verticale stridore "sul bagnasciuga elettrico del sonno" e i violini possono piangere la notte o giocare con le fisarmoniche clownesche de "l'estate barese" o proseguire nel turbine con-fuso "alla stazione" feroce dove "un branco di bambini/ azzanna un vecchio, lo morde sui gradini". Perfetta la recitazione tutt'altro mansueta dell’Autore che il nostro sommo Bene suppongo avrebbe amato, compiuta ed efficace la mappatura sonora che unisce l’inchiostro al bianco del foglio, collante all'horror vacui, riempimento d'atmosfere minimali e fraseggi ciclici compatti fino al dettaglio più remoto, un lavoro magistrale. Scassata dentro è la Luna, questa madre-terra degli ultimi poeti, scassata è la parola che resta, venduta e sottomessa agli ultracorpi pene(n)tranti, violentata fino all’osso, ipnotizzata, anestetizzata e incenerita dall’impero elettro-catodico. I nuovi mostri, questi ultracorpi instancabili, hanno nomi familiari e affidabili come padri (televisione, telegiornale, varietà, reality, rete, pubblicità), come padri di famiglia che dopo l’ultimo acquisto sessuale di minorenni in zone scolastiche (vedi Scassata), ritornano ai familiari spettatori col sorriso erettorale stampato sulle labbra, del tutto indifferenti, come una questione morale in questi marci tempi, riposizionandosi “al noto microclima./Con la minestra pronta per la figlia,/ la madre esatta e un ombra strana strana”. Non c’è scampo, quindi, forse l’unico, il definitivo e crudele antidoto rimasto per l’elettrica telecianosi, in grado di agire magari omeopaticamente o come un anticorpo anti-ultracorpo sarebbe un terapeutico, disperato, vecchio elettroshock di massa!Ma per Mansueto “Non c’è l’anticorpo. Farmaco./ Nessun sollievo al sintomo. La tarma/elettrica lavora nella piaga”. Scassata dentro, deformata è ormai la vita (“nel chiuso della notte,/nel chiuso in una capsula spaziale/col cruscotto spaziale/ di faro in faro a tondo”) fino al fondo di una notte fonda, che come fusa affonda girando in tondo in una tangenziale tonda nell’attesa disillusa e furibonda di una fondante alba profonda.

Collana: i miosotìs / n. 46
formato: cm 16 x 17 in brossura
copertina e interventi grafici: Studio Guida Napoli
cod. ISBN: 978.88.88413.80.8
pagine: 52 con cd
euro: € 16,00 – distribuzione NdA Librerie Feltrinelli
febbraio 2010

mercoledì 3 febbraio 2010

Il libro del giorno: American collage Il cinema di Emile de Antonio di Federico Rossin (a c. di) per Agenzia X

Credo nel cinema come arte e lotta. Credo che il cinema possa rivelare attivamente come nessuna altra forma è in grado di fare. Credo che il cinema possa essere la cosa in sé piuttosto che qualcosa a proposito della cosa. Credo nel lavoro indipendente con il controllo totale del proprio materiale. Credo nel pubblico. Credo nella scelta.
Emile de Antonio, Movies and Me, 1974

Emile de Antonio ha raccontato come nessun altro l’America della guerra fredda in una serie di affreschi cinematografici sui sogni, le delusioni, le violenze e i desideri di un paese ferito. La sua opera, influenzata dalla tecnica artistica del collage di Robert Rauschenberg e dalla sperimentazione musicale di John Cage, ha tracciato un vigoroso e ancora attuale quadro di una nazione oppressa da una dilagante paranoia ma nel contempo innervata da grandi energie creative e politiche. De Antonio ha insegnato a tutti i registi venuti dopo di lui a servirsi delle immagini d’archivio per combattere l’oblio imposto da un mondo ipertecnologico e ci ha lasciato in eredità una fede incrollabile nel cinema come strumento di lotta e di pensiero.

Emile de Antonio (1919-1989), è stato uno dei più importanti documentaristi degli Stati Uniti e un maestro del cinema di montaggio. Tra i suoi lavori ricordiamo: Point of Order (1963), Rush to Judgment (1966), In the Year of the Pig (1968), Millhouse: A White Comedy (1971), Painters Painting (1972), Underground (1976) e Mr. Hoover and I (1989).

Ed io parlo, scrivo e fumo. Giovanni Bernardini racconta tutto di sè per un libro di prossima uscita con Lupo editore



Estratto dell’intervista a Giovanni Bernardini per l’uscita del suo nuovo libro “ED IO PARLO, SCRIVO E FUMO” edito da Lupo Editore prossimamente in libreria. Intervista a cura mia e realizzata da ACMElab. www.acmelab.it

martedì 2 febbraio 2010

La libreria Gutenberg di Lecce e Lupo editore presentano: Il vizio di leggere con Elisabetta Liguori e Pierluigi Mele

La Libreria Gutenberg e Lupo editore presentano, Giovedì 4 febbraio, ore 18.30 presso la Biblioteca Bernardini, Sala del Teatrino Piazzetta Carducci (Lecce), Il vizio di leggere: Quando nasce il bisogno di leggere? Da dove viene? Quali conseguenze porta con sè? Confessioni dialoganti per carta e ricordi tra Pierluigi Mele autore di “Da qui tutto è lontano” (Lupo editore) ed Elisabetta Liguori autrice con Rossano Astremo di “Tutto questo silenzio” (Besa editrice). L'incontro sarà coordinato da Anna Cordella.
"Leggere è un vizio, una conquista, una passione sfrontata, un tic, un bisogno, a volte un alibi. C'è chi lo fa la sera prima di addormentarsi, chi al mattino davanti ad un caffè bollente, chi in autobus, chi in attesa dal dentista, chi di nascosto in uno scantinato, taluni per protesta, molti per dovere, altri per indolenza. C'è pure chi non riesce a farlo e si sente in colpa o chi non ci tiene affatto e quando vede un romanzo brillare sul bancone di una libreria fa spalluce e non sa perchè. C'è chi legge solo quotidiani, chi solo romanzi gialli, chi preferisce i saggi e prende appunti, chi divora di tutto e poi sente la testa girare. C'è chi ha bisogno di solitaria concentrazione e chi legge solo a voce alta per un pubblico scelto. Chi legge per sè, chi legge per un amico o per un amore. Chi legge male, chi legge troppo, chi legge due volte. Ma esattamente quando e perchè nasce il bisogno di leggere? Come cresce nel tempo e in quali condizioni? Quali conseguenze porta con sè? Leggere è un gesto di ribellione che molto cela e molto svela di un uomo o di una donna. In tempi di crisi il libro, e tutto quello che ruota attorno allo stesso, continua ad essere oggetto di accesi dibattici e grossi quesiti. Non si può non chiedersi perchè. Poichè la lettura è un cammino attraverso la storia degli uomini è giusto che ciascuno compia il suo a suo modo. A volte può essere interessante condividere quel cammino con qualcuno."

