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domenica 12 ottobre 2008

Estratto da Il paese delle spose infelici di Mario Desiati (Mondadori 2008)

Ho avuto parte della mia infanzia e adolescenza sterminata dal disagio, uncini metallici che hanno forato l’anima delle sue espressioni più vive. L’eroina aveva sterminato i nostri fratelli maggiori. I residui di quella generazione giravano abbruttiti tra un centro polivalente e l’altro. Avevano il cervello bruciato, le facce erano scavate con i tratti smussati dalla tossicodipendenza. Venivano chiamati metallari perché come i componenti di quei gruppi hard andavano vestiti di scuro e portavano in faccia un colore esangue (ma non era cipria, era il vuoto dei loro globuli rossi). Tuttavia gli sbagli di quei fratelli maggiori non erano esemplari. Della mia adolescenza ricordo questa costellazione di amicizie, problematiche, tremende, autodistruttive. La mia famiglia bella e perbene non capiva le ragioni per cui annegassi in quei gruppi disadattati. Non capiva perché rifiutavo le piscine, i corsi di inglese in America o in Inghilterra, le scuole salesiane, i miei coetanei di bella famiglia, i pomeriggi con i rotariani e i lions. Non capivano perché ero sempre sulla strada o a Pezza Mammarella a farmi insultare e malmenare da un pallone sbucciato. Non capivano che per me l’Esperia e le sue decine di storie intrecciate erano la mia vita, sin dal primo momento in cui avevo iniziato a viverle.Non capivano perché Daniele, il figlio del grande avvocato che stava percorrendo la strada paterna, fosse per me un nemico mortale e non un luminoso esempio o più semplicemente un amico.

fonte www.vertigine.wordpress.com
diretta da Rossano Astremo

mercoledì 8 ottobre 2008

Scripta

















"Scripta" dei modi dello scrivere e del dire poesia


Rassegna breve di scritture, voci, espressioni che dal 15 ottobre 2008, al 14 gennaio 2009 sarà ospitata dalla Biblioteca Provinciale "N. BERNARDINI" di Lecce





Con: Margherita Macrì, Biagio Lieti, Antonio Natile, Irene Leo, Massimiliano Manieri, Nicola Verderame, Gianni Minerva, Marthia Carrozzo




SCRIPTA è ciò che è scritto, o che, chissà, come dimostreremo, può rendersi tangibile anche nella voce, aprendo a nuove possibilità del dire poesia, non più relegato tra le pagine rilegate, non più costretta in caratteri tipografici, ma libera di svincolarsi per essere nell'inconsistenza dell'ascolto che la riceve.
Nostro filo di raccordo sarà poi, per questa prima edizione, il Corpo:
corpo dello scrivere e del dire, corpo che fa scrivere; attraverso cui veicolare voci, espressioni; corpo con cui afferrare e fermare allora nei versi il sentire di ciascuno. Scritti sul corpo, o per il corpo, versi dei poeti qui proposti, proveranno ad intessere un dialogo forte e attento con l'ascolto, andando a rivitalizzare il vecchio corpo polveroso di questo luogo, il corpo storico che ci accoglierà negli interstizi sottili delle sue memorie, facendolo poi riverberare e pulsare attraverso ciò che parte dalla pagina e dalla pagina si diparte, chiaro input ad una nuova coscienza del dire poetico dei nostri giorni.

Direzione artistica di Marthia Carrozzo

sabato 27 settembre 2008

Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere d’astuzia e di birra (Fidenza, 2008) di Nunzio Festa

Quella che si direbbe una monumentale biografia. Ma che invece d’istallare un monumento ci restituisce la vita d’un grande poeta. Il gallese Dylan Thomas – quello che si scoprirà persino col nome che omaggia il mare - , quel poeta di grazia e disgrazia, di follia (irriverenza, soprattutto) e qualche piccola potente solitudine, è raccontato dal giornalista e romanziere Ferris. L’opera importantissima, appunto, è frutto del lavoro d’un Paul Ferris anch’egli nato a Swansea, città che vide nascere pure il fosforescente astro D. Thomas. La sconvolgente vita di Thomas, che campò sino alla semplice età di 39 anni, è imbottita d’alcol e debiti. Costituita da arte e fama. Contornata di tormenti, e afflizioni. Eppure sempre scandita dal cammino dei versi. La prova che il poeta era in vita, addirittura, era fatta proprio dallo scoppio dei versi. Ferris apre pagine di vita e conduce nelle tante relazioni del poeta. Grazie alla scorrevolezza della biografia, ovviamente, si riesce ad arrivare meglio nel fiato umano. Si sente un lamento. E si vedono le avventure quotidiane d’un uomo bravo e cattivo a giocare con la birra e il denaro. Anche spiacendosene, a volte. Che il poeta vuole la natura e sente la natura, ma si trova perfettamente a suo agio nei salotti accoglienti del lusso. “Nel pieno di una reading – scrive tra le altre cose Serino, in sede di passo introduttivo - davanti ad una platea universitaria, era capace di mettersi a carponi e di emettere suoni animaleschi finché qualcuno non lo accarezzava sulla testa. Allora si acquietava. Come un cane. Oppure iniziava a mordere i presenti o ad aver un comportamento talmente spietato e cinico che faceva scomparire la normalità sbriciolandola. Quando i critici commentavano le sue poesie davanti a lui, invece, si gettava per terra ed iniziava a contorcersi come un indemoniato”. Qui era teatro puro. Allo stesso tempo in quegli spazi temporali era la sua poesia. La moglie non fu propriamente felice della vita con lui, lasciata sola in un pezzettino provincialotto di Galles. Caitlin, fortunatamente per lei, comunque riusciva a non farsi fregare dalla desolazione. Con questa biografia si riesca a scendere e salire in tanti aspetti d’una vita umana e si deve sempre tener presente che si entra nelle stanze d’un poeta a dir poco eccentrico. Siamo nella camera d’un poeta pazzesco. In tanti casi. Dylan Thomas fu menefreghismo spicciolo, occorre aggiungere. La spietatezza che fu era ricambiata da goccioline di spietatezza che la vita reale riusciva ad assicurargli. Il verso è libero, come libero sarà per centinaia d’anni ancora di volteggiare nei tempi.




Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere d’astuzia e di birra, di Paul Ferris, a cura di Cecilia Mutti, traduzione di Francesca Pratesi, prefazione di Gian Paolo Serino, appendice con due poesie inedite (Fidenza, 2008), pag. 520, euro 20,00.

mercoledì 24 settembre 2008

Domenico Protino e La Guerra dei trent'anni







DOMENICO PROTINO e “LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”

Domenico Protino nasce a Torre Santa Susanna. Sin da giovanissimo si appassiona alla musica e al suo mondo.. Il 2000 per lui è una data fatidica: decide che la musica sarà la sua vita e allora a capofitto comincia, a crearsi ogni possibilità di esibizioni live - in cover band ma anche da solista nelle vesti di cantautore – partecipando a concorsi canori nazionali man mano sempre più prestigiosi fino ad arrivare alla vittoria del rinomato Premio Lunezia Giovani Autori 2007 che riconosce il valore sia musicale che testuale delle canzoni italiane, con il brano dal titolo "W la vita". Il 2008 è l’anno che lo porta su scenari internazionali, e per la precisione oltre oceano: Domenico viene selezionato come unico rappresentante italiano al Festival Internazionale della Canzone di Viña del Mar in Cile (il più importante festival dell’America Latina e unico gemellato con il Festival di Sanremo) vincendo con il brano "La guerra dei trent'anni” aggiudicandosi due “gaviotas de plata” ovvero i premi come migliore autore e migliore interprete. Parliamo di un giovane cantautore, che gestisce diversi codici sonori (orecchiabili, curati in ogni suo aspetto) e diversi impegni sul senso testuale, che ama non limitarsi a essere bardo di se stesso, ma occhio critico attento a quello che succede oggi Il suo primo album “Domenico Protino”, consta di 10 brani. Registrato presso gli studi Panpot di Brindisi e mixato allo Studio S.Anna di Castel Franco Emilia (Modena) e al Creative Mastering di Forlì, suonato interamente, oltre che da Domenico, da musicisti pugliesi, è realizzato sia in lingua italiana che in lingua spagnola per il mercato latino-americano; scaricabile da iTunes e in vendita nei negozi dal 26/9 distribuito da Warner Music Italia Srl.
Il prossimo venerdì 26 settembre, presso la Feltrinelli di Bari (h. 18.30) si svolgerà lo showcase di presentazione, nella sua terra, la Puglia.


la canzone in video di Domenico Protino ha come titolo L'odore dei ricordi

martedì 23 settembre 2008

SAMUEL BARBER’S ADAGIO FOR STRINGS di Silla Hicks. Parte Prima ovvero la Cena che non c'è

Ci sono storie che non sono solo amore, ma una vita intera, in cui s’intrecciano tante vite, e ci si impara a conoscere e a spiegare. Ci sono storie in cui anche chi non ti ha mai accettato impara a capirti e se non a volerti bene almeno a stimarti per il genero imperfetto che sei, o che avresti potuto essere. Adesso lo so, che con tuo padre è successo, perché mi ha abbracciato e camminato vicino, nell’ultimo giorno in cui eravamo ancora noi. E per la prima volta dopo diciotto anni lo so che non ha visto solo un camionista senza studi né posizione ma gli occhi ferocemente fedeli di un cane da guardia, che avresti potuto uccidere senza che smettesse di leccarti le mani. E’ paradossale che sia successo adesso che è inutile, ma so che mi terrebbero alla loro tavola la domenica, con i miei stracci neri e senza la cravatta, e ascolterebbero le mie storie sorridendo. Tua madre leggeva Jorge Amado, una volta: ho conosciuto Gabriela nella sua libreria fitta di libri di ogni tempo e luogo, anche se non credo che lo sappia, né che immagini quanto quel mondo profumato mi abbia portato lontano. Potrei dirglielo, magari. Adesso, so che mi starebbe a sentire, perdonandomi per tutto il resto che non so imparare, per tutto quello che mi fa impresentabile, sempre, come sono io.

E tutto questo mi fa rabbia, sai. Mi fa rabbia la vita finalmente serena che avremmo potuto avere oggi, mi fa rabbia che sia sempre tardi, quando la guerra finisce.

Per questo – e per tante altre cose – mi sono chiesto che faccia avesse, lui che forse avrà la mia cena che non c’è, la mia frittura di calamari, solo anelli, anche se no, lui non è un tedesco, lui il pesce vero sicuramente lo sa apprezzare e non mangia fritturine da ignorante, quando ha la fortuna lussuosa di un ristorante da cui si vede il mare. Quello della fritturina – annaffiata di limone, così che il pesce si senta appena - sono io.

Io, che non gli ho mai voluto dare un volto perché non fosse mai reale. E che la sua faccia l’ho chiesta – a bruciapelo, ma non c’è altro modo di sparare – all’unica persona che potesse raccontarmela, l’unica che l’ha visto e che io conosca – no,anzi: di cui mi fidi - abbastanza da poterlo fare.

Sono uno stronzo, sì. Perché l’ho chiesto, e perché l’ho chiesto a tua sorella, e perché com’era giusto facesse – perché è tua sorella, ma soprattutto perché è stata mia amica anche quando non lo era nessuno – ha saputo volare sopra alla risposta, mi ha solo detto che non lo ricordava.

