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martedì 29 gennaio 2008

S. CIURLIA, Varietas in unitate. Individualismo, scienza e politica nel pensiero di Leibniz, Trepuzzi (Le), Publigrafic edizioni, 2008, pp. 286.



















Il volume analizza e discute alcune delle più significative tematiche della riflessione di Leibniz, dal nominalismo giovanile allo studio del disegno teorico su cui si fondano gli istituti accademici, dal confronto con l’aristotelismo umanistico-rinascimentale alla discussione sull’importanza politica di concetti quali «pace perpetua» e federalismo, dall’analisi del ruolo della filosofia in una società in fibrillazione come quella pre-illuministica alla proposta di un’«Europa dei popoli», rispettosa delle tradizioni delle genti. Il tutto all’insegna di una rigoroso dialogo critico con le istanze più recenti ed innovative della storiografia leibniziana, nella convinzione che il filosofo tedesco sia «un pensatore cui l’età moderna deve una delle più suggestive letture di sé» (dall’Introduzione).







SANDRO CIURLIA è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Camerino.I suoi interessi di ricerca si sono indirizzati allo studio della cultura filosofico-politica europea sei-settecentesca, in particolare tedesca: ha pubblicato numerosi saggi su Leibniz, Kant, Hegel e Schelling. Si è anche occupato del metodo dell’indagine storiografica e delle dinamiche storico-critiche dell’ermeneutica filosofica moderna e contemporanea. Ha fondato, nel 1998, “Arché. Rivista internazionale di filosofia e di cultura politica”. Collabora con numerose riviste nazionali di filosofia e di cultura storico-politica. Di recente, ha pubblicato su Leibniz: Antonio Corsano e la filosofia analitica: il pensiero giovanile di Leibniz (Galatina, Congedo, 2002) e Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz (Galatina, Congedo, 2004); Diritto, Giustizia, Stato. Leibniz e la rifondazione etica della politica (Lecce, Pensa MultiMedia, 2005). Sulle tematiche ermeneutiche, si segnalano Ermeneutica e politica. L’interpretazione come modello di razionalità (Saonara (Pd), Il Prato, 2007) e la co-curatela dell’edizione italiana di R.E. PALMER, Cosa significa ermeneutica? (Nardò, Besa, 2008).

domenica 27 gennaio 2008

John Titor. I was "sent"...










I was "sent" to get an IBM computer system called the 5100. It was one the first portable computers made and it has the ability to read the older IBM programming languages in addition to APL and Basic. We need the system to "debug" various legacy computer programs in 2036. UNIX has a problem in 2038.
On my worldline, it is known that the 5100 series is capable of reading all the IBM code written before the widespread use of APL and Basic.
In 2036, it was discovered (or at least known after testing) that the 5100 computer was capable of reading and changing all of the legacy code written by IBM before the release of that system and still be able to create new code in APL and basic. That is the reason we need it in 2036. However, IBM never published that information because it would have probably destroyed a large part of their business infrastructure in the early 70s. In fact, I would bet the engineers were probably told to keep their mouth's shut.


"Io sono stato "inviato" per prendere un computer IBM denominato con la sigla 5100. È stato uno dei primi computer portatili prodotti e ha la capacità di leggere i più vecchi linguaggi di programmazione IBM in aggiunta a APL e Basic. Il sistema ci serve per "debuggare" vari programmi per computer nel 2036. UNIX ha un problema nel 2038.
Nella mia worldline, è noto che la serie 5100 è capace di leggere tutto il codice IBM scritto prima dell'uso diffuso di APL e Basic.
Nel 2036, fu scoperto (o almeno, si è saputo dopo dei test) che il computer 5100 era capace di leggere e modificare tutto il codice scritto da IBM prima del rilascio di quel sistema e che era capace di creare nuovo codice in APL e Basic. Questa è la ragione per cui ne abbiamo bisogno nel 2036. Comunque, IBM non ha mai pubblicato questa informazione perché avrebbe probabilmente distrutto una gran parte della loro infrastruttura commerciale nei primi anni settanta. Infatti, ci scommetterei che agli ingegneri venne detto di tenere la bocca chiusa."

fonte Wikipedia
fonte iconografica www.repubblica.it

sabato 26 gennaio 2008

Tratti in margine

















Per quanto terribile il mio rossore
Non avrò più malesseri ad avvolgerti
In un abbraccio che solo per sguardi incerti
Arrischia visione per quel candore di polsi
Che stracciano senza alcun consenso amore.


Porterò il lutto in tasca e senza lisca d’oblio
Trasformerò il languore dei mei silenzi in odio
Senza troppe smancerie o l’obbligo indiscreto di un addio.

Tratti in margine saranno i ricordi e a nulla serviranno
Gli strappi del consenso che chiuderanno sguardi innocenti
Su pagine e pagine di ebete silenzio o di quasi morte.


fonte iconografica www.alexvisani.com

giovedì 24 gennaio 2008

Untitled ed.
















A passo d'angelo: l'avventura Untitl.Ed
Presentazione della casa editrice Untitled Editori (Untitl.Ed) e del libro "A passo d'angelo"

Interverranno:
Anna Maria Palladino (Untitl.Ed)

Mikel Capelli (autore)



Lecce - Libreria Icaro – sabato 26 gennaio ore 19



Untitl.Ed è stata la prima casa editrice a pubblicare esclusivamente libri scritti da blogger.

L’idea fondante di Untitl.Ed è quella di creare un ponte tra l’autopubblicazione sul web e l’editoria tradizionale.

Untitl.Ed sceglie i suoi autori in base a ciò che scrivono quotidianamente in rete, e li sfida a costruire un libro nuovo – su commissione cioè.

Si guarda al blog dunque non come a una vetrina di testi, ma come al vocabolario effettivo dell’autore, dal quale il libro intravisto prenderà impulso e struttura.

I libri Untitl.Ed sono tutti uguali e non hanno il nome dell’autore in copertina: untitled è inteso come de-titolato, ovvero privo di titoli preventivi che autorizzino lo scrittore a scrivere. Untitl.Ed invita pertanto i suoi autori a fare un passo indietro, a rinunciare a trasformarsi in personaggio-autore (costruendo su quest’immagine la fortuna del proprio libro), affidandosi solo alla forza e all’evidenza delle proprie parole scritte. Esattamente come avviene in rete – dove ognuno è relativamente anonimo, ma non per questo meno riconoscibile.



www.untitlededitori.com

martedì 22 gennaio 2008

Le Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès viste da Nunzio Festa.















Faraòn Meteosès, fa anagramma del suo vero nome: Stefano Amorose; come esattamente fa anagramma della lingua italiana, anzi dei versi, o del verso che versificar si voglia. La miscela incantevole contenuta in Psicofantaossessione permette d’aprire gli occhietti sulla poesia. Amorese raccoglie le sfide lanciate dal mondo, grazie alla sua capacità di mettere in moto un meccanismo – una meccanica poetica – tutt’altro che rispondente a canoni modaioli. E se il termine meccanica può apparire antipoetico, da un pezzo esemplare di KM 1999 è possibile prendere risposta immediata dalle poetica superba di F. M. “Esserci stati, quando ci dovevamo essere, / dietro le barricate, entro le scuole a studiare il Moismo / contro i conservatori, a fianco dei progressisti, / lungo i corsi centrali, nelle piazze, / durante le marce autogestite, / alle manifestazioni non violente”, fino a toccare il cambio di passo che conduce all’estremo. “E noi che abbiamo più di trent’anni suonati, / abbiamo piantato un fiore sopra il cavalcavia / dell’autostrada del Sole al Km 1999, / mentre lassù sfreccia un concorde, / là transita il treno per Lourdes / tu mi consigli di contrarre una pensione integrativa, / d’istallare un impianto a GPL /… di comprarmi la casa a riscatto.” Aldo Nove, per la queste poesie ha parlato di “sapiente dialettica, giustapposizione di voci e forme”, e persino di “un viaggio onirico nella sintassi e nel lessico”. Cogliendo a pieno nel segno. Tanti altri pareri critici, più che favorevoli, ha raccolto per quest’opera prima il poeta romano classe ’65. Dunque occorre entrare in territori che non sembrano ascoltati come si dovrebbe. Amorese non è un nuovo futurista, non è il neo nato cannibale che sa fare versi Contro o dentro. Nonostante una lirica per il fratello Bovè. Stefano Amorese ha composto una volume che strumentalizza la lingua italiota per permetterle di rovinare certezze acquisite nel corso degli anni, per rivolgere un saluto fatto di invenzioni musicali e Sensazionali all’umanità che vive in forma di gregge. E l’umanità tutta dovrebbe sospirare a contatto con cadenze e una dimestichezza nel lasciare a bocca semiaperta, farsi sconvolgere come difficilmente sa ormai fare. Psicofantaossessioni è la maniera giusta per ricordare che esiste ancora una forma di libertà che è possibile inseguire, ricercare, oltre che con cura rispettare. Dove c’è l’attuale e il quotidiano, dove il passato si fa condire dal presente arriverà il pensiero di questi versi sublimi scabroso.