Il libro del giorno: Metallo urlante di Valerio Evangelisti (Einaudi)

In Metallo urlante ogni capitolo è un passo verso un orrore sempre piú gelido. Accanto a perverse mutazioni della carne in metallo, sotto il tallone di oppressioni spaventose, negli scenari esotici dove eserciti non piú umani si scontrano, una mente sottile e malata tiene le fila del racconto, oltre ogni dimensione di spazio e di tempo: è Nicolas Eymerich, il crudele inquisitore medievale le cui vicende sono raccontate nel ciclo pubblicato da Mondadori. Introduzione perfetta a Eymerich e complemento indispensabile del ciclo, ma anche libro di avventure autonome (tra le quali la prima apparizione del pistolero stregone messicano Pantera, protagonista di Black Flag), Metallo urlante - che rende omaggio nel nome a una celebre rivista francese di fumetti, madre ideale di Alien - è oggi apprezzato da intenditori di ogni genere come uno dei capisaldi della nuova narrativa fantastica. Anche per la innegabile capacità dimostrata da Evangelisti di cogliere nelle patologie del presente l'incubazione possibile di un futuro di devastante ferocia, di desolante inumanità.

Da Prentice Mulford e il suo Il dono, a Genevieve Behrend con il suo Il potere invisibile della visualizzazione (Bis edizioni)

Parliamo di due libri assolutamente singolari che sono alla base del Nuovo Pensiero. Il primo è Il Dono di Prentice Mulford dove si parla di fede e soprattutto di conoscenza dell’Uno, principio assoluto e supremo che non solo permea tutte le creature dell’Universo, ma si trasforma in assoluta energia di Amore che come elemento reale, fisico, crea una comunione e comunicazione con la Mente Infinita. Di un’opera come questa non si può assolutamente dire che non possa suscitare un qualche interesse per il lettore moderno. Prentice Mulford, è uno scrittore profondamente spirituale che ha saputo distinguersi per freschezza e originalità tra gli autori che come lui ed Emerson fanno parte della corrente del Trascendentalismo americano. Il filo conduttore di tutta questa opera sembra essere una volontà ferrea dell’autore di dimostrare come la presenza del divino in noi e in ogni creatura vivente, deriva dalla coscienza di essere indissolubilmente legati all’Uno e alla Mente Cosmica che hanno generato una sorta di rete sinaptica universale che si auto/regolamenta al fine di tutelare noi stessi e il mondo. L'autore affronta in modo non banale anche temi come la reincarnazione, l'immortalità della carne e la preghiera, che rendono “Il dono” un'opera estremamente ricercata. “Nella vita spirituale, ogni persona è il suo proprio scopritore. Non dovete addolorarvi se le vostre scoperte non sono credute dagli altri. Il vostro compito non è quello di discutere e di convincere le altre persone, ma di andare avanti nella vostra strada, fare altre scoperte ed aumentare la vostra felicità personale”. Diverso invece è il lavoro di Genevieve Behrend, unica studentessa del maestro della filosofia di Scienza della Mente Thomas Troward, la quale ha ben sottolineato l’importanza della visualizzazione quotidiana, non solo al fine di ottenere ciò che si desidera quanto per strutturare una grammatica viva per il nostro cervello in grado di sviluppare una mente ordinata in grado di sfruttare appieno il proprio potenziale. La visualizzazione è paragonabile alla lampada di Aladino:certo ma ancora prima - raccomanda la scrittrice - di ogni azione visualizzante occorre sapere esattamente cosa si desidera. per attivare il suo potere devi prima di tutto sapere cosa vuoi . A mio avviso non si tratta di un’opera che si limita semplicemente e semplicisticamente ad aiutare il lettore a raggiungere il suo successo personale, quanto uno strumento utilissimo anche a scoprire tutte quelle zone d’ombra che sono latenti ma radicate negli strati più profondi del nostro essere. Quasi che i limiti umani possano essere strascesi attraverso la parola che diviene uno strumento di potere che trasforma in realtà i “desiderata”. Tutto ciò è possibile attraverso l’autoconsapevolezza estatica o estasiante che si produce con l’intrioettare una verità forte e incontrovertibile: ciascuno di noi è un centro particolare per il quale e nel quale lo spirito creatore sta cercando una nuova espressione attraverso le potenzialità che già esistono dentro ciascuno. “Tutti noi possediamo più potere e maggiori possibilità di quanto immaginiamo, e visualizzare è, di questi poteri, uno dei più grandi. Apre la porta all’osservazione di altre possibilità da parte nostra. Quando ci fermiamo per riflettere, ci rendiamo conto che, affinché esista veramente, un cosmo deve essere il risultato di una mente cosmica”. Il potere invisibile della Visualizzazione è un’efficace quanto semplice guida, un best-seller di fama mondiale fin dalla sua prima edizione che continua ad essere considerato una lettura indispensabile per tutti coloro che desiderano ottenere il meglio dalla propria vita. È il libro più famoso della scrittrice francese, successivamente trapiantata negli Stati Uniti, che è riuscito a infervorare gli animi di migliaia di studenti che, in tutto il mondo, sono rimasti affascinati dalla Scienza della Mente.

L'infinito potere che è in te
ISBN: 9788862280693

Prezzo € 7,65
invece di € 9,00 (-15%)


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lunedì 1 febbraio 2010

L'era di New Page fondata da Francesco Saverio Dodaro

Se si parla di nuove frontiere del prodotto editoriale non si può non parlare di Francesco Saverio Dodaro che ha fondato ora, e lo fa partendo da Lecce, New Page un’originale iniziativa letteraria per questo nuovo millennio. Cento parole per ogni componimento su un’unica pagina da diffondere attraverso eleganti espositori da ri/contestualizzare in casa, luoghi pubblici, appesi al muro. La “mission” di questa nuova operazione editoriale è quella di pensare ad una nuova fisiologia dei segni d’interpunzione (virgole, punti a capo, etc), tanto da poter definire la re/invenzione della disposizione testuale, della comunicazione narrativa. Impossibile non sentirla vicina a quella dei giornali, per l’uso delle maiuscole e dei capoversi. Parte, dunque dal capoluogo salentino, con il manifesto di Dodaro, la New Page, l’opportunità di cogliere il ritmo e respiro dell’autore. Il futuro è già qui.

