Volevo leggere questo libro da tempo, troppo tempo. Sono andato dalla mia amica libraria, l’ho visto messo in bella posa sullo scaffale, pagato cash, e in men che non si dica mi sono ritrovato a casa, “acciambellato” sul divano, a leggerlo, anzi a divorarlo, con tanto di faccia sospettosa della mia donna, dato il titolo obliquo, pure troppo. Alessandra Faiella è una grande in tutti i sensi e l’ho sempre seguita da “Pippo Chennedy show” a “Zelig” sino a “Mai dire domenica”: mai stato deluso da lei. E non mi delude nemmeno come narratrice con questo suo lavoro che definisco eccellente, ottimo per i “machos” in caduta libera di testosterone, che per la novelle educande che vorrebbero, ma non osano. Faiella esce con i tipi di Fazi in pompa magna, con un lavoro ammiccante e attualissimo (vi spiegherò il perché più in là) che ha per titolo “ Il lato B”. E’ la storia di una gran bella gnocca, che qualunque giovincello con un po’ di sale in zucca e grana in tasca vorrebbe incontrare, di nome Katia G. (altro che narrativa erogena), che la sua passera la dà via a destra e sinistra, con l’unico imperativo categorico (che riscriverebbe per intero la metafisica dei costumi di Kant) di fare carriera. Un susseguirsi di amplessi più o meno trascurabili (da superdotati a minus habens, a cocainomani e giù in una carrellata di tipologie umane aberranti) fino all’incontro immane con il Capo dei Capi, quello che gliela dai, lo fai divertire sino alla sincope e ti sei sistemata a vita. Alessandra Faiella è brava a ripercorrere le vicende dell’attuale “star system” televisivo abitato da infoiati palestrati e donzelle leggere come la carta velina. Ma che cattivo che sono!!! Attualità nell’analisi della Faiella che non scende mai a compromessi con se stessa e con un mondo come quello televisivo che andrebbe riscritto e riempito di senso. "Mi chiamo Katia G. e sono una che ce l'ha fatta: da semplice showgirl sono diventata la donna più ricca del paese. Per la carriera, non mi sono fermata davanti a nulla: (…). La politica è fondamentale se vuoi arrivare al top, se vuoi superare la massa di sgallettate che ti stanno attorno” . L'ascesa di Katia G., di politico in politico, è inarrestabile. Con un personaggio molto politicamente scorretto, l’autrice porta alle estreme conseguenze i comportamenti stereotipati di tante soubrette odierne e un tipo di femminilità al servizio di soldi e carriera. Un libro intimamente perfido, ma da leggere assolutamente.
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domenica 9 maggio 2010
Il libro del giorno: QUOTIDIANO DEI POETI di Antonio Leonardo Verri (Kurumuny)
Ma la figura di Antonio Verri non si circoscrive alla sola definizione di aurore. Tutte le testimonianze esaltano le sue capacità di catalizzatore, ideatore, esortatore di azioni, sconfinatore di rotte provinciali. Ora, la storia culturale universale ci insegna che movimenti, fermenti, situazioni di vera creatività nascono spesso proprio così:in fervorose azioni di gruppo, attorno a persone di tal sorta, con semi gettati nel cuore e nella terra, con stimoli lanciati dal sogno e dalla parola, con azioni brevi e intense capaci di scombussolare - anche con una risata di derisione, anche con deliri astrusi – il quieto sopore ufficiale. Figura come quelle di Antonio Verri confermano l’esistenza di un paradigma esistenziale e creativo che è valvola di sicurezza della poesia. Senza persone come loro la poesia morirebbe asfittica. Non a caso, parlando dei poeti pubblicati nella sua “babele di iniziative…, Antonio Verri, nel 1990, dichiarava: Si tratta di poeti che appartengono a una specie diversa a volte primitiva e barbara, a volte così fine, meticolosa, spigolosa. Facili a perdersi, a divorare a disperdersi. Insomma, di poeti che scuotono la sonnolenta pratica poetica. Quanto di questa vulnerabilità a perdersi e disperdersi si trova minacciata dalle difficoltà oggettive? Intervistato sulle difficoltà incontrate, Antonio Verri ammetteva: difficoltà a non finire, da non credere. Assessori che ti fanno perdere l’allegria, accademici spenti, lettori che puntualmente disertano le librerie. Di positivo c’è solo di poter operare in una terra vergine, come vecchi-giovani pionieri. Messaggio più chiaro non poteva esserci. (Toni Maraini)