E mentre lo diceva era di nuovo la ragazza che ci ha ospitati entrambi a casa, quando non avevamo nemmeno da mangiare ma avevamo tanto amore da essere miliardari, e mi faceva trovare sigarette e il riscaldamento sempre acceso, e la notte lavoravamo tutti alla tua tesi di laurea, e ci addormentavamo alle cinque, sognando la Grecia.

E’ stata capace di dire che non ricordava, se è alto o basso, ha detto solo che ha una corporatura normale e i capelli scuri, testuale, e non c’è niente di più impossibile, perché lei disegna, e ricorda particolari di pale medievali e di strisce di Dylan Dog con la stessa facilità spontanea e disarmante, particolari piccoli e messi negli angoli, non nasi e bocche dentro a un volto umano.

Non ho insistito, e poi abbiamo parlato di altro, prima che partissi, mi ha lasciato andare con la speranza che non merito, è durata dieci chilometri, prima del buio, della disperazione vischiosa di cui il resto del mondo sembra immune.

Perché io lo so, dove stai stasera, e che per lui stai mandando a puttane tutto senza non dico rimorsi ma neanche rimpianti, che non ti frega più, di dove sto e di quanto fa freddo, ed è giusto così, se mi metto nei tuoi panni, ma se mi metto nei miei mi sento morire, e vaffanculo, cazzo, io nei miei ci sono, e non posso cambiarli anche se mi tirerei via la pelle a unghiate, per quanto fa male abitarla, in questo cazzo di momento che è un inferno eterno, che non ha inizio né fine, come te, come i miei ricordi.

E non mi resta che versare litri di dolore su questo pavimento, le tracce dei miei anfibi che non voglio cancellare, l’ultima – l’unica - traccia che sono esistito.

Perché sono esistito, cazzo, questo spettro è stato un uomo, ho conosciuto altro che non sia l’assenza, non sono sempre stato un pacco disperato e solo.

Ho avuto giornate e notti e anni. Soltanto, sono finiti, prima che finissi io.

Anche se ho visto film blu e un pezzo del decalogo. Anche se posso rivederli, ogni volta che voglio, senza neanche chiudere gli occhi.

Come nel testamento di Kubrik, eyes wide shut. Con gli occhi spalancati, a qualsiasi costo.

Per tutti i nostri film che non ha visto, ti supplico di tornare.

O almeno di mentirmi.

Non ho la forza di guardare ancora.

L’unica bellezza che resta al mondo è il sogno di svegliarsi ovunque sei.

Il resto, è solo un cumulo di macerie, e vaffanculo quale sia la bandiera che ci sventola, vaffanculo quanto sia grande il mondo. Io sono qui, io aspetto, nel nostro mondo. Ci sarò, quando ti deciderai a tornare, e il resto del tempo sarà la notte del terremoto di Volos, quando siamo usciti in strada e abbiamo visto l’alba, e la gatta coi gattini, e ci siamo abbracciati, e nella luce del sole abbiamo pensato che qualsiasi cosa fosse frattanto successa nel resto del mondo, noi eravamo ancora lì, eravamo insieme, ed eravamo ancora vivi.

giovedì 18 settembre 2008

Spider di Silla Hicks

Mia sorella è un matematico, ma lavora in un ufficio per campare, e rincasa tutte le sere per le sette a trascorrerle giocando al computer con la TV accesa, sempre lo stesso gioco, un solitario preistallato con le carte chiamato “spider”.
Non so come faccia, ogni sera, anche se no, non si può parlare di divertimento, sarebbe più esatto dire che continua a giocare, caparbia, gli occhi sospesi tra il verde e l’oro - il viale di platani su cui in un’altra vita andavamo a scuola – fissi vanamente allo schermo, per ore intere.
Lei dice che la TV le fa compagnia, che è un rumore di sottofondo, ma non è vero: so che segue ogni fotogramma, perché poi me ne parla, spezzoni dei miei film sul suo vecchio mivar, ricorda ogni parola dei dialoghi senza neanche leggere i sottotitoli e frattanto macina punti, ogni sera per sette sere la settimana e trenta o trentuno al mese e trecentosessantacinque o trecentosessantasei all’anno, gli occhi fissi, così che non mi accorga – io, l’invasore del suo minuscolo spazio arroccato di fotografie – che sta piangendo.
Non dice niente, e frattanto beve la sua infima lager da 2,99 la cassa, e fuma le sue diana blu, o anzi fumava, perché adesso ha smesso, per fargli piacere.
Mia sorella che sa a memoria centinaia di teoremi e mi ha spiegato l’algebra coi fagioli quando io facevo la terza superiore e lei la seconda media fissa lo schermo, e le lacrime le rigano la faccia: è una donna abbastanza alta, almeno per la media di qui, 1,69 c’è scritto sul suo passaporto, nel quale ride ed è bellissima con i capelli quasi rasati di un biondo che assomiglia al mio, il giorno prima che partissero per la Grecia, quando mi chiamava ogni tanto e pensava di poter sopravvivere senza di me, anche se non ha mai imparato a nuotare bene.
Ma adesso li ha sono tinti di un rosso improbabile ed è solo piccola come il resto del mondo, uno scheletro che ha sempre freddo e porta i miei maglioni che le arrivano alle ginocchia anche d’estate.
Scrive numeri ovunque, finchè “dura l’intuizione” ripete, e che sarà quest’intuizione io non l’ho mai capito e la venero, per tutto quello che sa vedere che io nemmeno immagino.
Senza chiedermi niente sa tutto e ogni tanto mi fa una carezza, come quando eravamo bambini ed ero il suo fratello maggiore, che non le avrebbe mai lasciato la mano.
Adesso, che siamo due naufraghi aggrappati alla stessa zattera, io sono quello più grosso e più forte, che sa trattenere il fiato più a lungo, quello che vinceva le gare e voleva essere il miglior nuotatore del mondo: per questo mi guarda disperata, e a tratti penso persino che mi odi, perché non mi decido a riprendere a nuotare, io, che ho le braccia e i polmoni per continuare a farlo.
Non ho la forza di dirle che non ci riesco più.
Che ogni giorno è più difficile anche solo stare a galla.
Per lei, sono ancora un ragazzino di dodici anni alto quanto un uomo adulto, che si allena sei ore al giorno e respira il cloro con le branchie che porta nascoste sotto la pelle, e ascolta i Van Halen, e si è forato da solo le orecchie, davanti allo specchio, mentre lei – che ha solo sei anni – è seduta sul bordo della vasca e ride e dice che non è possibile, che nessuno ha tanto fegato da fare una cosa del genere, nessuno a parte me, che sono il fratello maggiore più fico del mondo.
Mia sorella, che non sa andare in bicicletta e guida a stento la sua carriola arrugginita, ma che fa a mente le radici quadrate e si è laureata studiando di notte, perché lavora minimo otto ore al giorno da quando aveva diciannove anni, mia sorella, che è capace di fare un esame di mille pagine in meno di una settimana e di prendere trenta e fa tesi di laurea in qualsiasi materia in pochi giorni per chiunque glielo chieda, ogni sera fissa lo schermo e clicca sulle carte, e la sfida è quanto in fretta e quanti punti, avrà fatto milioni di partite, mentre io fatico a completarne una di livello base, quando ci provo.
Ma lei no, lei compone il mosaico con la facilità devastante del genio che le è stato regalato invano, perché abbaglia tutti in pochi minuti, ma non le serve a farlo tornare: e quando le bottiglie sul tavolo sono tre o quattro – a volte persino meno - smette di nascondere le lacrime e piange, finalmente, si accartoccia sul tavolo della sua cucina e smette di pensare mondi interi in cui i numeri sono personaggi, con una faccia e vestiti e parole. Al modico prezzo di massimo un euro e cinquanta, mia sorella piange, come qualsiasi idiota, come piango io.
Le lacrime le schiariscono gli occhi, e parla solo tedesco, e piange e mi racconta, di quello che le ha detto al telefono, e dei suoi capelli e persino dei suoi piedi: vorrei dirle che nessuno può essere così coglione da lasciarla per sempre, ma non ho il coraggio di raccontarle bugie.
Così l’abbraccio e basta, e se va bene mi ricordo di essere un uomo e di non potermi lasciare andare altrettanto, altrimenti singhiozziamo assieme, nella nostra lingua, e penso che io sono 0 negativo e anche lei, e siamo tutti e due mancini, ma che non può bastare questo a farci tanto uniti, perché non è questione di sangue e nemmeno di geni, non può esserci una soluzione così banale all’enigma immenso che ci ha fatto fratelli.
Se avessimo avuto vite decenti, saremmo rimasti lontani, una volta liberi da quell’infanzia che ci aveva imposto uno all’altra.
Ma adesso che respiriamo l’odore di napalm dell’attesa non abbiamo altra scelta che tenerci per mano, e viviamo nella stessa casa e nello stesso armadio, le mie maglie XXL accanto ai suoi vestitini che andrebbero bene a una bimba, perché mia sorella non mangia, e beve a stomaco vuoto: per questo si ubriaca tanto presto, anche con la birra dell’Eurospin.
L’amore le ha mangiato il cervello, e adesso i suoi numeri sono l’unico amico che ha, a farle compagnia. E’stata bellissima, ora è un uccellino sparuto che potrei tenere nella mano, se non fosse un pitbull rabbioso, che non vuole carezze: quando sono partito stamattina dormiva ancora, accartocciata sul tavolo: generalmente non si corica neanche, si fa solo una doccia prima di andare al lavoro, anche se non glielo dice, ma anzi scherza al telefono quando lui – se ne ha tempo e voglia –si decide a chiamarla, e vuole sembrare ad ogni costo una dura, un vero soldato, che non ha paura di niente, che non si arrende mai.
E infatti quando apre gli occhi è di nuovo così, anche se sta quasi sempre tanto ripiegata sulle proprie spalle da non arrivare a un metro e mezzo, e più che una macchina da guerra sembra una bambola rotta, con lo sguardo che asciugandosi si è scurito dietro agli occhiali macchiati di tinta dei capelli, ma che hanno comprato assieme e per questo non vuole cambiare: e per sembrare più cattiva sporge in fuori la mascella, lei che avrebbe la faccina tonda, e affronta il mondo, ogni giorno, tenendosi tutto dentro fino a sera.
Quando torno, sta stirando o pulendo il cortile, o lavando per terra, inginocchiata, mattone mattone tutto il pavimento di ceramica bianca che si sporca anche solo a guardarla, come per scrostare tutto lo sporco della sua vita e della mia: mi chiama sempre per nome, con il mio nome da antico romano che è un nome da avversario, che io odio ma a lei piace tanto, perché ama gli sconfitti della storia, e poi quel nome ce l’ho quasi solo io. Lei ha un nome comune, invece, che non sopporta, perché sa di poesie e non ci trova niente di poetico, nella vita: avrebbe voluto chiamarsi Irene, o Vanessa, il nome delle sue attrici preferite, avere lineamenti forti piuttosto che una faccia da bimba incredula, non riesco mai a dirle che è più tosta di loro, più bella di loro, perché è ancora qui, ed è ancora viva.
Perché sa la sua matematica, ma anche un sacco di altre cose, perché ha il QI di due persone normali messe assieme, e ha fatto online i quiz del mensa, in otto minuti e due secondi – ne avrebbe avuto quindici a disposizione - ovviamente senza sbagliarne uno: adesso ripete che si è messo sotto le scarpe il suo talento, senza capire che non è qualcosa da cui si può abdicare soltanto perché lui non c’è.
Come chiunque voglia qualcosa senza la quale non può vivere – un rene, un cuore, una donna, un uomo – non è capace di dar valore a null’altro: solo con lui sorride, e quando gli parla esce nel cortile e guarda su, verso il cielo, lungo il loro albero, che è l’unico rimasto nella strada. Lo ha difeso da chi voleva tagliarlo per le sue radici sollevano i mattoni del marciapiede con la disperazione aggressiva della belva che vuole essere per sentirsi al sicuro e cui, se non l’avessi vista tante volte piangere, crederei anch’io.
Adesso lo guarda, e si ripete che lui è là, e cresce, anche se la vita ha smesso di continuare, per noi: l’albero è là, e prima o poi toccherà il cielo.
Mi invidia, perchè il mio lavoro mi porta lontano, mentre lei è ammanettata alla scrivania e a questo posto. Prima o poi, avrò il coraggio di dirle che non c’è un lontano che sia lontano abbastanza, e che non c’è più nessuna Germania, né nessuna infanzia, che alien ormai ci abita, e ci sta divorando da dentro per riprodursi. Prima o poi, riuscirò a guardarla e a dirle che anche a migliaia di chilometri io ti porto nel cuore, che posso vederti o no, sentirti o no, ma mai amarti di meno. Che proprio quando non ci sei ti tengo accanto, sul sedile, accanto a me, e mi volto verso te e ti parlo, ti racconto ogni cosa che vedo. Che non ti vedo, ma ci sei.
Tu, ci sei.
Anche adesso, che non so più dove sono.