“NEW PAGE - narrativa in store. New Page ovvero: contestualizzazione della pagina letteraria gutenberghiana. Un tracciato capace di intercettare il know-how della comunicazione, i grovigli della fruizione e le dinamiche areali: narrativa del terzo millennio. Le centopagine – le jamesiane short story –, la new wave degli anni settanta non possono più interpretare l’ora. Bisogna tradurre adeguatamente il contesto: cento parole. Centoparole, non di più, per ben ossigenare il testo, per farlo respirare nelle turbolenze della quotidianità. Centoparole e un diverso apparato pausativo. Centoparole, non sul libro, ormai sott’attacco, ma sulla pagina reinventata. New page. New page per la nuova comunicazione narrativa. Comunicazione in store. Narrativa in store. Nelle vetrine. Nelle vetrine del nostro miroir indifférent, nelle vetrine delle nostre misere esistenze e delle nostre desolazioni e delle nostre solitudini e delle nostre mancanze e delle nostre perdite e dei nostri smembramenti e dei nostri disastri matricali, e dei nostri teneri boschi, profumati d’altrove”

Francesco Saverio Dòdaro
2009/2010

Il libro del giorno: Andrea Ferreri, Ultras, I ribelli del calcio. Quarant'anni di antagonismo e passione. (Bepress)

A quarant'anni dalla storica comparsa dei primi gruppi italiani (1968), il fenomeno ultras è sottoposto ad una delle più dure repressioni della sua storia. Trasfigurato dal nuovo mondo calcio e dall'estrema rigorosità delle attuali norme antiviolenza, è oggi in crisi di identità, di valori praticamente ovunque. Questo libro racconta la
storia e le dinamiche dell'agire ultras, le influenze, le mode, le frustrazioni e tenta di tracciare lo sviluppo di un fenomeno in continua evoluzione. Infine passando in rassegna le esperienze di molti gruppi italiani e le oscure vicende che stanno attanagliando il mondo del calcio, questo libro si pone come una riflessione inside, un lavoro partecipato che analizza dall'interno le dinamiche e le espressioni di uno dei più contraddittori fenomeni riottosi contemporanei.

Andrea Ferreri, laureato in filosofia, esperto di "cultural studies", lavora da insider negli ambienti controculturali. Ha pubblicato alcuni saggi sul consumo degli stupefacenti all'interno degli ambienti giovanili e collabora con diverse riviste internazionali specializzate.

Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio (Sellerio editore). Intervento di Vito Antonio Conte

Aspettavo questo ritorno. Ché mi è sempre piaciuto il ritorno. E l'attesa del ritorno. Come quando, specialmente dall'Università immersa nelle nebbie delle lande padane, dopo un esame o uin periodo del cazzo, tornavo a casa. A volte con decisione immediata. Altre programmando il giorno del rientro. E vivendo -appunto- l'attesa. Man mano che svaniva l'Emilia e, poi, la Romagna, e si attraversavano le Marche e giù, giù, giù sino a Termoli, l'anticamera delle Puglie, il respiro diventava sempre più profondo, più largo, più lento, e l'aria trattenuta, ch'era quella della mia Terra. Poi, cominciavano gli uliveti e i vigneti e quelle distese severe e familiari, coi paesaggi finiti dai cieli sulle Murge e degli azzurri infiniti oltre il mare. Mi è sempre piaciuto il ritorno. Specialmente dopo lunghe assenze. Quel senso di appartenza evocato dai luoghi. Quella speciale intimità dettata dalle bianche costruzioni di una volta sperdute nello spazio dimenticato dal tempo. E quell'andare lento del treno senza elettricità. Che si svuotava via via che la strada ferrata s'accorciava. Mi è sempre piaciuto il ritorno. Mi è piaciuto questo ritorno. Quello di Guido Guerrieri, avvocato sui generis, anche in quest'ultima storia, nonostante l'imborghesimento apparente, se così si può dire. Mi è piaciuto moltissimo il titolo, più di quelli precedenti che, invero, già avevo amato molto. Mi è piaciuto ritrovarlo a quarantacinque anni con il corpo appena appena scalfito dal tempo e l'anima allargata da un altro tempo: quello della memoria che diventa -in qualche misura- evanescente ma -paradossalmente- più forte, affievolita e accresciuta dall'esperienza. affievolita da qualche bicchiere in più. Accresciuta dallo scherzo di qualche bicchiere in più. Affievolita dal presente intenso che oscura la percezione del futuro. Accresciuta dal passato -un passato dimenticato- che riemerge come non mai, a quell'età. Meravigliosamente incantato dalla consapevolezza che la felicità dura sempre troppo poco, ma se sai aspettarla è, nella sua provvisorietà, perfetta. Basta lasciarsi andare un po'. E vivere. Compiutamente vivere. In culo tutto il resto. Quello che ti appartiene, come tatuaggio impresso sulla pelle e oltre. E quello d'intorno, che c'è, soprattutto fuori di te c'è, per quanto possa neppure sfiorarti. “Le perfezioni provvisorie” è il ritorno dell'avvocato Guerrieri, l'ultimo libro di Gianrico Carofiglio (Sellerio Editore, pagine 336, € 14,00). Il titolo, dicevo, è significativo (oltre ch'essere un bel titolo) e riflette la vicenda (oggettiva e personale) dell'ultimo caso dell'avvocato Guido Guerrieri. Ché gli avvocati (e il mondo giudiziario in generale) non li sopporto più da un pezzo, ma Guido è l'eccezione che alimenta la speranza senza la quale nemmeno io farei più il mio lavoro... Sì, è di carta, direte, ma vi assicuro che esiste... Siccome esiste il suo Autore e non solo lui... Risulterà chiaro, a questo punto, che (pur avendo amato tutta la scrittura di Carofiglio) la saga di Guerrieri e dei suoi casi mi provoca stati d'immersione e d'emersione unici. Da questo mondo. Da quel mondo. Da questo reale, come da quello giudiziario. E credo, fermamente credo, che la scrittura (e non la poesia e/o altro) davvero può salvare il mondo. Ché, se ognuno trovasse il tempo per fermare il suo di tempo e si concedesse una buona lettura (qualunque sia) con la mente pronta a accogliere parole e storie, il vivere sarebbe un altro vivere, anch'esso più predisposto all'accogliere. In questa nuova avventura dell'avvocato Guerrieri, troviamo un nuovo studio legale, una nuova equipe, un nuovo Guido, un caso ancora più difficile da risolvere, un modo ancora più sofisticato per risolverlo, un'inezia ancora più banale che diventa risolutiva, un guardare alle cose ancora più speculare del guardarsi dentro e un arrapamento cresciuto con l'età e con l'assenza di un amore (definitivamente perduto?), sfogato in una notte di cui resterà quella sensazione di perfezione provvisoria che si può pienamente cogliere soltanto quando quella notte c'è stata e sai -per un motivo qualunque- che un'altra -come quella- non la seguirà mai. Perché, dinanzi all'unica scelta possibile (perché quella giusta), troppo spesso qualcuno -in una maniera qualsiasi- finisce per sputare sopra a tutto quel ch'è stato... Questo caso è tanto inventato quanto reale. Questo caso contiene tanto desiderio quanto trascendenza. Questo caso è talmente fantastico quanto denso di innumerevoli concretezze. Questa scrittura di Carofiglio rievoca quella dei precedenti episodi di Guerrieri, ma ha riverberi chiarissimi di “Nè qui né altrove”, la sua migliore scrittura. Chè la scrittura (con le dovute eccezioni...) migliora con le letture, con gli ascolti, con la vita, con la morte, con l'amore, con l'esperienza. In una parola, col tempo. Come il buon vino. Basta che il luogo dov'è riposto sia quello giusto. Basta conservare e custodire la purezza della scoperta. E la passione. Anzi la Passione... e altro ancora. Tutto quello che, dopo mille comparsate, dopo un incontro imprevisto, dopo la rabbia e la solitudine sferrate coi pugni sul sacco da boxeur, dopo Nadia e il suo locale all'angolo tra finitudine e infinito, dopo una scopata che non è stata come dice lei o forse sì ma per te è stata altro comunque, dopo il vecchio fallito che ti rammenta ogni fallimento, dopo altra routine, dopo ogni passeggiata nella notte, dopo il cane che non ha abbaiato quando l'hai carezzato, dopo quelli che hanno abbaiato anche se proprio non li hai cagati (o, forse, proprio per quello!?), dopo il vino del Nord (per me un ottimo Traminer... quasi come Guerrieri...) e dopo quello del Sud (Negroamaro...), dopo il mare in gommone, dopo un vecchio amico, dopo ogni verità, dopo le bugie ch'è meglio non dire anche impossibile ma almeno a se stessi mai, dopo tutto, tutto quel che -dicevo- rimane è -oltre al fatto che “il rimedio all'imprevedibilità della sorte, alla caotica incertezza del futuro è la facoltà di dare e mantenere promesse”- che, alla fine, “la notte sembrava di nuovo un luogo tranquillo e accogliente”. E bella da attraversare. Come questo libro. Come questa vita.