Kurumuny
Mary Terror di Robert McCammon (Gargoyle's Books)
Siamo ad Atlanta nel 1989: apparentemente integrata nel flusso produttivo dei ruggenti anni Ottanta, come vice-direttrice del turno di giorno in un Burger King, Mary è, in realtà, una pluriomicida che vive da parecchi anni in clandestinità, fabbricandosi di continuo identità diverse per mimetizzarsi. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, è stata un'esponente dello Storm Front, gruppo politico terrorista di stampo eversivo, sorto con lo scopo di "combattere per la libertà dei cittadini e dei loro diritti contro lo Stato stupratore di coscienze". La donna ha partecipato a un'efferata serie di crimini conclusasi con la morte di 13 persone - la maggior parte delle quali poliziotti -, la grave menomazione di due uomini e un'adolescente, e lo sfiguramento di un agente federale. Pur essendo ricercata in tutti gli Stati Uniti, di lei si sono perse le tracce dal 1972, quando lo Storm Front è stato falcidiato dall'FBI in un'imboscata. In questi 17 anni, però - agevolata anche dall'uso di stupefacenti che la fanno vivere sospesa in un mondo interiore allucinato e stravolto - Mary non ha smesso di rimpiangere la militanza nello Storm Front, e l'amore per Jack Gardiner, capo carismatico del gruppo da cui aspettava un figlio, perso proprio a causa delle ferite riportate nell'ultimo conflitto a fuoco. Finché un giorno, leggendo un annuncio sulla rivista "Rolling Stone", Mary non si convince che i reduci del gruppo siano stati riconvocati all'azione da "Lord Jack". Stiamo parlando di una vera e propria odissea distruttiva nel cuore nero dell'America.
Mary Terror è un romanzo che non si dimentica facilmente a causa della primordialità del tema trattato: quello dell'orrore del disincantamento, della perdita di qualsiasi speranza vitalistica, e della non rassegnazione che si concreta in violenza, arrendendosi definitivamente alla follia. Né si dimentica facilmente la figura di Mary Terror, imbozzolata nelle sue tiranniche ossessioni, che l'hanno portata a tradurre i suoi ideali di uguaglianza e giustizia sociale in crudeli pratiche terroristiche, è un'amazzone disperata che suscita orrore e pena nel contempo. Con una prosa incendiaria, una caratterizzazione intensamente efficace di personaggi e ambienti, un ricorso sapientemente centellinato a un horror visionario e psichedelico, McCammon ci consegna un'opera straordinaria dove la percezione di ciò che stiamo leggendo muta di pagina in pagina in maniera vertiginosa - thriller psicologico, dramma civile, brutale amarcord on the road, fiction politica -, parallelamente ai registri stilistici che vanno dalla suspense adrenalinica, al flusso di coscienza, dal grottesco all'elegia.
Nato a Birmingham (Alabama) nel 1952, Robert McCammon è uno dei massimi autori horror statunitensi, vincitore più volte del Bram Stoker Award. Ha pubblicato numerosi racconti brevi e 13 romanzi, tra questi Baal (1978), Loro attendono (1980), Hanno sete (1981, Gargoyle 2005, Mondadori 2008),
sabato 8 maggio 2010
Il libro del giorno: Dove gli uomini diventano eroi di Jon Krakauer (Corbaccio)
Le donne di Tunisi di Alessandra Bianco
Coltivano il sogno di diventare un esempio per tutto il mondo arabo e per questo sono attivissime nella vita politica del loro paese. “Essere deputato significa essere tunisina” ci ha detto Ben Hassine Zeineb deputato alla camera per il partito costituzionale democratico al lavoro insieme a tutto il governo per ottenere quelle numerose, piccole e grandi conquiste in ambito educativo, sanitario, sociale, economico, culturale e sportivo che hanno già reso il paese del Nord Africa tra i più occidentalizzati, ma che auspicano a diventare sempre di più.
Moderazione, tolleranza, uguaglianza sono le carte vincenti di una nazione in cui le donne costituiscono un terzo dei docenti universitari, più del 50% degli studenti, più di un quarto dei giudici e una forte presenza in Parlamento.