mercoledì 17 settembre 2008

Intervista a Pierluigi Mele di Serena De Carlo


















Intervista a Pierluigi Mele, da Il lessico dell’illusione in Pierluigi Mele

Tesi di Laurea in Linguistica Generale. Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli studi Perugia. Laureanda Serena De Carlo, A. A. 2005/2006.


Perché ha scelto di scrivere poesie?
La poesia è una forma dello sguardo, è più probabile che sia lei a cercarti. Probabilmente nasce quando pretende, per oscuri percorsi, il trasfigurato, il rimescolamento delle carte, lo scuotimento dei segni. Cresce allora per una sorta d’inquietudine, come a voler raschiare il fondo di un terreno. Come se la penna, per dirla con Seamus Heaney, valesse quanto la vanga del contadino. Ed è con la penna che un poeta scava.

Quanto è influenzata la sua poesia da altri generi artistici (teatro, cinema, musica)?
L’influenza è totale. Non ricordo se sia stato Alberto Moravia a sostenere che un poeta, quando è a contatto con l’arte, è in casa propria. Forse perché il suo codice espressivo non mira tanto alla comunicazione, all’informare un eventuale pubblico su accadimenti, opinioni, indici di gradimento e mode. Il datore di lavoro della poesia, la sua paga e la sua bolletta, è la bellezza. Che si muove ovunque, nei bassifondi come sul tram, in un quadro come nelle sale d’aspetto.

Come nascono i suoi versi?
Dal distacco. Questo cadenza le occasioni e le finzioni della scrittura, lasciando la possibilità alle cose di disperdersi per poi ritornare sotto una più definita veste nel corso del tempo. Il Tempo, questa religione laica di un poeta per me molto importante come Iosif Brodskij. Secondo il quale “chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una “lettura”, commette un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso”.
Se lo scritto giornalistico abbraccia ed offre l’immediatezza della cronaca per subito stracciarla, la poesia penetra il contingente trasfigurandolo, prendendone le distanze, e fissa tanto il metafisico quanto il quotidiano con uno sguardo affilato nella metafora.

Come avviene la selezione e la combinazione delle sue parole?
Nessuna parola può essere lasciata al caso, anche se dal caso quasi sempre proviene. Le parole devi quasi sbiancarle per riuscire a penetrarle. L’agognata limpidezza dei versi è il risultato di un inesauribile flusso e montaggio, di attesa e ritorno a distanza allo scritto per verificarne i frutti. Un lavoro di sottrazione che punta all’essenza delle cose. Nello spazio brevissimo dei versi, devi contenere quel respiro, quella particella di vita che può essere detta solo in una forma e non in un’altra, con parole nette, definitive, lievi e pesanti insieme.

Crede che la poesia sia il veicolo più diretto per comunicare il suo pensiero?
Credo di sì. Come nella mia produzione teatrale, lo sguardo è sempre di natura poetica. Questo sguardo tende a sgombrare il campo dalle pastoie dell’Io e a misurarsi senza paraocchi col mondo. Parlare di un tramonto, di un’alba o di un autunno equivale ad affermare la vitalità che queste evidenze scatenano, evidenze a cui spesso non prestiamo ascolto proprio perché pensate “dovute”. È con queste evidenze della natura, ma non solo in queste chiaramente, che possiamo avvertire i segni di maturazioni e decadimenti nostri e della stessa lingua.
Un film o una musica per me sussiste soltanto se d’autore, perché espressione autentica di ricerca fatta con quello sguardo poetico senza il quale l’opera cinematografica o sonora risulta un prodotto industriale, legittimo ma destinato al consumo in serie. “D’autore” però non significa di noia. Parlo piuttosto della capacità di rinnovamento, di estro. Pensi all’architettura musicale di Bach, o alla forza di un certo quotidiano in Luigi Tenco. Ad Orson Welles, secondo me il più grande cineasta del secolo. Il suo incompiuto Don Chisciotte è genio allo stato puro. Spesso Welles ha portato sullo schermo storie della letteratura (Kafka, Shakespeare, Cervantes) e sempre con uno sguardo straordinario.
L’aspetto ludico, estemporaneo dell’atto poetico non è escluso da una visione d’autore, tutt’altro. Perché regna un elemento fondante sull’arte: l’istinto, o l’improvvisazione, per dirla col jazz. Per esempio: l’orecchiabilità e quindi il successo di molte canzoni del patrimonio musicale è stato concepito proprio dal guizzo dell’autore, che ha saputo pescare dal fondo il “bene” comune. Lei scuserà questo mio continuo richiamo alla musica, ma credo che appunto una canzone sia destinata a vivere più di tutti i libri che leggeremo.

Quanto incide nella sua scrittura l’ambiente salentino in cui vive e quanto il suo luogo straniero di nascita?
Il Salento non esiste. Il Salento rappresenta un luogo mentale dove si danno appuntamento i fantasmi, le sirene, le suggestioni d’infinite terre. Indica allora una terra che vive innanzitutto nei miti. Significa perdersi in racconti, suoni e colori; o nella luce meridiana, particolarmente amata da quello squisito editore (non ne nasce che uno per secolo) che è stato Vanni Scheiwiller.
Il Salento architettonico, terrestre, marino e culinario è di matrice culturale, non pubblicitaria. Origine comune, credo, a qualunque terra di mito, tanto per affermare non la supposta ed esclusiva identità del Salento, ma la sua alterità.
Quanto al luogo di nascita, esso assume la medesima caratteristica, in quanto luogo di sensi e di rimandi in perenne ritorno. Non posso tacere le suggestioni che il Nord ha esercitato in me: i profumi del verde, della neve, l’aria così folle del favonio, e un ordine, una disciplina che riguarda anche, senza portarla alle lunghe, la puntualità.

Esiste un “lettore-modello”?
Non sempre. Talvolta esiste un lettore immaginario, comune, della porta accanto con cui confidarsi, in un rapporto che vuole provocare sintonie sentimentali. Non credo che si scriva per dei club elitari, se la materia del poetare intende parlare con tutti. Altre volte questo “lettore invisibile” ha un nome, per esempio Oreste Macrì.

Presuppone nel suo destinatario un determinato tipo di formazione culturale?
Non puoi nascondere l’elemento formativo, l’educazione culturale di un lettore. Parlare con tutti è un voler parlare all’intelligenza del cuore, non è il vociare da comiziante. Piuttosto è la prova che fa coincidere lo scritto con il vissuto, che sono dimensioni di un’unica espressione esistenziale. La poesia può essere un fiato che s’insinua nei sensi del lettore, che lo istiga, lo accende e lo mette alla prova. Altre volte è un dialogare con la lingua stessa, in un corpo a corpo che può deliziare o sfinire.

Qual è il significato delle ellissi, delle allusioni, delle citazioni esplicite e indirette che compaiono nei suoi testi?
Forse tutti noi non facciamo altro che riscrivere. L’intera storia della letteratura è un interminabile processo di ri-montaggio. Io sono ciò che leggo e che rubo con gli occhi, esattamente come sono il figlio di una precisa coppia. Sono ciò che ascolto, che imparo e ricerco. Non si tratta di ostentare una presunta biblioteca, ma di abitare con entusiasmo la cultura. Vuol dire rendere testimonianza, tributare chi ha contato.

Chi sono gli “inquilini assenti” di cui parla in una delle sue poesie?
A volte sono questi fratelli o padri della scrittura perduti lungo la strada, che ritornano come dei gatti invisibili dalla finestra. Sono i poeti sconosciuti ai più, spesso scoperti per caso. Autori da ricordare nella maniera più semplice: parlandone, leggendoli ed invitando a farlo.
Ma non sono soltanto questi gli inquilini di cui lei mi chiede. Sono anche gli affetti privati da custodire e difendere con pudore contro il cattivo gusto dell’esibizione, dello svenevole sentimentalismo.

Qual è l’importanza e il senso delle immagini che ritornano più frequentemente nella sua poesia?
Pensi alla stanza a lei più cara della sua casa e agli oggetti qui riuniti, i libri, i monili, le coperte, quello che crede. Immagini ora che gli oggetti comincino a parlare o a muoversi come persone e animali, a provare dei sentimenti di noia, amore, solitudine etc. E che attraverso di essi lei riesca a vedere oltre la sua stanza, alla sua memoria per esempio. In questo gioco il senso canonico del tempo non regge più, perché lei si serve di un oggetto abitudinario come ad esempio un pettine per parlare non so, dei suoi quindici anni. Di momenti dell’esistenza che nella sua stanza non vivono più. Che non sono però sepolti, semplicemente sono altrove. Lei quindi può arrivare a suggerire un’idea del tempo solo attraverso delle figure, come il pettine. Estenda questo gioco dell’illusione a tutto il resto. Noterà come solo le figure contino davvero, di figure ci serviamo per sopravvivere all’oblio. Per questo motivo talvolta utilizzo figure che nel quotidiano non amo, come i gatti, ma che ti consentono come nessuno di provare quello sguardo in profondità di cui è fatta la poesia. È come se vivessi, in quello spazio d’invenzione, da gatto, arrampicandomi dove come uomo mi sfracellerei.

Che cosa significa essere un poeta oggi?
Forse essere scomodi. Oggi come ieri vuol dire non appagare né appagarsi di ipocrite seduzioni, siano queste di natura politica, sociale o esistenziale. Vuol dire coltivare l’inquietudine, scandagliare più che scandalizzare. Stupirsi delle idiozie così come dell’ignoto. E riservarsi un sorriso e una buona battuta, perché prendersi troppo sul serio non mi pare una cosa seria.