Psicofantaossessioni, di Faraòn Meteosès, LietoColle (2007)

La ragazza sordomuta. Racconto di Dora Albanese




















Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira - con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
- Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta - quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia - mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole - ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone - come fosse una cicatrice - e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre - Caterina, italiana d’origine - era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo - erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali - frequentati di nascosto - che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo - quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia - si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac - la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno - memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio - per scegliere quale giovane orfano prendere con sé - quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio - e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire - gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti - quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento - sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera - iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta - per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa - era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni - un ragazzo, ormai - che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così - finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

fonte Musicaos.it
fonte iconografica www.nicolalalli.it
nell'immagine opera di J. Fussli

domenica 20 gennaio 2008

... e di nuovo verrai di niente vestita









Forse sei arrivata davvero

Sono entrato nel settimo sogno

L’aria a lungo sperata e immaginata
Nella polvere che si colora
Prende forma
Comincio a toccarla
Si lascia attraversare

Poi si scompone
Come di respiri mischiati
In un nuovo vivere

Fresco tra le dita
Ancora mistero
E d’intorno senso pieno


Vito Antonio Conte, … e di nuovo verrai di niente vestita
Luca Pensa editore

fonte iconografica www.repubblica.it
nella foto Victoria Silverstedt

giovedì 17 gennaio 2008

La sveglia elettrica di Icaro Ravasi

















Amica cantante di “chicchiricchì elettrico”
Quadro di pittore matematico senza pennello
Notturna e diurna
O meglio:
nottambula e girovaga
sempre all’erta
e in carica

da “La chitarra blu” con prefazione di Dacia Maraini
edizioni Libere

fonte iconografica www.letrottoir.it

mercoledì 16 gennaio 2008

Amoà Fatuiva. Orizzonti Impazziti









Ho steso un tappeto come una sposa dell'Est
ricamato con i miti di regioni sconosciute
per festeggiare il ritorno del tuo destriero.
Ho vegliato tutta la notte pregando i xhin
affinchè il maestrale non ti portasse via.
Giungerai con passi silenziosi come la tua Ombra
e vi imporrai l'orma duratura
della tua Storia

da Orizzonti impazziti di Amoà Fatuiva (Besa editrice)

lunedì 14 gennaio 2008

Io sono leggenda di Richard Matheson

Il libro di Matheson non è un libro qualunque. Non so se sia un errore o meno lasciarsi prendere dalla voglia di incasellarlo all’interno di un genere letterario, come quello dark ad esempio, perché verrebbero messe fuori due altre categorie come l’horror e il noir, che tutte e due l’autore sintetizza in maniera davvero esemplare. E allora? Lasciamo da parte qualsiasi intento sistematizzante, che in certi casi, e mai come in questo, si rischierebbe di fare gran brutte figure. O peggio uscirsene alla buona con affermazioni del tipo … una splendida metafora del limite sottile esistente tra normalità e diversità. L’orizzonte in cui si muove la vicenda narrata è l’Apocalisse. Per essere più chiari: immaginiamo uno scenario consueto come quello che trascorriamo giorno per giorno, dove gli oggetti, le persone, le cose, i ricordi, le nostre abitudini, il lavoro che svolgiamo per tirare a campare, gli affetti facenti parte non solo del nostro bagaglio interiore, ma anche di quello agito nella realtà, scompaiono improvvisamente. E di tutto quell’universo esistenziale non rimane altro che un sopravvissuto, che scoprirà a sue spese di non essere l’unico! La meccanica narrativa sviluppata da Matheson in “Io sono Leggenda” percorre con grandissima lucidità tutte quelle dinamiche psicopatologiche che fanne parte degli abissi mentali di tutti coloro i quali riescono a sfuggire ad un disastro: sciagura aerea, attacco terroristico, guerra, incidente automobilistico mortale. Poi l’autore lavora ancora di fino, e con grande disinvoltura rappresenta tutte le tecniche di sopravvivenza, che un essere umano può mettere in campo, in un ambiente ostile, pericoloso, dove l’altro è né più né meno che un predatore, con mezzi di sussistenza che diminuiscono copiosamente con il trascorrere del tempo, secondo la legge della darwiniana selezione della specie: il più forte domina, il più debole soccombe. Ma non è così semplice. In base a questa teoria si tratterebbe di eliminare i pesi morti della specie di riferimento, per migliorarne esponenzialmente la qualità, potenzialità, e la produttività. Nello specifico, è in ballo la razza umana, il suo ultimo prodotto. Parliamo di una minaccia che viene dallo spazio? Una guerra termonucleare su scala planetaria? No un batterio ad alto potenziale virale, trasforma gli esseri umani in vampiri. Robert Neville sembra uno di noi, che dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa, svolge le sue attività domestiche, del tipo cucina, scopa per terra, ascolta un disco, si siede in poltrona ascoltando musica classica, si concede la lettura di un libro. Mi si potrebbe dire … e allora? Tutto nella norma! Eppure la sua è una vita tutt’altro che normale. Di giorno forse … ma dopo il tramonto…le cose cambiano! Neville è l’ultimo uomo sulla Terra in un mondo completamente popolato da vampiri.Robert in perfetta solitudine, studia il suo nemico. Ne analizza ogni singolo aspetto, la storia, la leggenda, il mito di questi abomini, e addirittura riesce ad entrare in possesso di un campione di sangue di questi neo-vampiri, e ne studia chimicamente la composizione. Il tutto per raggiungere un unico, fondamentale obiettivo: lo sterminio delle creature delle tenebre. La storia è ambientata nel 1976. In questi giorni esce nelle sale cinematografiche il film con Will Smith, dove l’ambientazione appartiene ai nostri giorni. Sia in un caso che nell’altro rimarremo tutti a bocca aperta!

fonte Musicaos.it


Io sono Leggenda, di Richard Matheson, Fanucci, pp.224, euro 13

domenica 13 gennaio 2008

John Titor. Nessuna delle cose che ho detto ...















None of the things I have said will be a surprise. They were set in motion ten, twenty, even thirty years ago. Are you really surprised to find out that Iraq has nukes now or is that just BS to whip everyone up into accepting the next war?


Nessuna delle cose che ho detto saranno una sorpresa. Esse sono state messe in moto dieci, venti, perfino trenta anni fa. Ora vi sorprenderebbe di più scoprire che l'Iraq ha delle armi nucleari o che era solo una stronzata perché tutti accettassero la guerra?

John Titor


fonte iconografica www.heavyplace.com
fonte testuale www.wikipedia.com

sabato 12 gennaio 2008

John Titor. Nel 2008 ...






















The year 2008 was a general date by which time everyone will realize the world they thought they were living in was over (or never was).