Abir Moussy, sottosegretario del partito costituzionale democratico si occupa di donne da sempre, nonostante non abbia nemmeno 40 anni. Spiega che “dal 1956, da quando venne abolita e punita la poligamia, ai mariti fu impedito il divorzio unilaterale ed attribuite alle donne più diritti di custodia dei figli, tutto è cambiato e sono venute meno quelle forti discrepanze tra uomo e donna”.
Il resto lo ha fatto il presidente Zin el Abidin Ben Ali. E’ sua la volontà politica di creare prestigio intorno alla figura della donna tunisina. Un approccio modernista ed una visione riformatrice globale e profonda, hanno permesso di perfezionare l’uguaglianza nei diritti tra i due sessi e confermato per la donna la posizione di partner che agisce indistintamente in tutti i campi della vita.
Le norme giuridiche realizzate in favore delle donne si sviluppano così, attorno ad un sistema legislativo avanguardista che si basa su dei principi immutabili. Tra questi, il riconoscimento delle donne in quanto parte integrante del sistema dei diritti dell’uomo, la soppressione del diritto di obbedienza della sposa al proprio marito e la sostituzione ad esso del principio di uguaglianza nell’educazione dei figli e nella gestione degli affari familiari.
Un cambiamento in qualità, insomma, che si basa su una convinzione radicale del Presidente tunisino non potrà mai esserci alcun progresso né modernizzazione senza la partecipazione attiva della donna, simbolo di sapere, creatività, competenza e maturità, motivo di fierezza per la società e un faro luminoso per le generazioni future.
in foto Abir Moussy
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venerdì 7 maggio 2010
Il libro del giorno: Critica delle nuove schiavitù di Yves Charles Zarka e Gli Inattuali (Pensa Multimedia)
politica).
Non piangere coglione di Amedeo Romeo (Isbn)
Non è un romanzo come gli altri. Ci posso mettere la mano sul fuoco … e non bruciarmela. Primo elemento che lo fa saltare fuori dal “mucchio editoriale selvaggio italiano” dei nostri ultimi tempi, è una certa malsana passione per un’ossessione autolesionistica del protagonista incapace di accettarsi e di accettare l’altro. Cattiveria allo stato puro! Il cortocircuito letale per Andrea Morini (il coglione…forse) è l’incontro con Lena, alla trentasettesima settimana di gravidanza, che aspetta un bambino da un uomo che la sta per lasciare. Lena, è uno splendido esempio di come il disequilibrio apparente dato da una variabile x nell’esistenza magari di ognuno di noi (cioè lei – in questo caso - nella vita di Andrea) si trasformi in una costante, in una vera e propria ancora di salvezza.
Si avvicina il momento del parto. Morini vorrebbe mettere lui alla luce Ada, in un processo di simbiontizzazione con la gravidanza di Lena, in un turbinio di esplosioni emozionali che simultaneamente e su due piani ontologici annichiliscono il lettore e distruggono la mente e il corpo del protagonista. Amedeo Romeo racconta fondamentalmente una vicenda tristemente umana e in bilico tra tragedia e folle leggerezza. Un risultato più che brillante visto che si tratta di un romanzo d'esordio. Il suo "Non piangere coglione" (ricordiamoci per dovere di cronaca musical-letteraria "Una faccia in prestito" di Paolo Conte), è un lavoro che minimo ti sta anche dando delle dritte su come gestirti le varie cose nella vita, e spingendoti magari a chiederti in maniera soliloquiale“… chi sei, cosa vuoi, e che ci fai nel posto dove ti trovi ora” … domande esistenziali fondamentali? Certamente e della peggior specie, ovvero di quelle che ti sbattono in faccia i tuoi lati più neri, le tue peggiori perversioni, le tue paure, i tuoi desideri da tenere ben nascosti nell’armadio, insieme magari a quei sogni che non vorresti mai si realizzassero.