Lei sembra contestare indirettamente il sistema culturale attuale. Ipotizza nuovi sistemi? Quali?
Dico solo questa ovvietà: la mercificazione assoluta dei sentimenti sbattuti in prima serata come intrattenimento da deficienti, non è il prodotto di una scelta avulsa da tutto il resto. Se la televisione, per cominciare, si permette di profanare così impunemente la vita (in nome, tra l’altro, di una bugiarda democrazia interattiva), vuol dire che forse nella scuola, l’editoria, la politica, la famiglia qualcuno si è appisolato, si è preso una bella vacanza dalla rivolta. Credo che la cultura sia la rivolta permanente, vissuta attraverso i libri, la musica, il teatro, così come al supermercato, nei campi, in ufficio. La poesia non vive aristocraticamente sulla pagina. Quella della pagina non fa altro che scovare la poesia nascosta nelle pieghe del tempo.

Come definirebbe la sua poesia?
Le domande difficili le lascio a lei.

giovedì 11 settembre 2008

Pietro Berra e i Poeti intorno al Lario














Dalla prefazione al volume del giornalista Pietro Berra

Il Lario cantato dai poeti è, per i più, fermo ai «monti sorgenti dall’acque» di manzoniana memoria o al sole che «ridea calando dietro il Resegone», abbaglio carducciano, visto che l’astro, da quella parte, al limite potrebbe sorgere, come ha documentato l’astronomo comasco Corrado Lamberti. Eppure nel Novecento, e nel primo scampolo del Terzo millennio, sono molti i seguaci della musa Calliope che hanno bazzicato queste zone, traducendo le loro emozioni in versi che, in alcuni casi, già appartengono alla storia della letteratura italiana.



Per due poeti, in particolare, questo angolo di Lombardia è un luogo centrale nella loro storia. Si tratta di due maestri del secondo Novecento. Uno è Giampiero Neri, pseudonimo di Gianpietro Pontiggia, che seppur abiti a Milano da più di 50 anni, quando scrive torna sempre più spesso alla sua Erba, dove è nato nel 1927 e da cui si è distaccato a 16 anni, dopo che il padre fu ucciso nei primi atti della guerra civile. Luoghi e persone della sua infanzia sono molto presenti nell’ultima raccolta, Armi e mestieri, uscita l’anno scorso da Mondadori e lo saranno ancora di più nella prossima, in lavorazione, che si intitola «Piano d’erba», antico nome del paese d’origine. L’altro poeta biograficamente e letterariamente legato a doppio filo con il Lario è Maurizio Cucchi. Il suicidio del padre, avvenuto nei boschi di Uggiate Trevano, è infatti diventato per lui spunto per una ricerca poetica ed esistenziale che ha raggiunto risultati altissimi, culminando nell’Ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), dove il poeta torna sul luogo della tragedia.

Altre volte lago e montagne sono finiti nella produzione di autori importanti per ragioni occasionali. Alda Merini, per esempio, ha scritto una serie di «Poesie per Chiavenna», nate da un viaggio effettuato nella valle della Mera nel 2001 per ritirare il premio Madesimo. Un altro grande, Raffaello Baldini, scomparso qualche mese fa, ha raccontato nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna una gita sul lago di Como, che per poco non gli risultò fatale, essendo finito con il pullman in un dirupo. Il brano si trova in Intercity (Einaudi), che attraverso frammenti di vita come questo ci ha dato una delle testimonianze poetiche più forti del giovanissimo ventunesimo secolo. C’è poi un poeta fiammingo residente in Spagna, Germain Droogenbroodt, che giunto sul Lario da turista se n’è innamorato al punto di tornarci in vacanza più volte e da dedicargli un intero libro, «Conosci il tuo paese?», pubblicato nel 2001 dalle edizioni Archivi del ’900 di Milano.

In un secolo che ha visto concentrarsi nel capoluogo lombardo molti grandi poeti e scrittori, era inevitabile che il Lario e la Valtellina, mete storiche delle gite fuoriporta dei "milanes", finissero prima o poi in qualche loro testo. Così Raul Montanari, stimolato dal comitato per le celebrazioni del centenario di Giuseppe Terragni, ha messo in versi un racconto noir che parte dalla visita a un’edicola funeraria realizzata dall’architetto razionalista nel cimitero di Como. Un sodale di Montanari, Aldo Nove (c’è anche lui nel libro Razionalismo remix), si è divertito a rendere i «finanzieri del distretto di Como» protagonisti di una delirante «avventura di Capodanno» inclusa nella silloge Nelle galassie oggi come oggi (Einaudi), una raccolta di cover, ovvero di testi poetici scritti sui motivi di brani pop-rock, in questo caso «All il full of love» della islandese Björk.

Qualche milanese, inoltre, ha sul Lario la seconda casa, ideale per ritirarsi a scrivere. Prima o poi è giocoforza che lo straordinario paesaggio circostante gli prenda la penna. È stato così per Antonia Pozzi, che prima di togliersi la vita nel ’38, a 26 anni, con un’overdose di barbiturici, ha generato un fiume di poesie, molte delle quali datate Pasturo, nel Lecchese, dove villeggiava con la famiglia. Se lei ormai appartiene alla storia, c’è una altro poeta-villeggiante, Silvio Aman, che sta per pubblicare in una delle più raffinate collane di poesia, quella della novarese Interlinea, la raccolta Fiori del tempo, dove il Lario fa capolino qua e là: inevitabile per uno che ha un appartamento a Mezzegra e fino all’età di 12 anni ha abitato a Cernobbio.

Un po’ diverso è il caso di un altro milanese, Franco Spazzi, che se ha pubblicato tre sillogi nel dialetto di Lanzo Intelvi non è tanto perché lì passa le estati nella casa che fu dei suoi nonni, quanto perché vi trascorse l’infanzia, da sfollato, in tempo di guerra. Pure nell’ultima raccolta del grande, e compianto, Giovanni Raboni, Barlumi di storia (Mondadori, 2002), Como è legata a ricordi del ’43, quando molti vennero da queste parti per cercare una via di salvezza oltre il confine svizzero.

Spazzi appartiene anche alla specie, rara ma non troppo (basti pensare a un Michelangelo o a un De Pisis), dei pittori-poeti, in buona compagnia di un brianzolo l’adozione, e campano d’origine, come Gaetano Orazio. Questi vive a Cremella e lavora, principalmente, lungo il corso del Rio Toscio, sui monti sopra Civate, dove è andato a scovarlo Philippe Daverio con le telecamere di Raitre. Dalla simbiosi con la natura sono nati, oltre a tanti quadri, anche tre libri di poesie, tra i quali Hotel Brianza. Pittore-poeta, nonché critico e drammaturgo, è stato anche Giovanni Testori, un grande lombardo: se Milano è l’epicentro della sua produzione, la Bassa comasca, in particolare Lomazzo, è il "teatro naturale" (titolo di una silloge del già citato Neri) su cui si muove la squinternata compagnia dell’«Ambleto», e Chiavenna, tappa intermedia delle sue frequenti incursioni elvetiche, la si ritrova immortalata nel poema «I trionfi» (1965), nella raccolta di poesie A te (1973) e nel romanzo La cattedrale (1974).

Persino due premi Nobel hanno scritto poesie "intorno al Lario". Luigi Pirandello passa da queste parti nel 1889, diretto all’Università di Bonn, dopo che ha dovuto lasciare quella di Palermo in seguito a contrasti insanabili con il professore di Lettere. Si ferma da amici a Cavallasca. Fa anche in tempo a innamorarsi di una ragazza, sebbene in Sicilia abbia lasciato pure una fidanzata. Ma non è un amore felice, come si intuisce dall’acredine che riserva alla «bruna di Como» nella poesia «Convegno», pubblicata sulla Rivista d’Italia nel 1901 e nella raccolta «Fuori di chiave» del ’13. Un amore perduto aleggia anche tra l’Adda e Ardenno, cantati ne «La dolce collina», una lirica uscita nella sezione «Nuove poesie» della raccolta più celebre di Quasimodo, Ed è subito sera (1942). L’ambientazione non è casuale: negli anni precedenti il geometra di Modica era stato impiegato al genio civile di Sondrio. Una tappa del percorso che nel 1959 l’avrebbe portato ad essere incoronato dall’Accademia di Stoccolma.

Nel periodo valtellinese, Quasimodo strinse strette relazioni con un gruppo di artisti e letterati milanesi, tra i quali un ragazzo del Sud, il salernitano Alfonso Gatto, antifascista militante. Dopo la Resistenza e alcune esperienze da inviato per i giornali del Pci, nell’estate del ’49 Gatto si trasferisce a Carate Urio, ospite di un albergo gestito da amici, assieme alla compagna Graziana Pentich. L’8 ottobre di quell’anno, a Como, nasce il loro figlio Leone. Per più di un anno il papà continuerà a fare il pendolare tra Carate e Milano, prima di trasferirsi nel capoluogo regionale con la famiglia. Ma la parentesi lariana, gravida di affetti cullati dalle acque del lago, riemergerà più volte nelle sue poesie.

Se i milanesi, poeti e non, vengono sul Lario innanzi tutto per "ciapà un pù de aria bona" - come Delio Tessa che ha scritto dei suoi soggiorni a Moltrasio nel libro di memorie Brutte fotografie di un bel mondo - tornano più volentieri se sono motivati anche da qualche interesse letterario. Così Roberto Sanesi, che ha trovato a Como il suo critico più attento e assiduo, Vincenzo Guarracino. Dopo la prematura scomparsa del poeta-pittore milanese, è stato proprio Guarracino a curare l’edizione postuma per la comasca Lietocollelibri del suo poemetto inedito In laude Larii laci, ovvero «In lode del lago di Como», imitazione dell’antico poeta longobardo Paolo Diacono. Un punto di riferimento per i poeti, non solo milanesi ma mondiali, visto che ha pubblicato persino l’icona della beat generation Allen Ginsberg, si trova in Brianza, a Osnago, in una casa con due caprette e un coniglio. È qui che vive e lavora Alberto Casiraghi, «l’unico editore che stampa in giornata», con una vecchia macchina tipografica da cui sono usciti in 23 anni oltre seimila plaquette che abbinano una poesia a un’opera d’arte originale. Tra i più convinti sostenitori delle edizioni Pulcinoelefante vi è Vivian Lamarque, che un giorno, dopo aver stampato da Casiraghi, ha comprato con lui tre sacchi di lumache e le ha liberate nei boschi. Il tutto documentato in una poesia inclusa nel 2002 in un Oscar Mondadori.

Ma «i monti sorgenti dall’acque» non sono solo terra di conquista, o di svago, per poeti forestieri (a partire dal Manzoni che villeggiò a Lecco da ragazzo). Il genius loci, lo spirito del luogo, ha ispirato anche autori locali, che però solo in rari casi sono riusciti a uscire dal territorio. Un limite su cui forse hanno influito, aldilà delle capacità dei singoli, anche i monti e le acque manzoniani, che sono diventati una barriera per i loro versi. È vero che la poesia, come la storia, non si fa con i se e con i ma. Ma viene spontaneo chiedersi se un Basilio Luoni, pubblicato nel ’93 da Dante Isella sull’Almanacco dello Specchio della Mondadori, non avrebbe "fatto carriera" se invece che a Lezzeno, sulla sponda orientale del Lario, avesse abitato a Milano o a Roma. E un Vito Trombetta, che vive a Laglio e scrive nel dialetto di Torno, non sarebbe arrivato prima dei 60 anni alla pubblicazione per un grande editore, conquistata solo di recente con una dozzina di testi inseriti nell’antologia di Einaudi Nuovi poeti italiani 5? Ma forse, nel mondo delle comunicazioni superveloci, qualcosa sta cambiando, se Francesco Osti, ventinovenne di Morbegno, è stato incluso da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi nell’antologia Nuovissima poesia italiana, uscita lo scorso Natale da Mondadori.