domenica 31 gennaio 2010

Il libro del giorno: Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto Galileo (Mondadori)

Nell'autunno del 1609, esattamente quattrocento anni fa, Galileo Galilei puntò in aria il cannocchiale e... apriti cielo! L'attonito scienziato scoprì che la Luna ha monti e valli, Venere fasi simili a quelle lunari, Giove quattro grandi satelliti che gli girano attorno, Saturno strane anomalie (i famosi anelli), che il Sole ruota su se stesso, e le costellazioni e la Via Lattea sono composte di innumerevoli stelle. Queste rivelazioni cambiarono radicalmente la sua vita e la nostra storia, inaugurando la nuova e acuta astronomia degli scienziati e scatenando le vecchie e ottuse reazioni dei teologi. Per due volte, nel 1616 e nel 1633, il Sant'Uffizio alzò la voce e Galileo abbassò la testa, dannandosi la memoria per aver salva la pelle. Ma poiché, come notava Oscar Wilde, chi dice la verità prima o poi viene scoperto, di fronte ai progressi e alle conquiste della scienza oggi possiamo felicemente affermare: "Hai vinto, Galileo!". Per evitare di cadere nello stesso errore dei denigratori, di condannare senza conoscere o conoscere senza capire, questo libro ripercorre la strada che ha portato alla vittoria dell'eliocentrismo: l'antica formulazione proposta da Aristarco e quella moderna riproposta da Copernico, la coraggiosa e tragica protodifesa intrapresa da Giordano Bruno, il sistematico sviluppo compiuto da Keplero e Galileo, le feroci persecuzioni intentate dal cardinal Bellarmino e da papa Urbano VIII, la definitiva sistemazione raggiunta da Isaac Newton, la verifica sperimentale ottenuta con il pendolo di Foucault, e la subdola riscrittura della storia attentata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E, soprattutto, ci sollecita a leggere (o rileggere) le grandi opere di Galileo (il Sidereus Nuncius, le Lettere copernicane, il Saggiatore, il Dialogo sopra i due massimi sistemi e i Discorsi sopra due nuove scienze), per scoprire che non si tratta solo di scienza. Perché, come disse Italo Calvino, che se ne intendeva, Galileo è stato "il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo".

Millôr Fernandes, 100 Fábulas Fabulosas (Editora Record). Di Adriana Maria Leaci

Para sair da rotina e do comum, eis aqui um volume muito simpático, muito inteligente, sagaz e diferente para ler sem compromisso mas, com a certeza de que, apesar da ironia que o contém, existe uma moral muito importante atrás de cada história. Isso não quer dizer que Millôr Fernandes virou um moralista, muito pelo contrário. O autor, tendo já utilizado essa mesma fórmula no passado, fluida e direta, que chega ao leitor sem segredos, sabe muito bem como a própria criatividade e o humor escavam sucessos. Cada fábula é centrada num período clássico da história geral de todos os mundos, e bem se adapta à crítica que o autor magistralmente insinua ou declara, em base ao seu propósito final. Tendo o autor ilustrado as páginas do livro de próprio punho, isso não fez outra coisa que acentuar a intenção de demonstrar, com muita clareza e espírito, que o homem, desde os tempos mais remotos, se comporta sempre da mesma forma, sem nada mudar, passando por inúmeros eventos que poderiam levá-lo à uma mudança radical do próprio ser mas, ao contrário, se reduz a repetir os mesmo erros. Neste livro Millôr dá demonstração de ser realmente um artista completo, de grande cultura, com uma filosofia de vida bem estruturada entre os alicerces da própria sabedoria. Essa filosofia lhe permite de se colocar ao serviço de quem o lê, sem supérbia e sem exibicionismo.
A sua trajetória de trabalhos passa do jornalismo à literatura com muita naturalidade. O conteúdo dos seus escritos, sempre acompanhados por alguma charge, evidencia uma característica lúdica instintiva, que não se perdeu com os anos. E’ o seu espírito excencial e o que ainda lhe dá inspiração. Não importa qual o formato, qual envólucro Millôr invente para codificar a sua criatividade. O resultado será sempre muito intrigante, como ele mesmo se define. Como o mundo inteiro o conhece.