Il 2008 è l'anno entro il quale chiunque si renderà conto che il mondo in cui pensavano di vivere è ormai finito (o non è mai esistito)

John Titor


fonte testuale www.wikipedia.it
fonte iconografica www.ciai-s.net

mercoledì 9 gennaio 2008

John Titor. Nel 2036...



















«Sì, credo in Gesù Cristo e preghiamo Dio nelle chiese. Ci sono alcune differenze che vi potranno interessare. La religione è una parte enorme nella vita della gente nel 2036. Il dolore e i cambiamenti tendono ad avvicinare le persone agli altri e a Dio. Comunque, la religione è molto più personale di quello che è ora. Non ci sono religioni grosse e centralizzate e le persone parlano apertamente delle loro credenze. Vi potrà interessare anche il fatto che il giorno della preghiera è il sabato, il giorno che Dio ha creato come Shabbat e che i 10 comandamenti sono tornati a essere i "10" che Dio ci ha dato. »
(John Titor )

fonte www.wikipedia.it

lunedì 7 gennaio 2008

In Padania...sognando Mutu. Di Mihai Mircea Butcovan




















Povero io sono
e solo i miei sogni posseggo
Cammina in punta di piedi
perché cammini sui miei sogni.

William Butler Yeats

«Effettivamente, se bruciassero le tende degli zingari, stasera, domani potremmo vincere la partita di calcio… Se brucia anche la casa di Andrei, che è fortissimo, domani non verrà a scuola».

Questo pensavo ieri sera, dopo aver origliato le discussioni da grandi che mio padre faceva nella tavernetta con i suoi amici. Mi aveva detto: «Andrea, vai in camera tua che dobbiamo fare discorsi da grandi!» Ero già molto agitato perché oggi si doveva giocare ancora, a scuola, una partita del torneo di calcetto.

Ieri pomeriggio mio padre aveva occupato il telefono per più di due ore. Appena metteva giù la cornetta, il telefono squillava di nuovo e papà urlava: «Adünansa… ci troviamo da me, prima di cena, vedi di trovare anche Giuanin il Viscunt e il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent, tucc!».

Tra tutti i sopranomi che avevano gli amici di papà Esercent era quello che mi piaceva di più. Sembrava il nome di un rapper d’oltreoceano. Gli amici chiamavano mio padre Parabula, forse perché ogni volta che iniziava un discorso diceva: «Par esempi…». Invece la mamma diceva che lo chiamavano così perché era un po’ la sua storia di impegno politico. E mia madre chiamava Parabula anche lo zio, il fratello del papà, che è nel sindacato.

Ieri sera erano tutti lì, tranne lo zio, nella tavernetta di sotto, e Giuanin diceva: «Dobbiamo mandarli via quei baluba. Quelli che rubano nelle case e rubano i bambini e ammazzano la gente… zingari comunisti mangiabambini…»

Il mio sogno è quello di fare il calciatore. E sogno di fare gol come Mutu. Lo avevo visto quando ero andato allo stadio con il nonno, a San Siro. Il nonno m’aveva detto: «Si va allo stadio, Andrea. Per vedere il bel calcio e fare festa».

Oggi invece, a scuola, si doveva giocare contro quelli della sezione B, fortissimi. E sono diventati ancor più forti da quando è arrivato Andrei, “il rom”. Io invidio Sergio, non mi vergogno e gliel’ho detto in faccia. Sergio è il mio amico d’infanzia, il mio vicino di casa e compagno di classe fino all’anno scorso. Poi ha cambiato sezione da quando mio padre aveva detto, alla riunione coi genitori, che la sezione A doveva rimanere degli italiani e non si dovevano inserire ragazzi stranieri. «E nemmeno terroni…» aveva aggiunto papà a denti stretti mentre si sedeva. Ma ormai gli altri genitori l’avevano sentito ed il padre di Sergio ha deciso di spostare suo figlio in un’altra classe.

Sergio fa le vacanze estive dai nonni a Palermo. Ha in classe un cinese, un marocchino, due filippini, un romeno e due zingari “rom”. «I rom non sono romeni», dice Sergio. Glielo ha spiegato Gabriel, il compagno romeno. Ma Andrei e Sergiu, i due rom, vengono dalla Romania. Giocano benissimo a pallone. Arrivano ogni giorno a scuola con un pulmino. Vivono in un campo nomadi in delle “tende provvisorie”. Li hanno mandati via dalle baracche di un altro campo. «Sono un po’ vivaci, come noi» dice Sergio. E sono fortissimi nella corsa e nel calcio.

Sotto, nella tavernetta, mio padre stava urlando parolacce, ieri sera.

Domenica gioca il Milan, si va allo stadio… Anche lì papà dice le parolacce… Ieri sera papà ha tirato fuori la maglietta con la scritta: Tegn dur contro il sud magrebino. «Non si sa mai», ha detto alla mamma.

Quella maglietta papà l’ha comprata qualche anno fa, ad una festa dove erano tutti vestiti di verde, come dei marziani o come la squadra dell’Irlanda. C’era un rito dell’acqua e tutti che gridavano: «Fuori l’Italia dalla Padania, fuori la Padania dall’Italia, e fuori l’Italia dall’Europa». Poi col tempo hanno cambiato, gridano lo stesso, ma cose tipo: «Fuori gli zingari dall’Italia, e tutti i baluba a casa loro».

Ricordo che c’era quella volta un uomo col fazzoletto verde che urlava al microfono: «Noi quella gente non la vogliamo, padroni a casa nostra, stiamo bene da soli…». Io pensavo che è triste vivere da soli. Si era agitato per un’ora quel signore col microfono. E tutti si agitavano con le bandiere quando lui alzava la voce, diciamo ogni due minuti circa. Aveva sbagliato qualche congiuntivo il signore col fazzoletto, ma ho capito che non era il momento per farglielo notare a mio padre.

Papà era impegnato a urlare, con bandiera verde legata al collo e con il volto rosso carminio: «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne».

C’erano tutti a urlare e agitare bandiere: Giuanin il Viscunt, il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent. Col ritmo un po’ rap. «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne». Il via alle urla l’aveva dato ancora l’uomo col microfono. Quello con la voce rauca, quello che poi mio padre aveva messo sul desktop del computer, a casa. La foto di quell’uomo vestito da Zio Sam con la scritta: «Mì te voeuri!»

Ogni volta che accendevo il pc mi ritrovavo la faccia di quell’uomo, con il cilindretto, il frac e il dito puntato minaccioso: «Mì te voeuri!». Altro che uomo nero. L’uomo verde ad ogni accensione del computer: «Mì te voeuri… mì te voeuri!» Era diventato l’incubo dello schermo, il tormento del monitor. «Mì te voeuri…?» In qualche modo l’uomo verde se l’era preso, mio padre. Infatti papà ogni tanto tornava la sera in garage vestito di salopette, come un imbianchino, sporco di vernice bianca e verde. E sentivo che diceva alla mamma che lo aspettava con il vin brulé: «Che ciulada sul cavalcavia!».

Scriveva sui muri di cemento cose tipo «Padania libera, Padania ai padani» e altri slogan sentiti al rito dell’acqua. Lo zio sindacalista, prendendolo in giro, le chiamava «installazioni artistiche».

Non penso che lo chiameranno mai alla Biennale di Venezia per una scritta da cavalcavia tipo «romaladrona, padaniastato»…

Per il compleanno il papà aveva regalato alla mamma, tempo fa, un «elegante set cucina sale pepe serigrafato con sole delle alpi», ordinato su Internet. La mamma aveva detto: «Adesso anche i miei regali sono diventati sovvenzioni per il partito». E ha messo il suo regalo nella tavernetta, per le riunioni degli amici di papà. Che a volte giocano al Risik Padan. E bevono grappa «Va’ Pensiero».

Papà dice che il comunismo ha fatto tante vittime e che non bisogna falsificare la storia. Lo zio gli risponde che forse è vero ma neanche bisogna dimenticare quando noi andavamo in America.