Più fortuna, finora, hanno avuto alcuni migranti, che tuttavia non hanno mai abbandonato il legame, anche letterario, con il paese natale: Giancarlo Consonni, meratese, docente al Politecnico di Milano, dove vive, habitué di Scheiwiller ed Einaudi; Giuliano Dego, colichese, docente alla London University, pubblicato in poesia nelle edizioni del medesimo ateneo e in prosa nella Bur; Grytzko Mascioni, che dalla natia Madonna di Tirano ha girato l’Europa, è stato cofondatore della Televisione svizzera, ha pubblicato romanzi e poesie da Mondadori e Rusconi, ha lavorato in Grecia, Francia e Croazia, fino alla morte che lo ha colto a Nizza nel 2003.

Mascioni è esponente di un’altra specie, quella dei poeti di frontiera, che intorno al Lario ha trovato in suo habitat ideale. Si pensi a un Fabio Pusterla, nato nel ’57 a Mendrisio, con doppia cittadinanza e residenza, una a Lugano, dove insegna al liceo, e l’altra ad Albogasio, frazione di Valsolda, sponda comasca del Ceresio. Le "terre di mezzo" tra l’Italia e la Svizzera, come la Val d’Intelvi, sono molto presenti anche nella sua ultima raccolta, «Folla sommersa», uscita nel 2004 da Marcos y Marcos. Un’altra dogana, quella di Ponte Chiasso, ha visto e vede passare con una certa frequenza Alberto Nessi, anche lui nato a Mendrisio (nel ’40) e cresciuto a Chiasso. Senza dimenticare Angelo Maugeri, uno dei poeti lanciati negli anni Settanta dalla mitica collana «I quaderni della Fenice» di Guanda, che dalla natia Messina si è trasferito a Campione d’Italia, enclave comasca in territorio elvetico, dove insegna e presiede l’Associazione scrittori della svizzera italiana.

Per mantenere viva la fiaccola della poesia, soprattutto in piccole patrie come Como Lecco e Sondrio, è fondamentale il ruolo di alcuni entusiasti "sacerdoti" delle muse. Tra i più attivi Claudio Di Scalzo, che dopo essere nato a Vecchiano, in provincia di Pisa, ed aver pubblicato il romanzo epistolare Vecchiano, un paese da Feltrinelli, è approdato a Chiavenna, dove dirige la rivista Tellus, porto sicuro e accogliente per i vari Mascioni, Luzzi, ma anche per le «Poesie per Chiavenna» della Merini, e l’Accademia Bertacchiana.

Posto che nel Novecento, e ancora di più nel Duemila, nessuno può dirsi poeta di professione (Montale, non per niente, si presentava come giornalista), e che il titolo oggi viene dato dalla critica, è inevitabile che nascono dei "conflitti di interesse". Se alcuni poeti si sono affermati anche come critici - Franco Loi, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici -, qualcuno ha percorso autorevolmente il cammino inverso. Per rimanere "intorno al Lario", vanno citati almeno due casi: Giorgio Luzzi, firma della rivista Poesia, ha pubblicato raccolte da Crocetti, Marsilio e Scheiwiller (ma in questa sede ci interessano soprattutto degli inediti legati alla Valtellina, dove è nato e spesso fa ritorno, mentre vive a Torino); il brianzolo Fulvio Panzeri, che, tra le tante cose, ha curato l’opera omnia di Testori e Tondelli per Bompiani, ma ha anche editato da Guanda, nel 2000, la silloge L’occhio della trota.

Storia a sé fa Davide Bernasconi. Per i più è Van De Sfroos, il bardo delle Tremezzina che ormai ha conquistato l’Italia e anche un pezzo di Europa. Canzone e poesia, si sa, sono cose diverse («La canzone ha bisogno di un accompagnamento musicale - dice Loi - la poesia ha la musica dentro»), e a volte i poeti si arrabbiano quando vedono definire poesia le rime elementari di un Guccini. Ma il Bernasconi di Mezzegra è al di sopra di ogni sospetto: la sua per ora unica raccolta di poesie, Perdonato dalle lucertole», risale al ’97, prima del successo da cantautore. E tra un concerto e l’altro, ma ormai anche tra un romanzo e l’altro (ne ha uno in uscita da Bompiani), ogni tanto sente ancora la necessità di scrivere una poesia.





Pietro Berra è nato a Como nel 1975. Giornalista, lavora al quotidiano “La Provincia” e collabora con il settimanale “Diario”. Ha pubblicato le raccolte di poesie Un giorno come l’ultimo (Dialogo, 1997), Poesie di lago e di mare (Lietocolle, 2003) e Poesie politiche (Luca Pensa Editore, 2005), la biografia Giampiero Neri. Il poeta architettonico (Dialogolibri, 2005); i libri di inchieste e reportage giornalistici La scena immaginata (Nodolibri, 2002), Carla Porta Musa cento anni a Como (Enzo Pifferi Editore, 2002) e Sei frustate per una rapa. Storie del Novecento (Marna, 2004); il volume di storie e leggende lariane Nel paese dei pescaluna (Marna, 2004). Come poeta ha collaborato con diversi artisti: Gin Angri, Franco Spazzi, Silvio Nocera e Alfredo Taroni nelle plaquette delle edizioni Pulcinoelefante, Alessandro Berra nel librino Un piccione a New York (Signum, 2001), di nuovo con Taroni nel racconto in versi sugli schiavi di Hitler Disfattista! (Lythos, 2002) e con Gaetano Orazio nella mostra e nel cd-rom Fiume Aperto (galleria “Il Salotto”, 2004).

Aa.VV. Poeti intorno al Lario a cura di Pietro Berra
Volume realizzato in collaborazione con l'assessorato alla Cultura della Provincia di Como

in foto Pietro Berra

sabato 6 settembre 2008

Alessandra Contini mi fa sentire un Pop Porno




Pop Porno

Tu sei cattivo con me
perché ti svegli alle tre
per guardare quei film
un po’ porno

Tu sei cattivo con me
perché mi guardi come se
io fossi un’attrice
porno

Porno Pop Porno Pop Porno
Pop Porno Porno Porno

Tu sei cattivo con me
perché ti piace sognare
quei tipi di donna
un po’ porno

Tu sei cattivo con me
perché mi lasci da sola
e ti guardi quei film
un po’ porno

Porno Pop Porno Pop Porno
Pop Porno Porno Porno

Ma quando viene sera
tu mi parli d’amore
e guardandomi negli occhi
mi fai sentire davvero
una donna un po’ porno.

mercoledì 3 settembre 2008

Aiutami di Paolo Grugni





booktrailer posted on youtube by Paolo Grugni





Questa storia è la storia di cinque animalisti: Ricky, Bruno, Claudio, Sara e Giovanni. È la storia dei loro ideali, dei loro dubbi, dei loro sogni, della loro voglia di un mondo più giusto per uomini e animali. Siamo nel novembre 2008, a Milano, quando in un convulso fine settimana i cinque protagonisti mettono in atto il rapimento di Luigi Banes, cacciatore e assessore della regione Lombardia. Lo trasportano in Valtellina e lo tengono sotto sequestro, poi all'improvviso tutto cambia e i ruoli di forza all'interno del gruppo portano a una piega degli eventi diversa da quella prevista. Fino alla conclusione che inchioda ognuno alle sue responsabilità, lettore compreso. Questa storia è anche la storia della passione di Ricky per la musica: avrebbe voluto fare il paroliere e invece è finito in fabbrica. Il 10 novembre, giorno in cui la vicenda trova il suo epilogo, è l'ottantesimo compleanno di Ennio Morricone, il più grande compositore contemporaneo, e Ricky vuole fargli gli auguri. Chissà se ci riuscirà. uesta storia è inoltre la storia dell'amore di Ricky per Giulia, appena conosciuta ma già al centro dei suoi pensieri. Un amore che accompagna, in modo tenero e disperato, lo svolgersi dell'azione

special tank to Gabriele Dadati - Barbera editore

martedì 2 settembre 2008

Hier und Jetzt - Qui e ora di Silla Hicks
















Schegge di te

luccicano ai bordi delle strade

sotto la pioggia lurida

in cui annego con i miei stracci sporchi

di questo tempo inutile

non sapevo che il niente

mi aprisse voragini

tarli che mi fanno polvere

radioattiva



un chilometro dopo l’altro

una vita dopo l’altra

mi tengo assieme con pezzi di spago

una valigia di cartone

dimenticata in aeroporto

senza indirizzo:

come faranno a rispedirmi a te

domani.

giovedì 28 agosto 2008

Ordem e Progresso di Adriana Maria Leaci

È passato tanto tempo…
E a pensarci oggi
A vederti in foto
A seguirti sui giornali, riviste e tv
A sentire i parenti, amici e conoscenti
sei tanto cambiato.
Succede spesso.
Pensi di conoscere tutto
di sapere ogni dettaglio
di prevedere ogni evento.
In verità non sai niente
Ti sfuggono particolari
Non riconosci i colori
Dimentichi le parole che hai condiviso…
Quando ti ho lasciato
mi sembravi intrappolato dagli artigli della gente
La gente che ti sfrutta e che ti spreme
si arricchisce a tue spese e ti consuma
vantandosi dei beni che hai
a totale disposizione di chiunque.
Ti amavo troppo per restare solo a guardare
per assistere senza poter fare nulla.
Era il tempo dell’abbandono
Ti hanno lasciato milioni di volte
Per tornare di corsa piangendo
Come ho fatto io
Pensando di rimanere e rifarmi una vita
Invece ti ho deluso ancora
ho rifatto le valigie e ti ho salutato
in lacrime
per tornare quando
semmai Dio vorrà
Anche Iddio è tuo
L’hanno detto in tanti
In parte sei rimasto lo stesso…
Laddove non sono riusciti a toccarti
Laddove non c’è da togliere più niente
Laddove sembra vuoto
sembra
Quando ti ho lasciato
Credevo che ti avrei dimenticato
Chi ti sarà mai fedele abbastanza
e come me
ti rimpiangerà per sempre
Chi guarderà la tua gola e scoprirà le lenzuola?
Chi rimarrà con te fino alla fine
e avrà il coraggio di difenderti
Ti amerà senza condizioni
morirà per te
E solo così ti potrà dimenticare