100 Fábulas Fabulosas, Millôr Fernandes – Editora Record
Literatura Brasileira – Contos e crônicas

sabato 30 gennaio 2010

Il libro del giorno: Olga Campofreda, La confraternita di Elvis (ARPANet)

La storia di un’amicizia raccontata tra i fumi dell’alcol e il freddo della Scozia. Un tentativo di Jules e Jim che non si prende troppo sul serio e si colora di pop art, rock and roll, ingenuità ed incoscienza. Un’amicizia resa sacra nel nome di Elvis, che nasce e si fortifica in una terra lontana da casa: Marco, Paolo e Nicolle tessono i loro rapporti in un equilibrio precario sostenuto dal sogno di fare musica. È un racconto che chiama in causa la passione prima di tutto e poi l’amore, mai scontato, mai definitivo, ma sempre segretamente cercato, nell’attesa di un satori improvviso, la rivelazione di un senso che dia significato alle cose.

Tutto questo silenzio di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo (Besa) visto da Luisa Ruggio

C’è un passaggio cruciale nel nuovo romanzo di Elisabetta Liguori scritto a quattro mani con Rossano Astremo ed edito da Besa, se fosse un film sarebbe una sequenza chiave: Federica e Mirko, i protagonisti, sono a letto, nel sonno coniugale - praticamente non si parlano da un pezzo, teoricamente la loro gestualità è un monologo ventriloquo - durante il quale lei accusa un crampo alla gamba e come d’abitudine compie l’attraversamento della distanza mostruosa che separa la coppia, la coppia venuta dalle rapide di un amore poi naufragato in un’involuzione progressiva, passiva, per affidare alle mani di lui la soluzione, l’interruzione del dolore, dal momento che nonostante “Tutto questo silenzio” - come denuncia il titolo dell’opera - sa come quel polpaccio va toccato. “La tocca come a dirle: sono qui. Lei allunga la gamba verso il marito, senza girarsi. Nel solito punto. Ecco, lì. Mirko le prende il polpaccio con entrambe le mani, mentre si sistema a sedere meglio, a gambe divaricate. Il silenzio si riempie di fruscii (…) Lui tira il piede di lei verso il basso, compie alcune torsioni con la sottilissima caviglia che gli s’abbandona nelle mani (…) Alla fine sorride di stanchezza. (…) Il tempo sembra avere senso solo se si ha sonno.” Ed eccola qui la verità (vi prego, n.d.r.) sull’amore. La sterzata, la scrittura, prima ancora del mestiere e il suo raziocinio necessario. Liguori-Astremo non descrivono, cercano di dire come stanno le cose. Raccontano una storia liberandola da ciò che si potrebbe dire di essa: la decadenza di una famiglia del Sud, i sit-in di protesta, le badanti che sognano di diventare mogli, le mogli che sognano di scappare, l’adolescenza che rifiuta il cibo mentre si sovralimenta, subliminalmente, di televisione, le marchette a buon mercato per coprire il tanfo di un’intimità andata a male, il marcio di un delitto banale, la complessità del melting pot suburbano e carcerario, la perdita della bellezza, l’amore quando le parole finiscono. Raccontando tutto questo, gli autori di questa storia commovente per la sua durezza e il suo minimalismo mai prudente, non suggeriscono al lettore come si dovrebbe sentire leggendo, né quando dovrebbe emozionarsi, lo costringono ad attraversare lo specchio. Per entrare in un mondo le cui meraviglie hanno perduto smalto e sono diventate indizi del sommerso.
Ci sono riusciti miscelando le imbastiture necessarie all’organizzazione interna di un romanzo scritto da due penne profondamente diverse. Una diversità che si può rintracciare smistando le voci di tutte le letterature e la musica precedenti a questa stesura del turbamento e della sua crudele dissimulazione. La non omogeneità è il punto di forza di questa scrittura doppia, androgina e che rivela moltissimo del maschile di Elisabetta e del femminile di Rossano.
Così, partendo da ciò che i protagonisti di questa storia d’amore sono diventati durante l’attraversamento cieco della corruzione del tempo, la strana coppia Liguori-Astremo, racconta l’assurdità esistenziale - penosa, delirante - e l’unica solidarietà possibile: riconoscerci in quanto esseri umani, all’improvviso - tarda epifania del rovescio - in tutto ciò che uccidiamo.
“Ognuno uccide la cosa che ama” scrisse Wilde nel confino del carcere, dov’era finito con l’accusa di pederastia - l’amore per Bosie, Alfred Douglas, l’uomo che lo portò alla rovina - ovvero l’aver violato le regole della sua classe sociale. La dissertazione è d’obbligo se si pensa che la password di questo romanzo etico è tutta nella citazione dell’inizio, firmata Albert Camus, sfilata via, spina di pesce, da “Lo straniero“: “In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra“.
Il vero crimine, così come l’unico peccato possibile, è il difetto di sentimento.
Il backstage del romanzo è interessante almeno quanto il suo esito. E’ stato Astremo a proporre il soggetto a Liguori, da qui in poi il lavoro è sbocciato avvalendosi di un certo parallelismo condito da lunghe telefonate serali tra i due autori pugliesi che sono anche un frutto dell’utopia della scrittura ai tempi di Internet avendo dimostrato come dialogano, talvolta, le solitudini. Quelle degli scrittori specialmente. Torna il tema caro alla Liguori (che si è fatta amare con la maturità dei due romanzi “Il credito dell’imbianchino“, Argo, finalista al Carver 2005 e “Il correttore“, PeQuod), la violenza invisibile, che nuota nelle case, in quell’acquario chiamato famiglia, dove, come si legge a pagina 150: “La televisione riempie di sabbia le ore“. Oppure, ancora più forte, a pagina 138: “Tutto è acquatico, pure il rumore della tele sempre accesa nel languore domestico“. Viene in mente una versione terrestre, miserabile, di “Blade Runner“. Dopo “Corpo poetico irrisolto” (Besa) e “L’incanto delle macerie” (Icaro) Astremo, che macina da anni scrittura in rete e sui giornali, presta la sua poetica a un romanzo scritto per fotogrammi, per immagini, fratturando un po’ di generi e facendoci captare, di tanto in tanto, la musica che arriva dall’altra stanza.
Ciò che ne deriva non è solo un’analisi socio-psicologica precisa come un bisturi, netta. E’ letteratura di livello, entra negli spazi scomodi, vede quello che è complicato anche solo guardare. Questo libro riconcilia il talento con la militanza, è un sonar nel mare di carta dell’Italietta grafomane che piega l’ispirazione alle ricette del mercato editoriale. Liguori e Astremo dicono più di qualcosa, con la massima sincerità possibile, mettono il lettore in contatto con l’evidenza a tal punto ignorata da sembrare iperreale e surreale. E quella sincerità trasforma il lettore, lo scuote, lo mette in crisi. E’ molto, ed è ciò che si crede di meritare dopo l’acquisto di un libro. La ricerca dei protagonisti di questo romanzo, è nello sforzo immane di continuare a vivere nonostante “Tutto questo silenzio“, affidando quello che lo stesso Camus riteneva essere l’unico vero problema filosofico a un linguaggio credibile e sontuoso al contempo, pieno della forza comunicativa della più fragile adolescenza accanto all’autismo involontariamente lirico degli adulti.