Il papà dice che lo zio andrà all’inferno per quel «forse» e che noi però non eravamo «con le toppe al culo». Lo zio risponde: «Allora per chi fate la toppa Sole delle Alpi?». Mio padre sotto la doccia canta: «Va’ pensierooo…». Che poi lo zio gli dice: «A furia di lavà el penser… ghe n’è pù… l’è andaa…». La mamma a volte fa dei lunghi sospiri e dice che quei due, fratelli, prima o poi si prenderanno a botte.

Lo zio ha sposato una pugliese. Papà chiama anche lei, quando non c’è la zia, baluba. «Maschile o femminile, sempre baluba è» mi disse papà quando gli chiesi se anche mio cugino fosse un balubo. Il papà dice: «Ognuno a casa sua». Che tristezza, ognuno a casa sua! E ieri sera dicevano, nella tavernetta, gli amici di papà: «Organizziamoci, difendiamo il nostro… fratelli sul libero suol, meniamo i baluba… contro i baluba… uniamoci!». E poi sono usciti tutti insieme, ringraziando mia madre per la torta. E mia madre scuoteva la testa, preoccupata.

Allora se Andrei non si fosse presentato a scuola per il torneo noi avremmo sicuramente vinto…

Andrei gioca scalzo ed è fortissimo. Sogna di fare gol come Inzaghi. Un giorno, all’intervallo, quando Sergio me lo ha presentato, gli ho detto: «Ciao, sono Andrea, quasi come Andrei. Ma tu, se giocasse Italia contro la Romania, chi tiferesti?». Andrei mi aveva risposto «la Romania», anche se dicono che lui è rom. Però viene dalla Romania. E aveva aggiunto: «Ma comunque deve vincere il migliore. E se nessuno migliore va bene anche uguale». «Uguale?» ho chiesto io perché non capivo. «Sì, uguale, cioè pareggio», m’aveva risposto Andrei.

Ma oggi non si è giocata la partita del torneo, a scuola. Andrei è arrivato tardi a scuola, lo hanno portato, col solito pulmino, delle persone grandi, preoccupate. Anche le prof erano preoccupate.

All’intervallo Andrei raccontava a Sergio: «Oggi tenevo stretto per mano mio papà… hanno bruciato le nostre tende… non si sa chi è stato. Papà dice che è gente razzista… “razzista” sembra cattivo… se brucia le tende in cui dovevamo abitare… forse lo è… era arrabbiato mio padre, voleva dire tante cose ai giornalisti ma secondo me sbagliava qualche parola. Io imparo l’italiano, non è facile ma papà dice di studiare che così avrò più fortuna di lui nella vita e saprò anche difendermi con le parole e parlare bene coi giornalisti».

Questo pensava Andrei oggi, nel giorno della partita del torneo a scuola. È venuto lo stesso a scuola e ci ha detto che gli dispiaceva per la partita ma anche perché ora sentiva dire che si doveva traslocare di nuovo, proprio sotto Natale, come un anno fa, perché si diceva che la gente qui non li vuole. Proprio ora che suo padre aveva trovato un lavoro e sua madre era contenta perché non si doveva più andare in giro a chiedere la carità, come qualche mese fa.

E ci ha detto che ieri sera erano pure felici, era il compleanno di sua sorella Adela, era venuto il Don, Massimone, Maria Grazia e tanti amici a portare una torta ed una bambola. Per Adela era il primo vero compleanno. Ma forse, diceva lei, non avrebbe potuto mai collezionare bambole. Traslocavano troppo spesso.

Mi dispiaceva vedere Andrei così triste. Poi lui mi ha detto: «Se vuoi possiamo giocare a pallone insieme qualche volta, se troviamo un luogo dove giocare…».

Avvertenze per i lettori:

In quella scuola andavano anche Adela, Elena, Elisabeta, Georgia ed erano compagne di Adele, Elena, Elisabetta, Giorgia.

La faccia di quel signore vestito da Zio Sam che punta il dito: «Mì te voeuri!» esiste. E pure il Risik Padan. E se volete sapere di più delle ciulade padane fatevi un giro in rete.

Avete fato un po’ fatica a districarvi tra Andrea e Andrei, tra Sergio e Sergiu? Affari vostri. Quella piccola differenza nei nomi vi ha disturbato nella lettura? Affari vostri.

Quella piccola differenza nei nomi racconta molte altre differenze nelle loro vite. Ma non nei loro sogni da bambini. Che sono affari nostri, di tutti. Anzi, ci riguardano.

Dedica:

Ai ragazzi che menano il balòn sul campo di calcetto in un parco di Milano.

Ai sognatori che hanno regalato loro il campo per giocare, i palloni e qualche sogno in più.

A coloro che rendono i sogni dei bambini realtà.

Il racconto è stato pubblicato su il manifesto del 3 gennaio 2008

Mihai Mircea Butcovan
E' nato nel 1969 in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale. Vincitore nel 2003 del premio «Voci e idee migranti», ha pubblicato il romanzo «Allunaggio di un immigrato innamorato» (Lecce, Besa 2006) e con la raccolta di poesie «Borgo Farfalla» (Eks&Tra 2006) ha vinto, nel 2006, la XII edizione del Premio Eks&Tra.

(mihai@fastwebnet.it)



fonte iconografica www.fiorentina.it

giovedì 3 gennaio 2008

Salento's Movida di Armando Tango

Fortunatamente da qualche anno a questa parte, il mondo delle lettere salentine, contro ogni previsione (Rina Durante scriveva in un suo articolo sulle pagine del Quotidiano, l’impossibilità del Pulp nella piccola città di provincia e poi c’era invece già Maurizio Leo che mixava da tempo ormai, Beat e Pulp in maniera eccezionale) comincia a creare un’identità altra che non è solo Comi, Bodini, Pagano, Toma, Verri, Ruggeri, o la Pizzica, ma non perché non siano necessari a costruire una mappatura del fare poesia e letteratura in queste terre, tra le maglie della sua storia, ma perché ciò che sta emergendo è un desiderio di riscrivere la storia della lettere a queste latitudini. Si poteva mai pensare ad esempio ad un giallo salentino o addirittura al noir? Era tutto in gestazione da queste parti, basti pensare al Delitto di Campi 1 e 2 di Gianni Capodicasa (Luca Pensa editore) e Libreria antica Roma. Il mistero di Taviano (Lupo editore) di Raffaele Polo. Pur non entrando nel merito qualitativo di queste due opere appena indicate, avendo chi più chi meno il diritto di esistenza nell’ambito della storia della letteratura contemporanea salentina, non posso non dire che comincia a strutturarsi un quadro di una geografia letteraria che prima o poi dovrà essere sistematizzata. Ora dopo le sue fatiche letterarie come La Lecce di papà (Eda) e Scusi vuol ballare con me?, (Edizioni del Grifo) a cui collaborai con grande piacere, ecco che Armando Tango, pseudonimo del giornalista leccese Teo Pepe, aggiunge un’altra interessante pubblicazione dal titolo “Salento’s Movida ” edita da Glocal editrice. Un giallo o un noir salentino? Difficile dirlo perché sembra che Tango sia abile ad utilizzare i codici dei due generi narrativi, con grande maestria e talento, conosce i trucchi del mestiere, le sue zone d’ombra, e sa perfettamente dove puntare i riflettori, perché di un’ibridazione equilibratissima tra sceneggiatura e romanzo sembra questo libro, che ti prende e non ti molla più, per ben 241 pagine. E c’è tutto e molto di più in quest’opera, lu sule, lu mare, lu ientu, le notti afose, la Lecce by night, la movida vacanziera e vip di Santa Maria di Leuca e i suoi salotti bene, il caldo torrido, le angoscie, le ansie, le paranoie di un’avventura che comincia a seminare una scia di sangue per un “paperino” - non vi svelerò di cosa si tratta perché se no che sorpresa è - che contiene dati sensibili e scottanti, e che lega i destini dei protagonisti, tutti ben delineati, e con una psicologia tracciata magistralmente in poche battute: Brooke (che ricorda il biondone di Beautiful); Pachi (fotografo very-macho-magnaccia, un clone di Costantino di provincia); il dj Claudio Capace; la nobildonna Adriana Cristofalco, Massimo Bellardoni il commercialista piacione, Pappa personaggio molto simile ad Adriano Pappalardo, e dulcis in fundo Maurizio Costanzo e Maria De Filippi …. Che c’entrano?! Scopritelo da soli ….