martedì 26 agosto 2008

Lanterne Rosse, Parole Nere di Silla Hicks

Zang Ymou dei miei sogni di tigri e dragoni dice che i diritti umani ci fanno fragili, e forse è vero: solo dalla frusta e dalla paura e dal divieto di pensare cose diverse può nascere la perfetta compattezza di una coreografia senza errori, sbavature, fogli accartocciati sul pavimento e file interi chiusi senza salvarne un rigo, senza rimorsi né rimpianti né lacrime né rabbia: tutto il ciarpame che ci fa copie mal riuscite di dio, foglie umane perdute dentro al vento.
Zang Ymou delle mie notti illuminate di lanterne rosse dice che l’autodeterminazione è stata un regalo cattivo, che non sappiamo usare e di cui siamo indegni, che ci fa angeli caduti che hanno barattato ali di albatro per un bacio allagato di lacrime in cui finalmente annegare: l’eternità per un secondo tra le tue braccia, il nuotatore che potevo essere per quest’uomo che non è più niente.
So che se gli dessi retta, e mi strappassi via una buona volta le tue iniziali dalla pelle, forse rimarrei vivo, ma mi dispiace Zang, non ne varrebbe la pena, no.
Tu credi che la perfezione abbia valore: non ti accorgi che quello che fa i tuoi film immensi è il tuo occhio umano, e il fatto che feriscano e commuovano altri umani: il tuo dio di perfezione non ci crederebbe, ai tuoi combattimenti aerei o alla bellezza di Gong Li, ti direbbe che non sono possibili, che non sono reali, perché non ci sono foreste dove i pugnali volano e solo un pazzo visionario e umano può vederle.
Perché dio non sogna che se stesso, e tu lo sai: e seduto da qualche parte nel suo empireo vuoto quasi sempre guarda da un’altra parte, mentre il sangue si allarga sulle piastrelle del mondo, che sia ebraico o armeno o tibetano non cambia niente, a differenza della pelle ha sempre lo stesso colore, come le divise imposte da ogni tiranno, in ogni tempo e luogo, anche in quello in cui tu ti dici fiero di essere.
Pensi che ribellarsi non serve a niente, Zang, e hai ragione, nel senso che c’è sempre un carrarmato che può venirti addosso, e che non c’è pietà per i vinti, anche se si sono arresi: ma forse non ti rendi conto che il ragazzo di Tienanmen o quello con la bandierina che saluta gli alleati nelle ultime pagine di Malaparte muoiono nello stesso modo, è vero, ma i cingoli che li riducono in poltiglia non bastano, a cancellarli davvero.
Perché quelli che restano li ricordano, Zang, e li ricorderanno anche quando la tua Gong Li sarà una vecchia signora che non può più stregare il mondo scoprendo una spalla, e tu firmerai il tuo ultimo addio, e vincerai il tuo ultimo premio, e io ti guarderò per l’ultima volta in un cinema vuoto, come ho sempre fatto, in questi anni, con le lacrime agli occhi e dimenticando le parole che hai detto oggi, perché puoi dire quello che ti pare, ma il tuo cinema non è una parata di regime, ma una rivolta, la prova vivente che i sogni esistono, e che non c’è dittatura che li possa imbavagliare.
Senza accorgertene, è questo che dici, Zang, questo e non che è bello guardare burattini in fila telecomandati dietro al filo spinato della Corea del Nord : ne sono sicuro, perché ho visto “Non uno di meno” il più grande e sconosciuto dei tuoi film, quello più delicato e meno epico e fuori dal cinema ci siamo sentiti fortunati del tuo rivoluzionario regalo.
Dal villaggio polveroso alla megalopoli per ritrovarne uno: senza eroi né sciabole né salti, solo una ragazzina cenciosa che più che maestra è una capoclasse, la cui unica disciplina non è la frusta ma il cuore, lo stesso che fa tornare un superstite indietro a recuperare i compagni, a rischiare la vita.
Lo so che ci vuoi credere, che il tuo sia il migliore dei mondi possibili, per dormire ogni notte e non pensare di essere come me, perduto come un pacco per il mondo, con il peso delle tue origini e della tua lingua e del tuo cognome, la faccia del buio che ti guarda dallo specchio: so come ci si sente, a sembrare un SS, come la gente ti guarda, io sono nato il 10 novembre del ’72, ma non basta a convincermi di non essere mai stato dalla parte sbagliata, non ho fatto il soldato ma sono un tedesco, anche adesso che sono qui, anche adesso che parlo italiano, e che il suo cuore è l’unica casa che posso avere, l’unica cui voglia tornare, l’unica in cui non sia straniero.
So che hai paura, Zang, paura per tutto quello che sei diventato, paura che tutto finisca, per un carrarmato o qualsiasi altra cosa, il dalai lama o l’America, la storia che non puoi cambiare.
Ma ti prego, Zang, per me e per tutti quelli che hanno volato con la tua tigre, per tutti quelli che in tutto il mondo hanno visto i tuoi sogni e li hanno respirati diventandone schegge, e che se li portano in giro stretti per la mano, non fare l’errore di Leni, non guardare il mondo da sopra una gru per non vederne le ferite che marciscono, per non sentirne l’odore.
Il nostro mondo cade a pezzi, è vero.
E anche il mio cuore.
Vivo di scatolette, non sono più capace di dormire, ma non voglio sonniferi che non mi facciano sentire dolore.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio non sentirlo.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio, non essere così imperfetto, non volere morire né farlo poco alla volta ogni giorno.
Svegliarsi ogni giorno solo perché qualcuno gira la chiave nel quadro.
Senza scegliere di farlo, oppure no.
L’autodeterminazione è il caos, è vero, Zang.
Ma è da là che veniamo, non da un frattale. Per questo pensiamo tutti cose diverse, e le facciamo, e sbagliamo, e poi rifacciamo tutto da capo.
Infinite volte.
Fino alla fine del mondo.
Mentre dio ci guarda.

sabato 23 agosto 2008

Oz di Silla Hicks

Quando sei giovane, e ti senti il re del mondo, e non hai paura di niente perché pensi che dovrebbero essere loro ad aver paura di te, mentre una tegola ti fracassa il cuore senti il dolore, è ovvio, ma sei anche capace di aspettare che si rimargini, di star fermo e buono e non muoverti, finché non passa.
Ma quando ti guardi allo specchio, e ti rendi conto del perché nessuno ti chiama più ragazzo, e la faccia che ti fissa non è nemmeno più la tua, quando sei troppo stanco persino per farti la barba al mattino, e vaffanculo se hai una grattugia di spighe mal tagliate al posto della pelle, e ti infili a tentoni la stessa maglia che portavi ieri ed anche il giorno prima, e vedi un film fino alla fine ma non ti ricordi il titolo e nemmeno una scena, allora è tutta una altra storia, non pensi più che ne uscirai vivo, e nemmeno che ne uscirai più.
E pazienza se la gente pensa che sei forte, che potresti sradicare alberi e abbattere uomini con una testata: pazienza se qualche stronzetta ventenne dice persino che sei bello, con i tuoi occhi allagati di acqua trasparente e vuota, e vorrebbe portarti al letto, anche, come se bastasse scopare per spegnere il cervello: dieci anni fa svuotarsi i coglioni poteva anche bastare, ma adesso no, cazzo, non è più così.
Adesso guardo fuori che sta piovendo e mi sciolgo nell’acqua e non ci sono, o almeno non ci sono davvero.
Nei tergicristalli pezzettini di me attaccati alle gocce,e quando ti deciderai a metterli in ordine, a raccontare com’è andata per davvero.
Ma il fatto è che forse non lo so neanche più, com’è andata, non lo so e non me ne frega e vorrei soltanto che tutto si spegnesse, questa estate e l’autostrada e le code e la gente che va in vacanza, e questo nord che affonda in un monsone adesso, a ferragosto, la tempesta del secolo e io nell’occhio del ciclone, cazzo, almeno potesse portarmi via, su fino al cielo sopra al mondo di Oz per poi lasciarmi ricadere, con la motrice addosso, i miei anfibi che spuntano da sotto alle lamiere invece dei pedalini a righe della strega dell’Ovest e tu vestita come Dorothy che mi guardi stupita, la nostra vecchia Margot come il cagnolino spelacchiato Toto, e pazienza se quello era nero e lei è bianco sporco, chissà se te la ricordi, Margot, o se il tipo ha cancellato anche lei.
Ma invece non succede niente, piove e basta, e né questo né nessun uragano mi portarà da nessuna parte, e comunque sopra all’arcobaleno non ci abita nessuno, anche se io e te ci siamo stati, a volte, e no, non ci credo che non ci torneremo a vita, lui saprà la chimica e avrà una laurea e la faccia di Raul Bova, me l’hai detto ma non ci credo, e vaffanculo a lui e alla sua perfezione e vaffanculo alla sua generosità e alla sua intelligenza, vaffanculo, sì, perché è uno stronzo figlio di puttana sguaramazze del cazzo, e me ne strafotto se non è politically correct, io non lo sono.
Perché è vero che non c’è paragone, stavolta: non ci credo, ma lo so che lui è perfetto, un professionista, che parla una lingua sola e ha una sola patria e una statura accettabile e gli occhi di un colore vero, mentre io…sono solo me.
Un ignorante, una bestia con il cranio rasato e un cuore spezzato tatuato sopra al braccio: non sembro un principe ma piuttosto un wrestler deportato all’inferno, puzzo di fumo e di sudore, porto gli occhi incongrui di un androide e sfioro ogni stipite con la fronte.
Eccessivo, ingombrante, sempre fuori posto, non riesco a trovare vestiti né scarpe e parlo ogni lingua con l’accento sbagliato.
Non ho una patria in cui non sia straniero.
Sono la testa mozzata di Elias il maniscalco, che rotola nella polvere a metà della prima pagina di Q, e insieme le braccia alzate di Elias il marine, che negli ultimi venti minuti di Platoon viene falciato mentre gli elicotteri si allontanano: tutti e due hanno capito troppo tardi che nessuno verrà a prenderli, mentre gli alieni arrivano, e io lo capisco adesso, che finalmente so che ERI TU LA MIA VAZQUEZ, e sai che vuol dire, per me infinitamente più di un ti amo che chiunque può spergiurare.
Vuol dire che tu saresti tornata, sempre.
Saresti tornata, e li avresti fermati, sventagliando a tappeto mentre uscivano dalle sfottute pareti, e mi avresti raccolto sventrato chiudendomi le ferite con le dita.
Ma adesso no: adesso io sono Elias, tutti e due.
E non serve dirti che lui non ha bisogno di te, perché è già il settimo cavalleggeri, l’apprendista con la bisaccia, Chris il superstite, Ripley.
Lo sai, ed hai scelto lo stesso.
Forse, è giusto così.
Io non sono in carriera, non ho soldi né un lavoro buono, non sono un professionista in niente, non sarò mai qualcuno.
Non posso offrirti niente: ho le mani vuote, e tra poco sarò tutto vuoto, potrai gridarmi dentro ma ti risponderà solo l’eco, dovrei farmi una doccia e smettere di piangere, ma non voglio fare né una cosa né l’altra, non voglio più fingere di essere: me ne fotto di tutto questo cazzo di mondo di merda, sì, avete capito tutti, adesso basta, game over.
E vaffanculo se invece dovrei svegliarmi riposato tra quattro ore e sistemare il disco e ripartire, dicono alla TV che non dormiamo e guidiamo ubriachi fradici, cazzo, bastasse bere e non dormire per essere come sono io adesso, due mani sullo sterzo senza più né testa né cuore, carne da macello di cui non frega niente a nessuno.
Loro che ne sanno, di com’è stare soli, che ne sanno di com’è, quando i chilometri sono l’unica fottuta speranza che hai, di allontanarti da te, perché non hai niente a cui tornare.
Che ne sanno di com’è, quando non te ne frega niente di niente, e non dormi per niente, altro che quattro ore, perché sgrani gli occhi solo sull’incubo in cui sei da sveglio: che ne sanno di com’è, quando la strada ti ha triturato, e sei solo gli avanzi di una bestia investita nel retrovisore.
Se mettessi la strada che ho fatto negli ultimi sedici anni un chilometro appresso all’altro, credo che ne uscirebbe un nastro lungo da infiocchettare il mondo dieci volte: finalmente un bel regalo, da lasciarti in cima alle scale un’alba senza sole, una lettera d’amore che non sia solo parole messe in fila una notte che le lacrime ti hanno lasciato abbastanza occhi per riuscire a scriverle senza mangiarsi l’inchiostro, oltre che sfilacci di quello che resta di te.
Si, lo so, in questi giorni non lo scarteresti neanche, ma dovrà pur finire, e allora io sarò qua, se ci sarò ancora.
E ci sarà anche il mondo, questo e quello di Oz, dove tornare.
Weh spricht vergeh, no, non è vero che passa, vaffanculo Nietzsche, lurido nazista del cazzo, non è vero che passa, ma io sono qui, e sono i due Elias in uno, non mi serve la scure e nemmeno un M16, vienimi addosso, non mi fai paura.
Stanotte niente quattro ore di sonno, e nemmeno di pianti, stanotte che la luna è uno spicchio appena e io sto qua come Ciaula e tutto il mondo è un’immensa miniera nera.
Ma la luna c’è, comunque, e io so che esiste.
Oz è ancora là.
E anche tu ci sei, sotto la mia pelle, nelle mie ossa, nel mio sangue.
Sei la mia Vazquez, e tornerai a prendermi.
Un attimo prima che arrivino, entrerai sparando e li terrai lontani abbastanza perché non mi facciano a pezzi, e il tuo sguardo sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che tutto sfumi sui titoli di coda.
Prima di svegliarmi in un mondo senza dolore né rabbia né colpe, in cui c’è una strada di smeraldo, in cui non mi lascerai.