L'incipit di questo romanzo è eccitante, coraggioso e contagioso. Perde qualche colpo nelle pagine centrali perché ormai alla pazzia di Morini uno ci fa il callo, e dunque la tensione s’ammoscia inevitabilmente. Ci vuole a questo punto un colpo di classe … e qui Amedeo Romeo “al 90°” ce la fa, e ti spiazza con una conclusione potentissima, degna di un ko. "Non piangere coglione" è il canto di una ritrovata verve per la zoppicante letteratura italiana post-Anni Zero che finalmente trova il suo cantore.
giovedì 6 maggio 2010
Il libro del giorno: Dicembre è un mese crudele di Elizabeth George (Longanesi)
Ed io parlo, scrivo e fumo di Giovanni Bernardini (Lupo editore). Intervento di Luciano Pagano
Dopo una attesa ragionevole viene pubblicato – per i tipi di Lupo Editore nella collana Topkapi – “Ed io parlo, scrivo e fumo“, di Giovanni Bernardini, raccolta tesa tra il genere memoriale e l’autobiografia per diari, scritti per oltre cinquanta anni dallo scrittore pescarese naturalizzato salentino. Come è scritto nella prefazione, della quale è autore Stefano Donno (curatore del volume) “Bernardini non è uno scrittore periferico, come lui stesso in più di qualche occasione tende ostinatamente ad affermare, proprio perché questa sua ‘modestia’ contrasta con una qualità di stile che solo un vero scrittore e non un semplice mestierante, è in grado di mettere nero su bianco”. Ce ne accorgiamo scorrendo le pagine nelle quali la biografia e i fatti della vita quotidiana si intrecciano alle vicende e ai personaggi letterari, senza risparmiare nessuno né risparmiandosi, con quel cinismo che a volte resta l’unica lente ottimale per osservare il mondo senza esserne troppo disgustati, proprio in virtù del grande sentimento che ci lega, volenti o nolenti, ai nostri contemporanei. Un pensiero di Bernardini, scritto il 15 maggio del 1996, recita “Una persona non mediocre in un ambiente di mediocri è irrimediabilmente condannata alla solitudine”.La lucidità e la critica di Bernardini – sociale e soprattutto politica – investono chi ci mal-governa e mettono a nudo chi si fa governare senza sviluppare un pensiero critico. Ciò che resta dalla lettura di questo libro è senza dubbio una testimonianza rilevantissima di un pezzo di storia del nostro paese, dal 1952 ai giorni nostri; se è vero, come scrive l’autore in un frammento datato 12 dicembre 2008, che “nessun libro pubblicato può restaurare la vita d’un vecchio. Può concedere solo un momento d’illusione, una fugacissima gioia”, è anche vero che la raccolta dei diari di uno dei nostri intellettuali più importanti, non potrà che aiutarci a restituire a noi stessi un’immagine di quello che è stato il secolo scorso, senza ipocrisia. Interrogare questo libro ci sarà utile, quindi, a interrogarci e recuperare quelle memorie storiche, flash, ricordi, presi da un tempo che altrimenti rischiamo di smarrire per sempre.
Giovanni Bernardini, originario di Pescara si stabilisce nel Salento dove vive tuttora. Ha collaborato come pubblicista a riviste e periodici. Ha scritto racconti, romanzi, testi giornalistici e poesie che hanno riscosso il favore dei lettori e per i quali ha vinto vari premi. Bernardini è stato maestro per generazioni di studenti nei licei leccesi. Impegnato socialmente e politicamente, ha ricoperto anche, tra il 1992 e il 1993, la carica di Sindaco del comune dove vive (Monteroni di Lecce).
mercoledì 5 maggio 2010
Il libro del giorno: La vendetta di Siviglia di Matilde Asensi (Rizzoli)
La libertà sprituale di Michael Beckwith (Bis edizioni)
Sono convinto che oggi, ai nostri tempi, nella nostra società con tutte le contraddizioni che la agitano, sia quanto mai necessario cercare di stabilire una serie di punti fermi che consentano di orientarsi anche nelle tenebre più fitte. E la risposta migliore ad un senso di disagio che si fa sempre più presente e consistente, la si può trovare lasciando parlare il cuore. Certo, il sentiero che il cuore sovente vuole intraprendere confligge con gli orizzonti di produttività e razionalità che il sociale impone come target vitali ineludibili, stride con quell’anelito all’infinito e alla libertà che il cuore sente di voler costruire per tutti noi, ma che in realtà impatta purtroppo con un vero e proprio muro di gomma. In un’unica battuta potremmo dire che si tratti di una barriera fatta da tutte quelle sovrastrutture che si auto-alimentano per mantenere in vita il mondo. Dunque quello che necessita ad