fonte da www.musicaos.wordpress.com

domenica 30 dicembre 2007

Il Trapasso di Marcello Sacco (Besa editrice) visto da Mauro Marino

Dopo “Salento’s movida” il libro di Armando Tango (alias Teo Pepe) edito da Glocal, veniamo a “Il trapasso” di Marcello Sacco edito da Besa editrice. Un altro impietoso ritratto della città barocca, delle sue vanità e dei suoi rituali. Anche questo un romanzo popolato da personaggi in qualche modo verosimili…

In memoria di Sorriso, innamorato dell’impossibile! (2)

di Mauro Marino

“Siamo cresciuti tutti insieme nello slargo di piazzale Vercelli dove, finchè è rimasto uno sterrato incolto, si poteva giocare a calcetto. Poi vennero gli anni ’90 e le aiuole comunali. Ci siamo sparpagliati. La maggior parte di noi s’era stufata di prendere le birre alla salumeria Spalluto fra il primo, secondo, terzo, quarto tempo di interminabili partite sotto il sole o sotto la luna, davanti a fidanzate platoniche che dopo una certa ora ci guardavano dal balcone”.

Il muscoloso Salvatore Castelluccio detto Sorriso, “pessimo artificere, irruente centravanti della Juvenilia e temibile tamburino della curva sud”, residente storico delle case Gescal di via Torino, è il protagonista de “Il trapasso”, esordio narrativo di Marcello Sacco.

L’eterno immusonito Sorriso - “O perdo o vinco, io sempre sorriso”, (e quel sostantivo nelle sue intenzioni, doveva essere un verbo) disse una volta dopo una batosta con tre reti di scarto in cui però aveva giocato da eroe” - fu uno di quelli che ad un certo punto iniziarono a dare appuntamento in Via Oberdan, migranti dalla periferia a bordo di usurate Px, con in tasca i pacchettini di erba da vendere per finire a tirar su col naso travagliati dall’impossibilità e dalla fatalità di un ‘destino’ mai veramente scelto.

In verità i protagonisti di questa storia sono tanti, raccontati da una voce, un testimone, “fuori campo”, capace di sagacia e di ironica compassione.

Personaggi comunemente rintracciabili in una città di provincia come la nostra Lecce. Tutti abilitati al ruolo, primi attori e comprimari, bestiario naturale della beata e molle solarità di questo meridiano, “cresciuto lontano dalle terre di partigiani e repubblichini”, non uso a cocciutaggini ideologiche, pronto al transumar con i riti e l’indicibile che porta la sopravvivenza e quando Dio vuole il “successo”.

C’è la professoressa Valeria Baragli, moglie dell’avvocato Umberto detto, nelle consuetudini del Foro, ‘melina’, termine noto a chi ha abitudine con il calcio e con le perdite di tempo giudiziarie. Lei, gran donna con tailleur coloratissimi, ne risalta uno rosa confetto, “consumata attrice del varietà accademico”, tra un tè e un Alka Seltzer, consigliata dal fido Licci, “un buon fascista, di quelli che si innamorarono a suo tempo della retorica compassata di Giorgio Almirante”, dà l’assalto alla politica cittadina. “Il potere quello vero, va condiviso. Il piccolo feudo missino non esiste più, il Movimento Sociale ha i giorni contati” e… “ Valeria, se l’operazione riesce, nel partito ci sarà posto per tutti. L’importante è smetterla di raccimolare voti solo fra quattro teppistelli e i loro avvocaticchi”. “Ci vorrà molto olio, Valeria”. E così si fece, forte di 35mila preferenze, in questo (ormai ex) feudo democristiano, la professoressa ottenne un incarico governativo, era il 1994, anno dell’avvento di Berlusconi.

Con lei, sua figlia Elena, imbronciata ed eterna insoddisfatta, “una bellezza così bianca, quasi diafana, che da vicino faceva impressione”, “corpo forgiato a modiche quantità di anoressia nervosa oltre che nei migliori fitness club” non ha dubbi, “ai banchi (dell’Università) preferisce gli spalti dello stadio. Non li scalda, la scaladano”. Sorella di Ettore, fidanzata di Arturo e amante svogliata del nostro Sorriso che per amor suo, sì per amor suo…. ci fa ‘visitare’ anche il Costa Rica, approdo di molti salentini che lì trovano rifugio ed esilio per ‘marachelle’ più o meno grandi o per trasporto naturale all’esotismo.

Il resto della scena, rocambolesca, esilarante ma mai inverosimile, è occupato da camerati più o meno integristi: Gianni Burzo servant d’Ettore, macellaio e “collante di mondi distanti”; il giornalista Calamari e il medico legale Cazzato; Lenticchia, l’americano titolare di Fondazione omonima e Rosaria Villani.

Inconsapevoli e disarmanti nella loro scioccheria troviamo Sabrina, vera fidanzata di Sorriso, Gaetano e lo spacciatore Scarpia che nasconde la cocaina nelle teste delle bambole delle ‘sacre figliole’.

Dall’altro lato, diciamo così…, il sindaco Gargiulo, democristiano poi di “sinistra” leader della lista “Idee in Comune”, imparentato con la lady missina e suo nipote Ettore, che si fa assessore e “volto nuovo” della programmazione culturale con una “folla di idee” che covava la novità nel “vecchio”, nella tradizione insomma, chiave di volta del ‘rilancio’… Cose che sappiamo!

Fili di una storia in cui è facile darsi al gioco del “chi è?”. Buona lettura!

fonte Paese Nuovo del 29/12/2007

sabato 29 dicembre 2007

Giorgio Scianna ... Fai di te la notte, Einaudi, 2007














Partiamo da una domanda che possa aiutare il lettore a comprendere il “back-stage” del processo creazionale relativo al tuo romanzo d’esordio Fai di te la notte. Qual è stato il tuo progetto iniziale circa il contenuto, la struttura, le vicende da raccontare? Come sei arrivato poi alla redazione finale del tuo lavoro?
Volevo scrivere la storia di un segreto in una famiglia, in una coppia. Di questo segreto, nascosto da un marito dietro una porta, sapevo solo due cose: che si sarebbe aperto nella vita della moglie come una crepa che non si può fermare, e che doveva essere un segreto degno. Un segreto che non svilisse di per sé il loro rapporto. Mi interessava capire come il non detto, le zone franche di ognuno di noi possano esplodere anche se innocui. Lavoravo su questo, su tradimenti e nascondimenti. Più in là ho capito quale dovesse essere il segreto, l’unico possibile. Poi il resto. La fatica più grossa che ho incontrato nella costruzione della struttura e anche nella redazione finale di questo libro, è stata il perfezionare gli incastri, gli snodi e i linguaggi delle tante parti del romanzo.

In copertina c’è una frase che fa riflettere molto: “Non c’è fedeltà che nel tradimento”. E’ una scelta casuale, o una piccola chiave che volutamente consegni al lettore per farlo entrare da subito nel mondo della tua scrittura?
Quella frase è mia. Adam Kasev non esiste. Avevo bisogno di lui solo per quella traccia. Mi piacciono gli ex-ergo ma devono essere precisi e non svelare al tempo stesso. Una chiave, una rotta possibile che il lettore può seguire nel romanzo.