sabato 16 agosto 2008

Che fine ha fatto Mr. Y di Scarlett Thomas (Newton Compton, 2008)

Chissà perché quando penso a un libro maledetto, subito mi viene in mente il Necronomicon di H.P. Lovecraft, un’opera che lo scrittore di Providence ha consegnato alla storia della letteratura come gigantesco contenitore di abominii che viaggiano nel tempo e lo spazio per dominare mondi e creature. Ed è l’unica associazione che ho fatto, forse l’unica che poteva saltarmi in mente, leggendo lo splendido libro di Scarlett Thomas edito dalla Newton Compton dal titolo Che fine ha fatto Mr. Y. E lo Spazio-Tempo, le sue dinamiche, il viaggio in universi paralleli, e l’incontro con divinità mostruose (nell’accezione latina di monstrum come ciò che appare straordinario) è il filo conduttore delle vicende che sorreggono la vita narrativa della protagonista Ariel Manto. Giovane ricercatrice della British University, che a seguito della scomparsa del suo mentore, e al crollo di una parte della sua università, viene diretta dal Caso (in questo caso specifico il suo anagramma Caos è molto più pertinente) in un negozio di libri usati dove trova il tassello mancante per una sua ricerca su un autore singolare e misterioso come Lumas: ovvero la sua ultima opera dal titolo per l’appunto Che fine ha fatto Mr. Y. Questo scrittore, la cui vita era stata avvolta più da zone d’ombra che da una fulgida e trasparente esistenza, aveva sviluppato una serie di esperimenti sul potere della mente e su come grazie a singolari e potentissime energie mentali eteriche insite in ciascun individuo umano, ovviamente con il supporto di una particolare mistura la cui ricetta veniva indicata all’interno del grimorio maledetto, il viaggio in dimensioni diverse dalla nostra non solo risultava possibile, ma addirittura con la debita pratica si riusciva a entrare nella mente di altri soggetti sia persone che animali modificandone comportamenti e scelte, ma anche spostarsi (attraverso la Pedesis) nel tempo per modificare la Storia, le Storie. Il mondo in cui tutto ciò è possibile nel libro si chiama Troposfera, e il suo Dio-Guida è Apollo Smintheus, mezzo uomo e mezzo topo, divinità pagana venerata da uno sparuto gruppo di seguaci (più o meno sei persone che a lui hanno dedicato un culto in una piccola cittadina di provincia del nord-america) che orienterà le azioni di Ariel Manto salvandola da agenti psichici dell’Intelligence Americana facenti parte di un progetto segretissimo chiamato Starlight per il controllo delle menti (la Cia ma potrebbe essere tranquillamente l’FBI -ndc), desiderosi di impossessarsi della formula forse per creare, chissà, un super-soldato. I punti di forza che rendono affascinante un personaggio come Ariel Manto è il suo appeal da bella tenebrosa, e sessualmente famelica, con un pizzico d’aria bohemien che non disturba affatto. Le peculiarità che rendono completo, avvincente, godibilissimo questo lavoro, è che con assoluta disinvoltura si parli di Deridda, Einstein, e Heidegger, sviluppando per quest’ultimo l’ipotesi dell’esserci (Dasein) come perfetta gestazione causale di effetti nella realtà da parte del linguaggio, ovvero una vera e propria fenomenologia della liberazione umana, da condizionamenti, imposti al di fuori delle proprie coscienze ed esistenze. Chicca delle chicche, la teorizzazione da parte di una scienziata, una delle protagoniste secondarie dell’opera, con considerazioni scientifiche fatte in maniera davvero puntuale e rigorosa ,della fisica post-strutturalista. Non cedete alla tentazione,dopo aver letto questo libro di pensare a Matrix… è veramente tutta un’altra storia! E poi …siamo sicuri che Scarlett Thomas abbia scritto quest’opera come frutto di pura invenzione?



Titolo originale: The End of Mr Y.
Traduzione di Milvia Faccia

giovedì 14 agosto 2008

L'onda di Silla Hicks

Mi abita il dolore, in questa estate che è l’estate dei giochi di Pechino, di Free Tibet e degli atleti che hanno aspettato 4 anni i 10 secondi scarsi in cui correre i 100, ma anche l’estate della Petrella, che smettendo di mangiare si è illusa di perdere tutto il peso dei suoi anni di piombo.
Mi abita il dolore, in questa estate che è l’estate del vecchio Peter Pan Capanna, che parla in un paesino della Puglia illudendo e illudendosi che questa Italia abbia ancora dei sogni, di Zucchero che canta stasera allo stadio, e di Jovanotti che canta ovunque la nostra canzone.
Mi abita il dolore, in questa estate.
Mentre il mondo non finisce.
Ma è ancora la nostra canzone, perdio, e questo nessuno me la può levare, nemmeno te.
E me ne fotto di quello con cui l’ascolti adesso, è ancora la nostra canzone, cazzo, anche se è ancora quest’estate, e tutte le parole che so non bastano, a raccontare cosa sia il dolore.
Perché questa è anche mein sommer, la mia estate, l’estate di quest’ uomo che sta seduto davanti al PC stasera e non ha più faccia, ma solo lacrime che lo guardano dallo specchio, un occhio per ognuna, un caleidoscopio di sofferenza che è un mare in cui non sa né vuole più nuotare.
Nel 1999, quando avevo il cuore spezzato ma non sapevo ancora cosa significhi non averne che brandelli stretti tra le dita, mi sono aggrappato alla speranza dentro alle parole di Giuseppe, se resti vivo almeno saprai come va a finire.
Eravamo sul lungomare di Gallipoli, e così ubriachi che davvero non so come ho fatto, qualche ora dopo, a guidare fino a casa la mia – la nostra, ancora, lei – vecchia Panda.
Giuseppe aveva ancora i suoi capelli lunghi e soltanto la cagnetta Matilde ad aspettarlo a casa, sembrava ancora un tossico ma era già – da quasi dieci anni, penso - un bravo poliziotto, e forse per questo è stato capace di trovare le parole - le uniche che capissi - per farmi arrivare fino a domani.
Ci ripenso, stanotte, che Giuseppe porta i capelli cortissimi ed è a casa con la sua compagna e ha smesso di sbronzarsi e non può più passare la notte con un amico, risento la sua voce roca di Camel come una cantilena, e, mi spiace, non funziona più.
Mi spiace, Giuseppe, sono troppo stanco.
Sono così stanco che non so se ce la faccio, a tenere strette le tue parole fino a domattina.
Si, è vero, lo so che d’amore non si muore.
Ma ho capito anche che ad un certo punto ti scordi che può non essere sempre così, dimentichi come stavi prima, e allora smetti di nuotare per tornare a riva, e il mare che hai dentro t’inghiotte, e sputa via quello che resta di te triturato dalle eliche delle barche, inservibile.
E a quel punto, comunque, non hai più gli occhi, per vedere come va a finire.
E il dolore non è passato. Si è solo ritirato. Lo sai, e sai che tornerà, di nuovo. Anche se non sai quando, né come.nemmeno perché.
La scorsa settimana, Caterina – quella che ha il padre che vende scavatori, che ho conosciuto quando guidavo ancora le bisarche e che conosci anche tu, perché i casi della vita sono strani– mi ha regalato una maglia della JBC con un fantastico disegno in 3D che sembra fatto col Cad tanto è accurato, una ruspa con la pala alzata, insieme potente e docile, domestica, forte da maciullare un carro armato ma nata per scavare pozzi e fondamenta di case.
Ci ha messo tanto a trovare la mia taglia, e me l’ha data incartata, una specie di pacchetto, e nel darmelo mi ha fatto una specie di carezza con la punta delle dita sopra al braccio, tu sei così, mi ha detto, sei un pezzo di pane, anche se a vederti fai paura.
E poi, si aggiusta tutto, credimi, ha aggiunto, perché ha sentito l’odore della mia sofferenza nell’aria anche senza saperne niente, per quell’alchimia miracolosa che rende omniscente la specie umana: non so se sia stato questo a frantumarmi, ma non le ho detto neanche grazie, l’ho abbracciata e io che sono due metri mi sono accartocciato sulle spalle di questa ragazza che non arriva a uno e settanta nemmeno con le scarpe con le zeppe che porta tutti giorni, squassato da singhiozzi che non riuscivo a fermare.
Lei è rimasta ferma, nel mezzo del piazzale con questo gigante addosso che non sapeva smettere di piangere nè pensare alla figura di cazzo o alla vergogna o a niente altro, accarezzandomi i capelli come una madre , anche se ci togliamo due anni appena.
Non mi ha chiesto niente, Caterina.
Non le ho detto niente.
Ma ho capito in quel momento di non sapere più nuotare.
Di non avere nelle braccia la forza per arrivare a riva, e nella testa quella di continuare a inspirare e espirare senza ingoiare l’acqua.
Di non sapere più farlo, sì. E forse di non volerlo nemmeno più.
Di sentire il blu sotto di me allargarsi, e volere solo smettere di pensare. Spegnermi. Finchè non ti ricorderai che esisto, quando sarà, se sarà.
Perché non riesco a rimanere vivo, sai, Giuseppe, non ci riesco ad aspettare come andrà a finire. Non riesco a vivere, e vaffanculo se non morirò nemmeno, l’importante è che io non sia vivo quando la prossima onda arriverà e mi stritolerà di nuovo, perché così non potrò sentirla, e si prenderà solo una scatola vuota.
Perché arriverà, Giuseppe, arriverà e mi porterà via e mi farà a pezzi sugli scogli, e poi si ritirerà, e tornerà ancora.
Così, per tutto il tempo che lei ci metterà a tornare.
Anche se di me rimarranno grani di sabbia, anche se i vermi mangeranno il resto prima che lei torni, anche se il fuoco di un altro traforo mi ridurrà in cenere o un Boing impazzito si schianterà contro il mio camion o un palestinese ci si farà esplodere accanto, anche se rimarrà uno solo dei miei capelli o un frammento delle mie viscere, anche allora, l’onda arriverà, e mi porterà via, e poi si ritirerà, e tornerà ancora.
Finché lei non tornerà, e mi raccoglierà come una conchiglia sulla spiaggia, e mi appenderà di nuovo al suo collo, e vaffanculo dove e con chi è stata fino allora, vaffanculo dio, fai che cazzo vuoi, ti regalo la mia anima ma ti prego in ginocchio di farla tornare, un solo giorno e poi basta, poi regalami a tutti i supplizianti che vuoi, mi cuciano gli occhi di filo spinato e la bocca di spago, tutto l’eterno di torture per un solo minuto nelle sue mani.
La bottiglia di vodka davanti a me è chiusa.
L’ho comprata, ma non l’ho aperta.
La guardo, e la rimetto in frigo.
Sono troppo vecchio per avere ancora queste illusioni. Troppo vecchio per credere di poter imparare a nuotare di nuovo.
Traum in tedesco significa sogno. In italiano, trauma è una brutta cosa, dopo la quale non sei più quello che eri prima. Forse, c’è già tutto nelle parole. Forse, c’è sempre un trauma dentro ai sogni.
Per questo, ti scordi come farli. Per questo, ti scordi di sapere nuotare.
Ho sognato la vita sognata dagli angeli. Ma adesso sono sveglio, e sono stanco, cazzo, sono stramaledettamente stanco.
L’onda è di nuovo vicina, ne sento il fragore assordante di silenzio, e so che sarà peggio dell’altra volta perché ogni volta è peggio, ma chiudo gli occhi, e mi passa attraverso, peso centodieci chili ma sono solo una pagliuzza, che può trascinare dove vuole.
Gli scogli sono rasoi, nel buio. Ho gli occhi chiusi, e non posso vederli, mi rannicchio su un fianco con la tua giacca di pigiama sulla faccia, c’è il tuo odore a proteggermi, e non ho più bisogno di ricordare come nuotare.
L’onda è fredda, densa, nera. L’onda si ritira, così potrà tornare.
Dio, lo so che quest’uomo non vale un cazzo, rispetto al Tibet o alle Torri o a Guantanamo o all’Olocausto. Dio, lo so che quest’uomo non vale un cazzo, rispetto a tutti quelli che muoiono ogni giorno, o sognano ogni giorno, dovunque siano.
Ma quest’uomo è qui, in questa cazzo di estate, e muore senza morire ogni secondo.
Dio, ti prego, fammela tornare, solo un minuto, che dia un senso a tutto.
Ti prego dio, un minuto solo. Soltanto un attimo. Prima che l’onda mi porti via di nuovo. Prima che io non senta nemmeno più dolore, e ci sia solo buio, per tutto il resto del tempo. Per sempre, fino a che non la farai tornare.