ogni “animale sociale” (noi ancora lo siamo), e con una certa urgenza, è la possibilità di realizzare una libertà spirituale che permetta di oltrepassare gli angusti confini della paura, del timore, delle incertezze, delle preoccupazioni, e del latente senso di mancanza che non ci fa vivere una vita piena e realizzante. La libertà spirituale di cui parla Michael Beckwith è la chiave di volta che ci insegnerà a rompere le catene che affliggono la nostra vita e a effettuare un vero e proprio salto di paradigma, per destrutturare quegli schemi della nostra mente che ci impediscono di essere lucidi, e consapevoli. Ed ecco che attraverso una serie di pratici consigli che l’autore fornisce pagina dopo pagina in questo suo lavoro, si perverrà ad una scoperta incredibile, ovvero una sorta di rivelazione che alimenterà il fuoco del cambiamento, ci permetterà di vederci in un nuovo modo, ci consentirà di vivere giorno dopo giorno con la consapevolezza che ad ogni notte seguirà sempre un nuovo giorno, e che ci saranno sempre frammenti di gioia e proposizionalità che permetteranno di costruire la propria personale destinalità. L’obiettivo finale è una sorta di illuminazione laica, un risveglio di tutte le potenzialità del soggetto che permetteranno di riprendersi il posto che spetta a ciascuno di noi nell’Universo. Beckwith parla con cognizione di causa di coscienza cristica, di rivelazione, illuminazione. E lo fa con un approccio olistico per niente approssimativo o confusionale. Un libro assolutamente da non perdere per tutti coloro che amano scoprire cosa di nuovo si agita nel pensiero contemporaneo. Prima di concludere mi sembra doveroso spendere due parole sull’autore.
Michael Beckwith si occupa di crescita personale e spirituale. E' nato nel 1956, e sebbene sia l'autore più spirituale di The Secret, la sua prima esperienza in campo religioso non è stata positiva visto che all’età di 16 anni ha lasciato la chiesa Metodista. Negli anni ’70 ha iniziato una ricerca negli insegnamenti orientali e occidentali ed oggi insegna princìpi universali di verità che hanno radici nella tradizione di spiritualità dell’antica saggezza.
Nel
martedì 4 maggio 2010
Il libro del giorno: Templari, dov'è il tesoro? di Roberto Giacobbo (Mondadori)
Angeli a pezzi di Dan Fante (Marcos y Marcos). Intervento di Vito Antonio Conte
Torno a dire di libri, dopo un po' d'assenza. Ho avuto altro da fare che scrivere recensioni. Intanto, tra tutto quell'altro, solita refrattarietà compresa, ho letto qualche libro. Quello di cui voglio parlare ora è “Angeli a pezzi” di Dan Fante (Marcos y Marcos edizioni, Collana MiniMarcos, pagine 271, € 10,00), letto per curiosità, stante la circostanza che l'Autore è figlio dell'immenso John Fante, del quale ho divorato quasi tutto quel che ha pubblicato in Italia. Del quale già (poco...) ho scritto. Incontrare figli di padri (o di madri) “importanti” nel mondo dell'arte (in generale, e della letteratura in particolare), traverso l'attività nella quale si cimentano e che già era stata del loro genitore, è sempre un fatto che nasconde insidie. È di per sé rischioso voler scrivere se il proprio padre (o la propria madre) scriveva. Se poi il genitore è stato uno dei più grandi del Novecento, la faccenda diventa ancor più complicata. Voglio dire che -sempre, almeno all'inizio- il giudizio dei lettori -quale io sono- (per non parlare dei critici, alla cui categoria mi pregio di non appartenere) deve superare qualche pregiudizio... e altro. E allora non resta che leggere. Nell'aletta della prima di copertina del libro in parola è -tra l'altro- scritto: “Un romanzo più bukowskiano di Bukowschi”. Non scherziamo! Non so chi l'abbia scritto, ma -per quel che ho letto- mi sembra un'emerita stronzata. Poi, sull'altra aletta (della quarta di copertina) leggo: “I suoi romanzi sono ballate di amore e di morte, come lo erano quelli di Bukowschi e come lo sono stati quelli di suo padre”. Il giudizio è di Fernanda Pivano (tratto dal Corriere della Sera). Ora, con tutto il rispetto e la stima per Fernanda Pivano e per quanto di meritorio ha fatto per la divulgazione della letteratura (soprattutto per gli scrittori della Beat Generation...) in Italia e con la personale diffidenza di cui sopra, il paragone mi sembra davvero esagerato. E quel che dico vale evidentemente per quella minima conoscenza che ho di Dan Fante, limitata alla lettura -appunto- di “Angeli a pezzi”. Un romanzo pulp, all'apparenza