Il tuo romanzo, scritto davvero bene (mi ha ricordato Rami secchi di Mario Soldati), parla di segreti, piccole menzogne in un universo familiare (quello di Sergio, Clara, papà Giò) dove il silenzio, le assenze, la fanno da padroni. Certamente nella vita coniugale, zone d’ombra talvolta ce ne sono più del dovuto e spesso sfociano in amarezze insostenibili. Ma alla fine sembra che tu propenda più ( tra le righe scrivi che la famiglia è un organismo che divora tutto,anche le ferite e che tutto poi digerisce normalizzando e stabilizzando ogni turbamento) verso un elogio del matrimonio. Cosa ne pensi?
Si è parlato di noir per questo libro. Penso che sia qualcosa che riguardi l’atmosfera che c’è in quella piccola casa. E più ancora la costruzione della tensione e della suspense. C’è anche un senso di “incombente”, un’indagine per scoprire la verità di quei segreti, di quei tradimenti. Non è però un noir in senso pieno, anche se il centro del racconto è un mistero il tessuto più profondo del romanzo va alla ricerca di altre strade.

Vivi per una vita accanto a una persona che credi di conoscere e poi scopri, quasi per caso, un suo lato, che mai e poi mai avresti potuto immaginare: Sergio, ha un segreto, vecchio di centinaia e centinaia di anni, che lo rende diverso, tanto da non potersi rivelare alla luce del sole. Ed ecco che inserisci nel plot del tuo romanzo, una specie di giallo, con delle nuances da noir … ce ne potresti parlare?
Tra Clara e Sergio c’è un rapporto profondo: affetto e complicità sono rimasti negli anni. Ma ci sono anche i tanti tradimenti, le tante fughe. In qualche modo ci sarà un superamento, ci sarà un nuovo equilibrio, ma ho qualche dubbio che tutte le ombre si allontanino.

Scendiamo un po’ più nel personale… Ci sono stati autori nell’ambito della letteratura italiana o internazionale, che, diciamo, ti hanno influenzato, o che ti hanno dato qualcosa, ti hanno entusiasmato, fatto crescere?
Ho sempre avuto frequentazioni letterarie molto eterogenee: la letteratura americana contemporanea (Roth, McCarthy Fox per citarne alcuni), alcuni autori mitteleuropei (Bernhard, Kundera, Svevo), tutto l’ottocento (i Karamazov sono la lettura che mi segnato più di ogni altra) e la folla di scrittori israeliani. Spesso faccio sortite nel mondo noir (Bunker e Manchette sono stati compagni di viaggio). L’ultimo vero entusiasmo di fronte a una lettura risale a qualche anno fa: Franzen con le sue Correzioni ha lasciato il segno.

Dove pensi che stia andando il mondo delle lettere oggi? Possiamo archiviare ormai come archeo-semiotica, la parola impegno?
In Italia è difficile trovare una mappa per orientarsi. Gli autori importanti sono monadi, isole distanti per età e mondi. Forse è meglio così. Quanto all’impegno, è ancora difficile capire se ci sarà un effetto Saviano. Quello che è certo è che in giro la richiesta di una letteratura che parli anche di quello che ci sta intorno, anche con forme ibride di narrazione, è più forte che mai.

Giorgio Scianna è nato nel 1964 a Pavia, dove vive. Un suo racconto, Il Juke-boxe, è apparso nell’antologia Anticorpi (Einaudi, 1997). Fai di te la notte, sempre per i tipi di Einaudi, è il suo primo romanzo

fonte www.musicaos.wordpress.com

venerdì 28 dicembre 2007

Nicolau Eymerich, Francisco Pena, Il Manuale dell'Inquisitore, Fanucci

Da non molto tempo si assiste alla ricca produzione di volumi, opuscoli, nonché periodici che con generosa verbosità e superficialità tendono ad illustrare una serie di pratiche volte ad invocare indistintamente angeli e demoni, con tanto di nomi, rituali, ora e data in cui entrare in contatto con queste entità, ovviamente con un unico sottofondo di senso che è quello di matrice consumistica, lontana dai più seri e complessi studi teologici. Tra i più autorevoli esponenti in questa branca dello scibile umano (non magia cerimoniale, ma angelologia e demonologia) siamo certi di non sbagliare se facciamo nomi come Giorgio Gozzelino, e Giovanni Battista Proja. E parliamo di argomenti che analizzano la sfera di potere e controllo di tali realtà ( ci si può credere o meno nella loro esistenza) nella vita dell’uomo. Ma nella Storia della Chiesa, sono esistiti poteri ben più terreni, implacabili, incorruttibili, astuti, dove il dogma della parola rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, doveva servire a indagare, sorvegliare e punire, al di là di quisquiglie in merito a possibili abusi di potere (non è un gioco di parole) e atrocità magari ingiustificatamente perpetrate ai danni della libertà di professare una fede diversa, da parte di qualche povero rincitrullito, mentecatto o intransigente “infedele”, nell’esprimere un parere scomodo e/o dissentire anche solo labilmente in maniera scettica, su qualche verità presente nelle Sacre Scritture. Parliamo dell’Eresia come problema, veleno, e di come l’Istituto dell’Inquisizione l’abbia affrontata e combattuta. Certamente la Chiesa ha chiesto scusa, per orrori di questo tipo commessi nei secoli precedenti, e pertanto possiamo citare una fonte tra tutte, che è quella per i tipi di San Paolo, dal titolo Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, della Commissione Teologica Internazionale, con una presentazione di Bruno Forte. Quando parliamo di Inquisizione, facciamo riferimento ad una nano-organizzazione di uomini pii, dalle alte capacità investigative, che usano a loro piacimento il popolo come strumento di calunnia con ricatti e altri riprovevoli sotterfugi, moralmente discutibili, fortemente propensi alla menzogna e all’inganno pur di ottenere la Verità, e che sia una verità conforme alle regole date da Nostro Signore si intende. Leggendo il Directorium Inquisitorium, scritto da Nicolau Eymerich alla fine del XIV secolo, testo solo per pochi intimi, e per la precisione a solo uso e consumo di vescovi e inquisitori stessi, ci si può rendere conto non solo della meticolosa precisione con cui vengono catalogate e descritte le diverse forme di eresia da abbattere (Adamiti, Setiani, Fraticelli, Scismatici e chi più ne ha più ne metta), ma anche la perfetta macchina di controllo, volta alla distruzione fisica, morale, spirituale del soggetto candidato all’esame della Santa Inquisizione, realizzata grazie all’utilizzo di interattivi link tra sistemi di codici giuridici diversi, come il diritto volgarmente definito civile e quello più alto che è il canonico. Una vera e propria morsa d’acciaio. Ma non è tutto…I problemi che l’inquisitore solleva nella maggior parte dei casi, non riguardano questioni del tipo se durante l’elevazione del calice contenente il corpo di Cristo durante la celebrazione liturgica, il fedele debba inginocchiarsi perché altrimenti favorisce il demonio; oppure la disputa in merito ai rapporti di consustanziazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo in un’unica sostanza e del come e perché interviene tale sostanza Una e Trina nella vita del fedele; se e come produce Grazia il suo procedere per imperscrutabile volontà divina … no … niente di tutto questo… l’obiettivo da perseguire mira a mondare il putridume delle anime ormai perse, perché lontane dalla grazia di Dio, a sconfiggere la cancerosa bestemmia della lussuria che spinge i corpi di questi dannati a giacere tra lenzuola immonde, procreando abominii attraverso l’unione delle loro carni, e ancora a relegare i turpi relapsi in sperdute prigioni, figuri obliqui che prima abiurano negando di essere eretici, per aver salva la vita, e poi come per bere un bicchier d’acqua, rinnegano le loro stesse menzogne ritornando sugli oscuri sentieri del Maligno. E si prescrive la massima severità, poco per i nobil uomini, e assai per i miserabili (una lotta di classe per ottenere la salvezza dell’anima …altro che indulgenze…), e tanto più ferma è la mano del santo giudice quando deve convincere ed esortare il peccatore alla confessione, quanto più forte diviene in questi il desiderio di redimere, e di conseguenza tanto più dolce e soave deve essere pertanto la sua voce: “Figlio mio carissimo, tu parli da buon cattolico, poiché sostieni di credere in ciò che ordina la Chiesa. Ma ti contraddici nei fatti, poiché resisti in contumacia. Vogliamo vederci chiaro nella tua fede. Vogliamo sapere se camminavi nella luce o nelle tenebre. Ecco perchè ti abbiamo citato” (pag.93). Louis Sala-Molins mette a disposizione di tutti coloro che si interessano dell’Inquisizione, il trattato sistematico scelto da Roma, per la prima volta pubblicato nel 1503 e poi successivamente per volontà del Senato dell’Inquisizione romana nel corso del XVI e XVII secolo. Il manuale in oggetto segna il diritto, stabilisce la procedura che si concreta in delazione, processo, tortura e confessione e soprattutto da, sulla base dei testi delle Scritture o dei Padri della Chiesa, una riposta chiara a tutti i problemi che i servitori più devoti dell’ordine cattolico romano dovevano risolvere.