lunedì 11 agosto 2008

Basta


L'altra notte ennesima STRAGE sulle strade, che ha coinvolto 9 ragazzi di cui 7 i morti e una ragazza lotta per sopravvivere!
Notizie che ti lasciano nella tristezza più assoluta, anche se non conosci i diretti interessati, ma che ti fanno fermare a pensare.... Ormai quando esci la sera con la macchina non sai più se riesci a tornare a casa sano e salvo. Ma ormai che si può fare?

(Queste non sono parole mie...ma sono di Matteo Gennero ovvero www.matteogennaro.blogspot.com. Aderisco alla sua "campagna" di sensibilizzazione)

Mein Sommer di Silla Hicks

















MEIN SOMMER

Non so più nuotare

vado a fondo

guscio di noce bucato

non ci sono più corsie nè blocchi

cloro che mi bruci gli occhi

non ci sono scogli

nè onde, nè alghe

il mare si è asciugato su questo pavimento

è soltanto una pozza

da cui lascio orme

di fango nero.



Fai finta

che le tracce dei miei anfibi sfondati

siano briciole di pane

dentro alla foresta incantata

come pollicino

vienimi a cercare

prima che sia buio

per sempre.




fonte iconografica www.stoa.usp.br

mercoledì 6 agosto 2008

Il tango delle fate di Riccardo Reim - Hacca editrice


Tullio Pinelli è uno dei più illustri e importanti sceneggiatori italiani. Ormai è uno dei “mammasantissima” dell’olimpo culturale italiano, riconosciuto e certificato. Lo ricordiamo per aver collaborato con Federico Fellini alla sceneggiatura dei film Luci del varietà, Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, Il bidone, La dolce vita sino al mitico trittico di Amici miei per Mario Monicelli. Tutte cose che al cinema o in tv in molti, moltissimi hanno potuto veder e, gustare, partecipando emotivamente alle vicende degli splendidi personaggi, singolari, un po’ fuori le righe, da Pinelli creati. Ma Pinelli lo ricordiamo anche per bellissime prove di narrativa come La casa di Robespierre (Sellerio) o l’ultimissimo Innamorarsi, una raccolta di racconti per la neonata Edizioni Controluce. Partiamo proprio da Pinelli perché è stato forse l’unico, o uno dei pochissimi, a fondere diversi registri, quello cinematografico, teatrale, e scritturale ottenendo risultati singolari per freschezza e vivacità. Sembra che nella più immediata contemporaneità, per certi aspetti un suo degno erede, sia proprio Riccardo Reim nel suo interessante Il tango delle fate edito da Hacca. Scrittore, regista, attore ha avuto l’opportunità con questa sua nuova avventura narrativa di mostrare come sia possibile giocare sulle diverse combinazioni di esistenze possibili, oggi più che mai nell’era della trasformazione e della mutazione. L’oggetto del “massacro” è l’Io, anzi uno dei possibili Io del protagonista, in bilico sul baratro di una non-presenza nella realtà, di una non-aderenza circa la ricerca di una sua identità… necessaria alla resa dei conti? Problemini di tal sorta li lasciamo alla psicologia da salotto. Già perchè il/la protagonista (magistrale la tenuta di stile nel destreggiarsi in un mondo misero e piccolo piccolo, grigio, bastardo e volgare, effettuando un vero e proprio salto di paradigma sulla sessualità, divenendo una voce poli-sessuale a tutti gli effetti) , Caminito (traduciamo sentiero) danzatrice/danzatore di tango, e Bernadette, allucinazione psico-mistica con evidente riferimento alla bambina di Lourdes, sono personaggi d’un’opera aperta e forse tutta ancora da scrivere, che nulla hanno da invidiare ai 6 personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Stessi vuoti, stesse penombre, stesso riso amaro, stessa disperazione. Caminito, animaletto strano, voglioso di una vita normale, di un amore normale, di affetti e oggetti quotidiani normali, anche a costo di tagliare con un trancio netto ,una parte di sé. Non ci vedo nulla di un’interiorizzazione da parte di Reim del declino post-industriale dell’individuo o dell’alienazione da abitante dell’oggi turbo-capitalistico. Anzi, ci vedo un godere meraviglioso della e per la vita, nonostante tutto, nonostante le privazioni, le amputazioni, le rinunce, le preghiere, e nonostante tutto il ben volere delle “fate” e la protezione di una grande, gigantesca, infinitamente ed eburneamente amorevole “Signora” …. Una ricerca forse del Bello da parte di Riccardo Reim, senza se e senza ma, che a parte le macerie, vuole portare alla luce anche nelle piccole cose di ogni giorno: “ La domenica, tutte le patriarcali famiglie che uscivano dalla messa al Duomo o alle vicine chiese di San Bernardino e San Domenico Maggiore, acquistavano immancabilmente le otto, dieci, dodici paste destinate a dare la ghiotta nota finale al pranzo della festa: paste gigantesche, gravide di crema e di panna, lustre di glassa, spolverizzate di vaniglia e cacao. Sfogliatelle scagliose che crocchiavano come vetro sotto i denti mentre il ripieno di ricotta e canditi si liquefaceva sulla lingua; morbide ciambelle che si sfarinavano addentadole, cosparse di zucchero granellato e uvetta; crostate di pastafrolla ricoperte da un fitto strato di confettura che impiastricciava le labbra; croccanti al miele tempestati di mandorle e pinoli …” Cos’altro da aggiungere…

martedì 5 agosto 2008

Maurizio Leo e il suo book trailer








book trailer del libro di Maurizio Leo "Del Gatto delle fusa del suo strusciamento" edito da Lupo editore regia Mangialardo Mazzotta voce di Massimo Colazzo

domenica 3 agosto 2008

Stupid ...but real!




- Prima di decidere. vorrei farti notare una cosa ... osserva bene dunque! -
- Anche tu fammi un piccolo favore, non volermene ... soppesa il Silenzio se puoi!-
- Tutto ciò che desideri, mio caro amico!-
- Vedi queste cerniere ... sono campi seminati di carne e sangue, dove ogni attimo di luce, lo si paga con sofferenze e terrore...
coglierne l'essenza è facile, ma uscirne è impossibile! -
- Io non credo ai fantasmi! -
- Io sì invece! -

fonte http://static.howstuffworks.com

mercoledì 30 luglio 2008

Mario Capanna a Santa Caterina











Comune di Nardò
Provincia di Lecce
Regione Puglia
Pro-Loco di Santa Caterina
Costruire Insieme
Presidi del Libro

Presentano


Venerdì 1 agosto ore 20.30

Santa Caterina – Piazza Nardò



Mario Capanna

Il sessantotto al futuro

Garzanti


Introduce

Sonia Cataldo – Presidente associazione Emergenze Sud – Parabita

Interverranno

Gino Santoro – Università del Salento
Genoveffa Giuri del direttivo dell’Associazione Costruire Insieme

Il vicesindaco Giancarlo De Pascalis
Recherà il saluto dell’Amministrazione comunale di Nardò



Un saggio polemico sul Sessantotto, tra passato e futuro prossimo. Mario Capanna traccia la storia di questo periodo senza tralasciare alcuni consigli su ciò che reputa opportuno per l'Italia nel suo futuro politico-esistenziale. Dall'analisi storica a quella sociologica, dalla ricerca di nuovi assetti per la democrazia all'economia, il '68 ha unito multiformi elementi nell'espressione unitaria di un disagio e nella forte asserzione, da parte di migliaia di individui, di tornare ad essere soggetti e protagonisti del progresso.

Mario Capanna è uno tra gli scrittori italiani più affermati . Tra le sue opere principali ricordiamo Formidabili quegli anni (1988); Arafat (1989, sulla figura del leader palestinese Yāser ˁArafāt, molto stimato da Capanna); Speranze (1994); Il fiume della prepotenza (1996); Lettera a mio figlio sul '68 (1998, di cui curò ben 12 edizioni); L'Italia viva (2000); tutti libri editi dalla Rizzoli. Nel 2003, per la Baldini & Castoldi, ha pubblicato Verrò da te, considerato da molti il suo lavoro letterario più riuscito; Coscienza globale oltre l'irrazionalità moderna (2006)

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My Hero Academia: Oltre l'eroismo, un'esplosione di poteri e valori

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