molto autobiografico, scritto in prima persona, il cui incipit pretenzioso (“Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose”) appare essere mera trovata letteraria in quanto il seguito della narrazione non mantiene la promessa iniziale. Quanto meno, non la rispetta sino in fondo. Le vicende del libro sono note per chi conosce la vita di John Fante e, in particolare, i suoi ultimi anni e sa cosa restava (fisicamente) di lui. Ridotto pressoché a un tronco umano, ormai cieco, alle prese con cure di nessun effetto e con la nolontà di morire, nonostante tutto. Anche i suoi rapporti con la moglie e con i figli (compreso Dan) sono noti. La “novità” che questo libro dà è la versione di Dan Fante del suo rapporto col padre. Non mi è piaciuto per niente il dare nomi diversi da quelli reali ai personaggi realmente esistiti, riconoscibilissimi nel libro e proprio per questo m'è sembrata veramente ultronea tale scelta. Ma trattasi di romanzo e tant'è. M'è piaciuta di più la narrazione e il linguaggio utilizzato dall'Autore: la prima semplice e efficace, che rende scorrevole il romanzo, intrigando il lettore; il secondo molto concreto, decisamente vicino all'oralità del racconto che consente di vivere le scene evocate dalle parole come fosse un film, senza per questo intendendo dire che la scrittura è vicina alla forma della sceneggiatura. Tali caratteristiche sono quelle che più avvicinano la scrittura di Dan Fante a quella dei su citati John Fante e Charles Bukowski, senza però contenerne la forza, la poesia, l'immediatezza, la potenza, l'aspetto eversivo che -nella letteratura- hanno avuto (soltanto per citare un paio di titoli) “Chiedi alla polvere” di John e “L'amore è un cane che viene dall'inferno” di Hanks. Lo stile è quello, ma proprio per questo la scrittura di Dan Fante sembra più quella di un epigono che quella di uno scrittore che smuove qualcosa nel dejà vu del genere. “Sapevo che se non bevevo, avrei potuto scrivere di nuovo.”, dice Dan Fante nellultima pagina del romanzo, dopo aver creato qualcosa di buono. Ma, come per quasi tutte le cose, la risposta la darà il Tempo. Per quel che potrò, mi terrò informato. Sperando che oltre a scrivere di nuovo, Dan Fante scriva anche qualcosa di nuovo.
domenica 2 maggio 2010
Il libro del giorno: Sopravvivere alla crisi di Jacques Attali (Fazi)
Il buon ladro di Hannah Tinti (Einaudi)
New England. Metà del XIX secolo. Ren orfano in una comunità di protestanti alla “veneranda” età di undici anni, aspetta che qualcuno lo adotti, nella speranza di poter evitare l’arruolamento coatto nell'esercito. Il ragazzino scopre nel frattempo di avere un talento innato che lo rende diverso e per certi aspetti speciale rispetto agli altri coetanei: una spiccata abilità per il furto. Quando un uomo che sostiene di essere il fratello, tal Benjamin Nab, si presenta al convento di Saint Anthony dove Ren aveva trovato dimora e una certa stabilità, reclamandolo dunque in qualità di parente più stretto, ecco che per questo giovane “Lupin” cominceranno una serie di peripezie singolari, stravolgenti, avvincenti che lo metteranno sempre e comunque nelle condizioni di mettere a frutto il suo "dono".
A questo si aggiunga che le circostanze in cui Ren potrà dare il meglio di sé sono il frutto della scaltra architettura “scenica” messa in moto da Benjamin, e dallo sgangherato Tom. Una serie di piccole rappresentazioni teatrali come nella migliore tradizione western, piene zeppe di pozioni miracolose, esibizioni maldestre giusto adatte a prendersi gioco dei più gonzi, fino all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per qualche “dollaro” in più. In una di queste squallide sortite Ren conoscerà il mastodontico Dolly, assassino letteralmente ritornato dall’aldilà. Insomma una piccola truppa di squinternati che aiuteranno il ragazzino ad andare incontro al suo destino nella città di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi dello spietato contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi. Libro splendido questo di Hannah Tinti, dal titolo “Il buon ladro” edito da Einaudi, che va oltre un Charles Dickens o un Mark Twain, vuoi per eleganza che per contenuti. Che sia stato in madrepatria (negli U.S.A.) considerato nel 2008 uno dei libri più stuzzicanti o che sia stato pluripremiato potrebbe essere un incentivo in più per comprarlo. Ma vi dico che in questo caso, basta leggerlo, gustarlo, e il sogno sarà a vostra portata.