lunedì 24 dicembre 2007

La navigazione del Po di Andrea Di Consoli

L'ultimo lavoro poetico di Andrea Di Consoli dal titolo "La navigazione del Po" per i tipi di nino aragno editore, con postfazione di Federico Francucci, è un'opera veramente densa di contenuti e molto, molto interessante. La prima cosa che salta subito agli occhi, dopo averne terminato la lettura, è che Di Consoli informa della sua abilità di narratore, il percorso di ricerca poetico che da tempo ormai porta avanti con forza. Chi è abituato a una certa tipologia di ricerca stilistica e semantica nell'ambito del mondo dei versi, penso a certa poesia di sanguinetiana memoria, ma perchè no anche alla grande poetessa Marina Pizzi che gioca e crea con le parole e i suoni splendidi componimenti, potrà trovarsi come disorientato, non tanto perchè sia esiguo o incerto il versificare di questo poeta, ma perchè la profondità dei contenuti è di rara autenticità, perchè non prende in giro i suoi lettori, perchè la poesia di Di Consoli, è vera, le sue cicatrici sono reali, i suoi malumori nascono da un abisso di chi nulla ha lasciato alla finzione, le sue gioie non sono goffi voli, ma prese di ossigeno a pieni polmoni, come quando per anni il proprio orizzonte interiore sia pieno di nuvole grigie e poi all'improvviso uno spicchio di sole, ti lascia sperare che nulla ancora è perduto. Sembra che la "Navigazione del Po" sia una sorta di pesante ancora che cerca di legare alla realtà, quella nuda e cruda, la leggerezza e bellezza lirica del nostro, tanto che come effetto collaterale produce una sorta di paranoia di controllo totale verso le ansie, le paure e i sensi di colpa, e il dover essere in un certo modo, che nasce dall'attesa di un qualcosa all'orizzonte del futuro che per certo riserva sempre delle incognite, delle sorprese, mai controllabili, mai gestibili ... Popper non aveva poi sbagliato a dire che la vita è un continuo risolvere problemi... peccato che non abbia mai dato una maggiore sicurezza al nostro incedere. Opera lontana anni luce da "Discoteca" edito da Palomar qualche anno fa, l'ultima fatica di Di Consoli, è una condensazione di sistema del suo tracciato biografico, del suo odio/amore per il Sud (nel caso specifico S.U.D - senza una dimensione), della sua mania per l'elencazione di oggetti quotidiani, quelli della sua tradizione esistenziale, sicuro appiglio per non perdere la bussola.

Dalla sua raccolta:


Exit Sud

(Salutate il padre,
salutate la madre.
Andate via questa notte. Lasciate la terra chiamata Sud.
E non tornate,
non tornate quando muore il padre e la madre)




fonte iconografica

http://letteratitudine.blog.kataweb.it/files/photos/uncategorized/2007/07/15/foto_andrea.jpg

domenica 23 dicembre 2007

Merry X-Mas




















Auguri di buone feste a tutti quelli che conosco e che non conosco, a quelli che non vedo da anni o che ho conosciuto di sfuggita, che ho recensito o che mi hanno colpito in qualche modo, a quelli che mi hannno lasciato ferite profonde nel cuore, che mi hanno regalato gioie incredibili, per come sono fatti o per quello che hanno scritto o detto ... magari mi sono scordato di mandare il mio sms di buoni auspici a qualcuno, ma comunque auguroni a tutti ... io intanto vi sto preparando una bella sorpresa ...


fonte iconografica
http://members.iinet.net.au/~michaelbolger/mp3/evil%20santa.jpg

venerdì 21 dicembre 2007

Tabula Rasa 06 - La rivista letteraria tutt'altro che invisibile











Tabula Rasa è la rivista che la Besa Editrice dedica dal 2002 alla scrittura di ricerca narrativa e poetica. Prosegue la collaborazione con il gruppo de iQuindici, la sezione dedicata alla narrativa accoglie una selezione dei racconti già comparsi sulla loro rivista Inciquid, in particolare gli autori ospitati sono Gabriele Gismondi, Sandra Risucci e Paolo Ferrari. La sezione dedicata alla narrativa si completa dei racconti inediti di Gabriele Dadati, Gianluca Gigliozzi e Michele Lupo, oltre che dall’esordio di Marco Montanaro, dal titolo "Gli ultimi giorni di martirio del Signor B.". Nella sezione dedicata alla critica è ospitato un interessante intervento di Christian Sinicco, dal titolo "La nuova poesia in Italia? ouverture sulla differenziazione", nel quale vengono esaminati gli autori della recente poesia italiana; insieme a questo gli interventi di Luciano Pagano, Elisabetta Liguori e Grenar, che con Giuseppe D’Emilio descrivono dall’interno l’esperienza di VibrisseLibri. Nella sezione poesia sono ospitati quattro autori, Fabio Franzin, con il poema inedito intitolato “Sull’orlo della strada”, Luigi Nacci, con una selezione di poesie scritte tra il 2004 e il 2007, Claudio Pagelli e, per la prima volta in rivista, Luigi Massari. Le illustrazioni di questo numero sono di Orodè.

martedì 18 dicembre 2007

Diana Chuli a Nardò















Rassegna
INCONTRI AD ARTE

CAFFE’ LETTERARIO … A TEATRO

NARDO’ INCONTRA
LA SCRITTRICE ALBANESE
DIANA CHULI
A cura di BESA EDITRICE


TEATRO COMUNALE C.so VITTORIO EMANUELE II – NARDO’ (LECCE)

GIOVEDI’ 20 DICEMBRE 2007
h.17,30



Dialogheranno con l’autrice ANTONIO ERRICO e SILVIA FAMULARO



Torna in Puglia la scrittrice albanese Diana Chuli autrice del volume edito da Besa “Scrivere sull’acqua”, un romanzo ambientato tra Tirana, Bari, Otranto e Valencia, e che racconta l’Albania stritolata dal comunismo. Ne racconta le fughe, la tragedia, l’angoscia del traffico degli esseri umani attraverso gli occhi dei protagonisti Pablo, Carlo e Cristina. A breve uscirà in Italia sempre per Besa editrice, l’ultimo lavoro della Chuli dal titolo “Angeli Armati”. Diana Chuli ha vinto proprio alla fine dello scorso novembre il prestigioso premio letterario “Scrittore dell’ anno in Albania 2007" che viene consegnato dall’associazione degli editori albanesi nel cui comitato scientifico ci sono 18 membri, tutti rigorosamente esperti di letteratura e editoria. Un premio difficile, che lo hanno ricevuto fino adesso Kongoli e Koreshi. Un premio che per una donna, in Albania, ancora oggi non é facile ricevere. L’incontro con l’autrice a cura della Besa editrice, e che prevederà tra l’altro l’esposizione di opere letterarie italo-albanesi, previsto per il 20 dicembre 2007 alle ore 17,30 presso il Teatro Comunale di Nardò in Corso Vittorio Emanuele II è stato promosso dal Comune di Nardò, Unione Europea, Città di Mesagne, Città di Noci, Repubblica di Albania, Interreg Italia Albania