Una famiglia apparentemente normale, di plastica (come annunciano i quattro pupazzi inquietanti della copertina) le due giovani figlie di una coppia che ha smesso di impegnarsi per far esistere il futuro. Il circuito minimo che ruota intorno a questo buco nero. E la violenza rapsodica che squarcia la routine cianotica dei Bordini, eroi del disgusto, anestetizzati da un dolore troppo grave che li vota al fallimento.
E qui, proprio nei destini dei perdenti, si tocca la mano solidale dei due scrittori che mettono la parola al servizio della vergogna della verità, consentendo il beneficio di una confessione a personaggi che altrimenti non riuscirebbero a trovare il canale di scolo della parola per essere ancora umani, continuerebbero a guardare da un’altra parte credendo di collezionare una pazienza che calcifica in chi si condanna a sopportarla. Perché non è vero che non è mai troppo tardi. Alcuni libri stanno alla letteratura come l’esclamazione disarmante del bambino di Andersen alla folla della fiaba danese che occultava l’ovvietà: “Il re è nudo!“.

venerdì 29 gennaio 2010

Annalisa Fantini, L'innocenza indecente (Il Filo) vista da Maddalena Mongiò

Generosità, spirito di gruppo, condivisione, coordinamento, velocità, sono gli ingredienti necessari a concatenare un gruppo di atleti che in staffetta devono raggiungere il traguardo: la meta. I corridori si scambiano il testimone, i nuotatori toccano la parete della vasca. L’ultimo atleta è il più veloce tra tutti. Il primo un po’ meno veloce dell’ultimo, il secondo meno veloce del primo, il terzo il più lento tra tutti. Il passaggio del testimone avviene in una zona delimitata della pista. Il primo corridore si prepara ai blocchi di partenza: le punta della dita per terra, i muscoli nervosi, il cervello che gira a trottola. Il secondo corridore aspetta che arrivi il suo momento, quel momento discusso e ridiscusso con i compagni e con l’allenatore, quel momento in cui deve cominciare a correre allungando il braccio indietro per incontrare il testimone che gli porge il compagno di squadra. A volte grida, il compagno che è dietro, grida per far stringere il palmo della mano attorno al testimone al compagno che è lì, davanti a lui, pronto a scattare per raggiungere la sua meta. E poi il traguardo, il fiato corto che ti spezza ti piega e gli occhi, colmi di lacrime: di gioia o di tristezza. Sempre lacrime, sia che abbiano vinto o perso. Così lo scrittore, quello che decide di correre, tra pagine altrimenti bianche, una staffetta di racconti che si concatenano, si tengono insieme, si passano il testimone, giungono alla meta.
Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che sottopone i suoi pensieri, la sua mente, a un duro allenamento. Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che forma la sua squadra con una scia di parole, con i tratteggi dei suoi personaggi, con i retaggi delle sue letture. Annalisa Fantini, giornalista romagnola trapiantata a Lecce, ha deciso di percorrere l’esaltante esperienza della staffetta letteraria in uno scambio virtuale che passa di racconto in racconto. “L’innocenza indecente” edizioni Il Filo, si dipana in sedici racconti: mete in cui si celebra la crudezza dell’innocenza, il femminile, l’abisso del dolore.”Ci sono donne che non conoscerò mai. Tante, invece, mi sono passate accanto, altre hanno fatto in modo, nascendo, che anche io potessi sperimentare l’avventura della vita. Ho taccuini pieni di nomi, di appunti, di date, di piccoli e grandi fatti che hanno cambiato il corso della loro esistenza e hanno plasmato il mio modo di pensare. Di loro conservo ricordi che a volte sono appena sbiaditi dal tempo, spesso vividi e ancora emozionanti per la grande forza che mi hanno trasmesso. Nel mio lavoro di giornalista ho dovuto raccontare episodi per lo più tristi, perché le protagoniste della cronaca sono in gran parte vittime di violenza anche estrema. Ho scritto di donne che hanno percorso migliaia di chilometri in cerca di salvezza, attraverso viaggi insostenibili. Ho conosciuto ragazze terribili che hanno saputo uccidere, depredare, mentire, vittime della loro stessa spavalderia e altre che hanno salvato il loro piccolo mondo. Sono donne nate più di cento anni fa, sono bambine che non hanno raggiunto l’età scolare. Vengono dall’Italia, dalla Bosnia, dal Kossovo, dall’Iraq, dalla Germania, dall’Albania, dalla Polonia.” Così, appassionatamente, Annalisi Fantini introduce la sua avventura narrativa, il testimone che corre tra storia e storia e qui si compie il miracolo o il mistero del linguaggio del cuore.

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giovedì 28 gennaio 2010

Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero (Chiarelettere)

"Quello che facevo era completamente illegale. E lo sapevo"
Giorgio Perlasca, 1992

Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano per troppo tempo dimenticato da tutti: dai fascisti (era contrario alle leggi razziali e non aveva aderito a Salò), dai democristiani (senza risposta una sua lettera a De Gasperi), dai comunisti (era di destra). E dalla Chiesa. Un uomo libero che mai rinnegò la sua storia, come racconta lui stesso in questa testimonianza inedita. Fingendosi diplomatico spagnolo, riuscì a salvare migliaia di ebrei del ghetto di Budapest. Un’avventura memorabile tutta da raccontare.