Il libro del giorno: Glister di John Burnside (Fazi editore)
Azzeccare i cavalli vincenti di Charles Bukowski (Feltrinelli). Intervento di Vito Antonio Conte
“Azzeccare i cavalli vincenti” è l'ultimo titolo degli sterminati scritti di Charles Bukowski, uscito nel novembre dello scorso anno per i tipi di Feltrinelli Edizioni nella Collana “Canguri”. Si tratta di trentasei “pezzi” pubblicati (Buk vivente) su riviste, fanzine e giornali underground (tra cui “Portfolio”, “Story”, “L.A. Free Press”, “Open City”, High Times”, “Small Press Review”, dal 1946 al 1994) e ora ottimamente raccolti da David Stephen Calonne, curatore del libro. Del Bukowski poeta e scrittore in prosa questi “pezzi” hanno lo stile e il linguaggio, riconoscibilissimi, ché la scrittura di Hank è inconfondibile tanto è unica. Il pregio di questo libro è che, traverso gli inediti che contiene, rivela qualcosa in più (semmai occorresse) sulla versatilità creativa della incalcolabile opera bukowskiana, così vasta che -allo stato- non esiste una bibliografia completa di tutti i lavori di Bukowski. In questa raccolta si possono leggere racconti brevi, recensioni a libri di altri autori, brevi saggi e veri e propri manifesti sulla sua poesia. Tutti e trentasei i “pezzi” sono altrettanti piccoli capolavori e dopo le duecentosessantanove potentissime pagine del libro la sensazione più evidente (OLTRE TUTTO... CH'È MOLTO ALTRO...) è quella di piena soddisfazione per i diciassette € spesi (CHE IN QUESTI TEMPI DI CARENZE NON È POCO!), in uno al fatto di sapere che di Hank c'è ancora tanta scrittura inedita... Per quanto dopo questa premessa possa sembrare inutile esercizio segnalare qualche “pezzo” in particolare, meritano una nota a parte quello che dà il titolo al libro, “AZZECCARE I CAVALLI VINCENTI (Come vincere all'ippodromo o almeno come riprendersi i propri soldi)”, nonché “IN DIFESA DI UN CERTO TIPO DI POESIA, DI UN CERTO TIPO DI ESISTENZA, DI UN CERTO TIPO DI CREATURA FATTA DI CARNE E OSSA E SANGUE CHE UN GIORNO MORIRA'” e “INCONTRO IL MAESTRO” . Nel primo c'è il Bukowski delle corse di cavalli, a suo perfetto agio nell'ambiente dell'ippodromo con tutti i personaggi che lo frequentano (e che lui ignora osservandoli), che tanta sua scrittura ha ispirato.
Qui c'è il tentativo di dare delle regole all'azzardo, ché non sia -puntare su un cavallo-l'ennesimo modo per farsi fottere (dal gioco come dalla morte). "In difesa di un certo tipo di poesia...” è uno scritto che sembra un manifesto del comecazzovannolecoseporcodiooggigiorno, tanto è attuale nella sua causticità.
Il tema è quello più caro a Buk: vivere fuori da qualsiasi omologazione, seguendo il proprio istinto, le proprie passioni, il proprio pensiero. Cito stralci: “Abbiamo avuto alcuni buoni insegnanti nelle Arti. E alcuni scadenti. Ma nella storia delle nazioni tutti i leader dei secoli passati, i nostri leader politici, sono stati cattivi insegnanti e ci hanno condotto all'odierno vicolo quasi cieco. I nostri capi di stato evidentemente sono stati malvagi, ottusi e stupidi... perché per governare il popolo morto i nostri cosiddetti leader hanno dovuto pronunciare parole morte e predicare azioni morte (e la guerra è una di queste) per essere capiti da menti morte. La storia... non ci ha lasciato nulla se non sangue e tortura e rovina -perfino ora dopo quasi duemila anni di cultura semicristiana le strade sono piene di ubriachi e di poveri e di morti di fame e di assassini e di polizia e di invalidi solitari, e quelli che nascono oggi vengono schiaffati in mezzo a tutta questa merda-
sabato 1 maggio 2010
Il libro del giorno: Caino di Josè Saramago (Feltrinelli)
Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio (Sellerio). Intervento di Elisabetta Liguori
E’ tornato in libreria: GiGi. È così che la monella di turno dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio appella confidenzialmente il protagonista della vicenda, evocandone le sole iniziali: Guido Guerrieri, avvocato un po’ eroe, un po’ genio, un po’ cialtrone, al quale lo scrittore sta progressivamente abituandoci.