DIANA CHULI (Tirana 1951), giornalista, ha scritto i romanzi Eëri i largët (La voce lontana), 1981; Rrethi i kujtosës (Il circolo della memoria), 1984; Dreri i trotuarëve (Il cervo dei marciapiedi), 1990; Reguiem, 1991. Per Besa ha pubblicato “Scrivere sull’acqua” del 2002.
Da alcuni suoi testi sono state tratte sceneggiature teatrali. Collabora a diverse testate culturali, ha tradotto diverse opere di Jean Paul Sartre, Andre Jide, Simone de Beauvoir ed è stata premiata come “Scrittrice dell’anno 2007” dall’associazione degli editori albanesi.

domenica 16 dicembre 2007

Quel qualcosa in più










Il mio nome è Ertrit Omeri. Dieci anni di carcere a partire dal 1980 in Albania, per avere tentato di sfuggire a fame e miseria. Poi il salto nel buio! Dieci i milioni che ho pagato per arrivare in Italia, dieci le cicatrici sul mio corpo, due dovute allo sbarco, otto come omaggio dei miei traghettatori. A Durazzo aspettano ancora mie notizie. Nereida, avrebbe preferito morire di fame piuttosto che sapermi lontano da casa. La dignità era un lusso che non potevamo di certo permetterci. Non più! Da circa due settimane, mi trovo in un centro di permanenza temporanea a Otranto. Tra me e la vita ci sono tre transenne, due cancelli, un muro di dieci metri, la postazione della Guardia di Finanza e… il vuoto. Oddio… non avrei di che lamentarmi! La mattina faccio regolarmente colazione con del caffè e delle piccole brioches, due pasti caldi, a pranzo e a cena. Coperte, lenzuola, federe dei cuscini, te le fanno cambiare ogni 48 ore. I servizi igienici sono una meraviglia! Non è però questo che mi spaventa. No! È quel baratro che mi separa dal rifarmi una vita, avere dei soldi per comprare una macchina, un telefonino, per regalare un po’ di gioia a Nereida… povera donna! Era bellissima quando l’ho conosciuta. Aveva compiuto da poco diciott’anni. Io ne avevo quindici di più, diploma professionale in tasca e un lavoro come tornitore in una piccola impresa artigiana! Per quel che ho potuto non le ho fatto mancare nulla. Quello che non si riusciva ad avere dalle nostre parti, era una patria, uno Stato, delle politiche salariali, professionali, per dare insomma un briciolo di speranza a quelli che si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera, almeno per poter sopravvivere con qualche spicciolo al mese. Se avessi tentato di resistere a tutto questo, mi sarebbe toccato stringere la cinghia così forte da venirne alla fine soffocato. Alla fine presi una decisione. Un primo tentativo di fuga. Riuscirono a beccarmi subito. Preso di peso, portato in commissariato, e pestato a sangue. Da noi, quando sei nelle mani degli sbirri, in tasca ti puoi ritrovare di tutto, senza nemmeno accorgertene. Tirarono fuori una bustina di coca. Come volevasi dimostrare. Ce l’avevano infilata loro. Non possedevo un centesimo bucato per corrompere i miei carcerieri. È così che funziona, mi ripetevo! È così che funziona! Le bollette del telefono, della luce e del gas che ti arrivano a casa possono diventare anche carta straccia… a patto che tu conosca qualcuno, che sia amico o parente di, e che abbia soprattutto un bel gruzzoletto da mettere a disposizione per toglierti dalla merda! Mi rendo conto di essere stato un’eccezione alla regola… Quando dissi a Nereida, durante una delle sue visite in carcere, che non appena fossi uscito da quel posto, sarei andato a tentar fortuna in Italia, s’incupì… all’improvviso. Di botto! Per due giorni non venne più a colloquio. Devono essere stati due giorni d’inferno per lei. Ritornò da me che sembrava invecchiata di almeno vent’anni. Mi disse soltanto “Ti amo Ertrit… va bene anche così! Ti aspetterò, e quando ritornerai, io verrò via con te… e non accetto ma…”

Avevo scontato tutto ciò che c’era da scontare. Ero un uomo libero, finalmente, e l’indomani sarei uscito. Mi aspettava una nuova vita. Ma a che prezzo… Sapevo solo una cosa: Nereida era con me, nella buona e nella cattiva sorte, finchè morte … e il resto lo porto tutti i giorni con me da quando ci siamo sposati. Al tasso del 70%, mi feci prestare dieci milioni pur di andarmene. Non appena fossi stato in grado di lavorare, ogni mese avrei dovuto restituirne circa il 18%. Partimmo alle 23,00 di una meravigliosa notte di settembre. La luna che si stagliava alta nel cielo, aveva il viso di mia moglie. Sarei riuscito a regalarle un giorno, un pezzo di paradiso! Nel cuore avevo un cielo in tempesta. Ora sono qui. Gioco a scacchi con il mio compagno di stanza Gelal, e a volte con lui parliamo del comunismo in Albania negli anni ’80. Si stava meglio quando si stava peggio? Mi importa soltanto strappare dalle braccia della solitudine, la mia donna, che per ogni istante lontana da me ha versato una lacrima di sangue sul suo cuore. Non mi resta che aspettare il permesso di soggiorno. Guardo un po’ di Tv. I Quiz Show di Mike Bongiorno, o quelli di Iva Zanicchi. Su di me hanno l’effetto di un buon sonnifero! Immagino di partecipare a uno di questi giochi, e vincere milioni e milioni, così da poter pagare tutti i debiti, e ritornare in patria a fare il pascià! Ma soprattutto quello che mi interessa più della stessa vita, è avere la speranza di riabbracciare lei. Qui, ogni giorno faccio la stessa vita. Stesse persone che si aggirano come fantasmi per quei pochi metri quadrati, in silenzio, pensando a quando ritorneranno con qualcosa in più tra le mani, dai loro cari. In silenzio fanno la fila allo spaccio per delle sigarette, in silenzio bevono i loro caffè, in silenzio aspettano qualcosa che gli dia un po’ di speranza in più, una lettera, un pacco, una telefonata. In silenzio… perché il vuoto che senti dentro, ti fa sentire freddo, tanto da volerti prendere un po’ più cura di te. Gelal dice che il popolo albanese n’è uscito sempre a testa alta, e che i suoi progenitori erano forti guerrieri. Io non ho più voglia di niente. Non ti danno da leggere nemmeno un giornale. D’accordo, pensano che tu non sappia l’italiano, ma il cervello ha bisogno di distrarsi, non possono recidere completamente il tuo cordone ombelicale con il mondo. Io, per parte mia, non ho più voglia di niente. Vorrei solo scapparmene, fuggire da questo manicomio… voglio solo il permesso di soggiorno, datemi questo cazzo di permesso di soggiorno e la faccio finita. Me ne sto subito buono buonino! Poi mi trovo un lavoro, e faccio venire la mia Nereida… mi manchi tanto…

Non ce la faccio più…

Non ce la faccio più…

Ertrit Omeri si è suicidato, impiccandosi, nella notte tra il 13 e il 14 novembre 2001, in un centro d’accoglienza profughi nel sud della Puglia. Avrebbe ottenuto il suo permesso di soggiorno due giorni dopo. Questa è una pagina del diario, trovata nella sua stanza. Il compagno di alloggio, Gelal, ha dichiarato alle forze dell’ordine di non aver sentito nulla. La moglie, Nereida Allushaij, appresa la notizia, tentò di togliersi la vita. Venne bloccata in tempo. Fu ritrovata circa due settimane dopo, a dieci chilometri di distanza dalla sua abitazione, nelle campagne limitrofe di Durazzo, assassinata con due colpi di pistola. Il marito non aveva pagato i suoi debiti.

Fonte iconografica http://www.kaiserjaeger.com

Fonte testuale di Stefano Donno da www.opifice.it

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