Giorgio Perlasca (31 gennaio 1910 - 15 agosto 1992) combatte prima in Etiopia e poi come volontario in Spagna con i falangisti di Franco. Per lavoro viaggia nell’Europa in guerra. A Zagabria e a Belgrado assiste ai primi massacri fatti dai nazisti. A Budapest si adopera con ogni mezzo in favore degli ebrei. Tornato in Italia, fa i mestieri più diversi (“Tutto tranne il ladro”). Ungheria, Israele, Spagna lo premiano per la sua attività, Washington lo festeggia. Finalmente, nel 1990, la tv pubblica italiana racconta la sua storia. Arrivano i primi riconoscimenti ufficiali. Ma è tardi. Muore con il rammarico di non aver ricevuto dallo Stato ciò che gli spettava. Nel 2002 la Rai manda in onda il film di Alberto Negrin: "Perlasca. Un eroe italiano", con Luca Zingaretti.
Dalbert Hallenstein, giornalista investigativo australiano, ha lavorato nel Sud-Est asiatico e in Europa, soprattutto in Italia. Ha scritto per The Melbourne Age, The Sunday Times di Londra, The European e The International Herald Tribune. È autore di diversi saggi, fra i quali "The Super Poison" con Tom Margerison e Marjorie Wallace (Macmillan, 1979) e "Doing Business in Italy" (BBC Books, 1990). Ha collaborato con Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel al libro "Berlusconi Zampano. Die Karriere eines genialen Trickspielers" (Riemann Verlag, 2006). Attualmente abita in una sperduta contrada delle colline veronesi dove coltiva olivi e suona il flauto.
Carlotta Zavattiero, giornalista e scrittrice padovana, ha lavorato per diverse testate locali come Il Corriere di Verona, L’Arena, Il Verona e come corrispondente per Radio24. Ha pubblicato "Alessandro il Macedone. Il pensiero e il cuore di Alessandro Magno" (Bonaccorso, 2005) e ha collaborato con Ferruccio Pinotti al libro "Olocausto bianco" (Bur, 2008). Vive a Verona, dove insegna italiano, greco e latino. Appassionata di lingue straniere, collabora con l’agenzia Piccolo Moresco di Madrid. Al momento sta pianificando un trasferimento
definitivo a Parigi.

Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero
Collana Reverse, Pagine 220, Euro 14


...a pagina 199“Il mio è stato un atto umanitario che
non c’entrava niente con la politica.”

...a pagina 166-167
“Non ci sono parole per lodare la tenerezza
con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati. Che Dio onnipotente possa ricompensarvi.”
Biglietto consegnato a Giorgio Perlasca dagli inquilini di una casa protetta di Budapest, maggio 1945.

Krill 01 - consumo e verità (Lupo editore)

L'immaginario e il suo indotto rappresentano il nucleo dello sforzo che Krill tenta di compiere nel suo percorso di scavo e di ricerca nelle scritture e nell'immaginale. Un monografico dedicato al rapporto tra consumo e verità, sebbene pudicamente suggerito dalle narrazioni morbide e pop della produzione non-scientifica e non-sistematica, non può prescindere comunque dal suo bagno naturale, che è e rimane l'immaginario. L'immaginario lavora, anche in questo caso, in background, come un software nascosto nel sistema operativo di ognuno di noi; anche se in maniera poco consapevole, evoca, allude, spinge alla ricerca della – propria – verità attraverso la scelta di simboli e di prodotti culturali, e, alla lunga, al loro consumo.
Brutta bestia il consumo, verrebbe da dire in tempi come questi. È chiaro che siamo sotto assedio, che è un sistema di controllo molto efficace ed estremamente pervasivo. Ed è un sistema che funziona, soprattutto. Funziona perché aggrega, perché ogni minuto conquista nuove terre e avanza con una potenza mirabile. È sotto gli occhi di tutti la spinta, e soprattutto la sentiamo tutti, la spinta. È anche vero che ogni minuto si liberano terre dal giogo del consumo, si organizzano comunità, si creano codici nuovi, si producono forme di resistenza. È vero, ma il conto è impari. Ci sono interi continenti che sono lì sulla soglia, milioni di persone pronte a lanciarsi verso i pochi varchi a disposizione e disposte e schiacciare e a farsi schiacciare pur di strappare il biglietto d’ingresso al nuovo miracolo globale. Il capitalismo sembra avere un appeal irresistibile, così come lo stile di vita e di consumi elaborato dalla cosiddetta società occidentale.
Un sintomo di questo, un simbolo tra tanti, le parabole sui balconi e sulle terrazze del centro, ma anche della periferia del pianeta. Anzi soprattutto delle periferie, a ben guardare. In fin dei conti, le parabole, protese in uguale direzione come ad ammirare un idolo invisibile, ci ricordano il flusso di rappresentazioni, visioni e messaggi che costituiscono un continuum etico ed immaginifico onnipresente. Esso ci “possiede”, non già quali semplici fruitori, ma ancor più quali membri attivi. Siamo calati in una forma di vita, quella del consumo, a cui contribuiamo ogni volta che sintonizziamo i monitor con le frequenze TV, oppure quando entriamo come gatti affamati nei nostri supermercati, o ci aggiriamo sornioni tra gli scaffali del media-store alla ricerca dell’ultimo modello di... Il consumo è una forma di vita anche e soprattutto perché siamo disposti (coscientemente o no) ad accettare l’inganno ideologico che si cela nelle merci che compriamo, l’idea di mondo che è sottesa alla réclame pubblicitaria. Quindi il consumo è innanzitutto una brutta bestia imperante e in salute. Ed è una bestia che si attacca a qualcosa che è radicato dentro di noi, che in qualche modo, ospita la bestia, le offre un riparo e la coccola anche. Perché consumare soddisfa desideri primordiali, aggrappati all’uomo fin dalla sua nascita. Colma vuoti, illumina anfratti bui, riscalda certe solitudini, soprattutto metropolitane, ma non solo. In questo numero abbiamo deciso di cercare una relazione tra il consumo e la verità, di provare a leggerne le implicazioni. In questo senso il consumo è un sistema di produzione della verità. È un modo potente di legare il soggetto a se stesso, di realizzare una vita. È per questo che funziona bene, perché promette orizzonti di gloria. Il rapporto tra consumo e verità si gioca dunque su un doppio binario: se il consumo della verità rimane il consumo di un oggetto che viene venduto e prodotto in quanto merce, allora la verità sarà sempre qualcosa di esterno rispetto al soggetto che se ne appropria e la “consuma”. Se invece la verità da oggetto-merce da consumare diventa prassi che muove la volontà di coloro che ne fanno esercizio, allora la verità può rompere il dispositivo legato al consumo che ci governa e a cui siamo consegnati nelle nostre attività quotidiane. L'esercizio etico della verità diviene il rovescio della medaglia, quel meccanismo che introduce un elemento di novità, scardinando lo stato di cose attuale in cui il consumo fa muovere il tutto, secondo le sue logiche, i suoi meccanismi e le sue merci. Per attuare una prassi che sia diversa è necessario dare voce a narrazioni che siano fuori da un dispositivo ormai consolidato: questo è l'obiettivo che ci proponiamo di portare avanti, con tutte le difficoltà che lo abitano. Krill vorrebbe essere un magma, un blob in cui i discorsi si intrecciano e dove un pugile della periferia di Napoli è parresiasta quanto un dissidente israeliano.
I contributi presenti in questo numero sono accomunati nella differenza dei linguaggi, dei registri narrativi, dei codici comunicativi da un unico filo rosso: interrogare l’attuale. Attuale come “l’adesso del nostro divenire” (Deleuze-Guattari). Le pagine che seguono rappresentano, dunque, il frutto di questi quattro mesi passati a masticare (a giocare con) i concetti di consumo e verità. I testi offrono una eco, a volte corposa e a volte molto flebile, di queste due parole. Come al solito non si trattava di saturare un tema, ma di lasciare il quesito irrisolto, provando semmai a suggerire dei percorsi possibili di svolgimento. Alcuni pezzi riflettono il tentativo, da cui eravamo partiti, di mettere in luce gli aspetti più curiosi o più grotteschi dello stile di vita che si suole definire “occidentale”, come il microcosmo della moda, o la retorica di certo etno-turismo, oppure i meccanismi perversi del marketing etc. In altri contributi viene fuori la questione della verità e del pronunciarla, quando questo può voler dire misurarsi con le menzogne di coloro che hanno in pugno un popolo, una città (poco importa se la città si chiama Gerusalemme o Taranto). Le narrazioni giocano con i paradossi legati al consumo, con le nostre ossessioni quotidiane, con le verità che ci aspettano sullo scaffale, che mettiamo in un carrello e che paghiamo alla cassa. Un discorso semi-serio percorre in modo invisibile una buona parte di questo Krill 01. È quello della sessualità, fattore vitale che ci portiamo sottopelle, e che riaffiora in modi scomposti nelle parole ipocrite sul pudore o nei gossip politici. In fin dei conti l’eros è questione capace, come poche, di mostrarci i tanti idola che si celano nei nostri discorsi e che fanno di noi “consumatori di verità”.