L’abitudine non è un dettaglio in questo romanzo.
Per quanto la Bari che Carofiglio racconta sia una città nuova, post moderna, persa tra storiche desolazioni e risorse rinnovate, è l’abitudine agrodolce a certi antichi vizi a farla da padrone. L’avidità, l’indolenza, la debolezza, l’insuccesso, la crudeltà. Siamo di fronte ad una vicenda fatta essenzialmente dai personaggi e dalle loro abitudini. Una passerella di prototipi antropologici, sintetizzati abilmente, con rapidi quanto efficaci tocchi, da una penna oramai consapevole. Il plot è semplice. Una ragazza sparisce nel nulla dopo un fine settimana trascorso con gli amici. Il caso tristemente irrisolto - inutile anche il passaggio a Chi l'ha visto? - sta per essere archiviato, ragion per cui i genitori della ragazza si recano da Guerrieri e lo pregano di tentare di individuare nuovi filoni d’indagine. Con qualche tentennamento Guerrieri accetta e comincia la caccia, mentre lungo il suo cammino investigativo si dipana un piccolo mondo. Il fallito, il truffatore, il poliziotto nobile, il padre distrutto, il collega invidioso, la perversa, il cinico, la bestia fedele. Ma il vertice della galleria è rappresentato senza dubbio da Nadia, bellezza provvisoria e vera.
Una escort d’invenzione letteraria che ha riscattato la propria libertà col mercimonio.
Animata rappresentazione del desiderio e specchio sociale di scottante attualità: è in questo profilo che l’ultimo Carofiglio dà il meglio di sé. Nell’economia di una trama che non brilla per originalità, Nadia rappresenta un guizzo dotato di autentica forza narrativa. È proprio lei ad offrire l’occasione giusta per l’intuizione che porterà alla soluzione del caso. L’intuizione dell’assenza, l’improvviso avvertimento del contrario e della mancanza, con i quali molti di noi fanno i conti di continuo, in un dichiarato richiamo a Conan Doyle. Nadia e il suo omopub, il Chelsea Hotel n.2, circoscrivono la No man’s land in cui Guerrieri si muove, meglio delle altre citazioni musicali e letterarie, delle quali il romanzo gronda. S’accendono e si spengono nella notte della narrazione come insegne a neon, facendo da contrappunto ai ricordi del passato e ai tic nei quali l’avvocato si smarrisce. Ma lo scrittore seriale è spesso animale abitudinario, rischia col tempo di finire ad imitare solo se stesso. Come un serial killer si piace a volte più del necessario. Per quanto la maestria narrativa di Gianrico Carofiglio sia oggi indiscutibile (il ritmo della storia sempre e comunque riesce ad avvincere il lettore in una sorta di estatica allegria) è proprio il titolo di questo romanzo a doverci mettere in allarme. La perfezione non dura. La perfezione come la bellezza sorprende. È il frammento rubato di una mutazione costante, ragion per cui alla perfezione non ci si può abituare. L’avvocato Guerrieri ritrova di rado quella perfezione, poiché, forse troppo preso dalla piacioneria, dalla vanità, dalle abitudini, sembra aver smesso di cercarla veramente.
venerdì 30 aprile 2010
Il libro del giorno: Un colpo di vento di Ferdinand Von Schirach (Longanesi)
Dalla sua posizione privilegiata di avvocato penalista, l’autore osserva quotidianamente gli orrori e le violenze della vita di tutti i giorni. Spacciatori, prostitute, skinhead, ma anche famiglie aristocratiche, ricchi uomini d’affari e insospettabili guardiani di museo diventano così i protagonisti di vicende semplicemente inspiegabili dalla ragione.
L’avvocato von Schirach rivela un eccezionale talento narrativo: entrando in punta di piedi nelle vicende che racconta, riesce a mostrarcele sotto una nuova luce, invitandoci a rivedere i pregiudizi sui criminali e sulle cause delle loro azioni, e a riflettere sul labile confine fra il bene e il male.
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