Hanno scritto per questo numero di Krill, tra gli altri: Louise Wallenberg, Federico Mello, Francesca Massai, Benedetta Barzini, Giso Amendola, Diego Cugia, Giuliano Foschini, Paola Aloisio, Elisabeth Bernstein.
Tra le prime date di presentazione della rivista, segnaliamo il 29 Gennaio a Matera presso la Libreria dell'Arco, il 5 Febbraio a Bologna presso la libreria Modo Infoshop e il 6 Febbraio a Ferrara presso la casa editrice la Carmelina.
La rivista (costo 10 euro) può essere acquistata presso le Manifatture Knos di Lecce, in libreria, su www.ibs.it e www.lupoeditore.it.
Info: 347.4021832, krillproject@libero.it

mercoledì 27 gennaio 2010

A single man di Tom Ford visto da Massimiliano Manieri

Ti succede di entrare in un cinema… E pagare un biglietto che t’aspetti equilibri un appetito che hai apparecchiato al tuo interno… Come ti accomodi ad un tavolo aspettandoti un certo genere di cucina, e gli ingredienti, gli odori tutt’attorno. Ed allora concedi a te stesso, al tuo palato, di liberare secchiate d’acquoline programmate sulle spezie, gli effluvi, che ti appropinqui a deglutire. Ti succede di entrare in un cinema… E non sapere a cosa vai incontro, come quelle sere in cui non hai la minima voglia di sapere cosa berrai, chi incontrerai, ne perché, ne se tornerai con i tuoi piedi in casa, o se sarà il tuo letto ad accoglierti.
Io stasera sono entrato in un cinema… E non credo d’aver visto esattamente ciò che con comodità usiamo definire film… perché aveva un’energia al suo interno differente, in toto… Dallo schermo mi arrivavano un flusso di immagini, colori, suoni, sguardi, parole, silenzi che io, in tanti anni di fedele e felice capitolazione alla 7° arte, ora non saprei trovare facilmente similitudini e termini di paragoni per dirvi qui, ora, a cosa somigli questo caleidoscopio qui descritto. Il film racconta l’elaborazione di un lutto, all’interno di una coppia, e la storia potremmo anche chiuderla qui, ma il punto è nella delicatezza con cui questa viene tracciata, nell’equilibrio chirurgico di colore usato dal regista per trascrivere anche “cromaticamente” lo stato d’animo del protagonista. Ed io mi son bloccato dietro decine di inquadrature filmicamente perfette… Nel rallenty usato come cesello nei momenti di maggiore pathos… Nei silenzi che il regista direziona come pugnalate rumorosissime dritte al petto di chiunque abbia avuto un fremito per una persona amata, cercata, e poi svanita appena ci voltavamo….Vi sono momenti di assurda ilarità scavati all’interno di ritagli tragici che qui non racconto per non anticiparvi una singola briciola di questa sinfonia per occhi e cuore. E questo piccolo trafiletto nel quale mi pregio di indicarvi un qualcosa che mi ha emozionato non intende essere un consiglio nell’indirizzarvi verso questa pellicola. Perché occorre un cuore pronto e colmo, per vedere questo film…
Un’anima sporcata dalla vita fino nel profondo….Un respiro possente, ma silenzioso, capace di auto-ascoltare ogni singolo scricchiolio circostante…
A costoro, e solo a costoro, io dico: FORSE DOVRESTE VEDERLO

Il Film - E' il 1962 e la guerra nucleare sembra imminente. La paura pervade il mondo. I valori sociali sono rappresentati in termini eccessivamente semplicistici, in bianco e nero, ma le complessità delle relazioni umane sono aggrovigliate allora come oggi. Ambientato a Los Angeles all'apice della crisi missilistica di Cuba, A SINGLE MAN narra la storia di George Falconer, un professore universitario inglese di 52 anni [Colin Firth], che fatica a trovare un senso alla propria vita dopo la morte del compagno Jim [Matthew Goode]. George vive nel passato e non riesce a vedere il suo futuro. Nell'arco di una giornata, in cui una serie di eventi e incontri lo porta a decidere se la vita dopo Jim abbia un senso oppure no, George trova conforto nella sua più cara amica, Charley [Julianne Moore], una splendida 48enne, anche lei alle prese col suo futuro. Un giovane studente di George, Kenny [Nicholas Hoult], che sta iniziando ad accettare la propria omosessualità, perseguita George e lo considera l'anima gemella...

fonte scheda http://www.comingsoon.it/

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