Cerca nel blog

giovedì 28 febbraio 2008

La teqja di Artur Spanjolli (Besa editrice)















Devo prenderne atto. La profondità di alcuni scrittori e poeti come Gezim Hajdari, Leonard Guaci, Mihai Mircea Butcovan, Ron Kubati, e ancora Anna Belozorovitch, o Diana Chuli, è veramente tetra e abissale. Non in senso dispregiativo, ovvio, ma perché il lettore tra le pagine dei loro libri, si smarrisce, perde l’orientamento, assapora un senso di continua tensione tra una lotta titanica per la sopravvivenza e un desiderio terribile di non soccombere ai diktat del ricordo, della memoria … un filo sottile che lega esistenza e rifiuto individuale di tutte quelle condizioni esistenziali, immiserenti e annichilenti. E tutto questo in angusti spazi dove l’io poetico o narrante vive in zone d’ombra sempre più grandi, all’interno delle quali a stento passa la luce. Ed è doveroso poi, dopo aver letto quegli autori, fare i conti con un altro protagonista del mondo letterario contemporaneo: parliamo di Artur Spanjolli. In molti hanno apprezzato le vicende del giovane Eduart (Besa editrice), dalla vita problematica, fatta di ristrettezze, miserie e solitudine, figura di un piccolo grande uomo, imprigionato in una doppia identità, quella di un desiderio forte e costante di diventare un sommo sacerdote nel brulicante mondo delle lettere, e quella invece di chi poi deve sottostare al soldo della Necessità, per tirare avanti. Una storia struggente che ha come sfondo l’Albania, nell’anno 1987, terra madre, popolata da fantasmi, come la bellissima Eugenia, di cui è innamorato, ma alla quale non riuscirà mai a comunicare i suoi sentimenti, e i suoi amici, impegnati nel viversi grigiamente giorno dopo giorno. Interessante anche la seconda prova editoriale Cronaca di una vita in silenzio (Besa editrice), dove si narra la vicenda di una famiglia albanese che da ricchi proprietari diventa, per una serie di contingenze storico-politiche, ovvero l'avvento del comunismo e la successiva sbornia "democratica", soggetto di un crollo economico che la porta sul lastrico. Vicenda che da Spanjolli viene presentata senza drammi, senza la volontà, che sarebbe stata piuttosto ingenua in verità, di muovere a compassione il lettore. L'alterna vicenda umana è accettata dai protagonisti con fierezza, con un atteggiamento dignitoso, e con una compostezza che sfiora quasi una pre-destinante accettazione della realtà. L’ultima fatica di Artur Spanjolli è la Teqja (Besa editrice). La narrazione delle vicende è da individuare precisamente nel 1969 durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Per quanti non conoscessero il tracciato politico di questo losco personaggio della Storia dell’Albania, è necessario fare un po’ di dietrologia, a partire da circa un decennio prima rispetto agli episodi contenuti nel libro. Gli anni '50 furono gli anni dei primi, difficilissimi, passi dell'Albania verso lo sviluppo economico, sociale e culturale. Il paese aveva un’economia completamente agricola, viveva di un'agricoltura primitiva segnata da rapporti economici di stampo feudale. L'Albania era quasi totalmente priva dell'industria, con un livello di istruzione molto basso: l'80-85% della popolazione era analfabeta. La vita media non toccava i 40 anni. Questa era l'Albania prima della guerra. A tutto ciò si dovevano aggiungere le perdite umane: 28 mila caduti su 800 mila abitanti e le distruzioni provocate dal conflitto bellico. La politica del Partito del Lavoro - chiamato così dopo il primo congresso del Novembre 1948 - aveva tre orientamenti fondamentali: l'industrializzazione, lo sviluppo dell'agricoltura attraverso la cooperativizzazione, un programma per lo sviluppo dell'istruzione e della cultura. Un programma che doveva essere consegnato in un leader, nell’Uomo del Destino: Enver Hoxha. In Albania gli anni '70 si aprirono all’insegna di diversi obiettivi, la maggior parte dei quali mossi dal desiderio di smascherare e individuare all'interno del Partito e dello Stato tutti coloro che erano contro il socialismo: mentre il Paese delle Aquile, sprofondava nella menzogna e nel collasso finanziario più insostenibile.
Questa è la base da cui parte l’autore. Leggiamo per l’appunto a pag. 37: “ Era l’epoca degli slanci comunisti, degli slogan rivoluzionari. Le parole d’ordine rivoluzionarie si sprecavano. In alto lo spirito rivoluzionario. Coscienza di classe. Organizzazione. Disciplina. Viva il Partito del Lavoro Albanese. Viva il Presidente Enver Hoxha. In una mano il piccone, nell’altra il fucile. L’Albania roccia granitica. Gloria al marxismo-leninismo. Studiamo-lavoriamo-viviamo-come in un assedio. La religione è l’oppio dei popoli. Il Popolo fa il Partito, il Partito fa il Popolo. Per le strade delle città principali, gli operai, con la mano destra stretta a pugno all’altezza dell’orecchio, salutavano i rappresentanti del Partito del Lavoro e applaudivano urlando. Viva il compagno Enver Hoxha con il suo Gabinetto dei Ministri. Viva la Cina Socialista. Il Vietnam vincerà.”. In realtà Spanjolli, usando i ricordi dei personaggi, sospinge la narrazione fino a un secolo prima al fine di raccontare le origini della famiglia Cialliku e le peripezie dei padri fondatori. Islam e Hysen Cialliku, vissuti a Likesh un secolo prima, possessori di una vasta e ricca biblioteca, nonché spiriti liberi e generosi, diventano gli agnelli sacrificali per eccellenza, vittime delle ire delle autorità locali e del crudele Seit Beu, perché avevano donato parte delle loro ricchezze ai poveri contadini del posto. Islam muore a causa del colera, e suo fratello Hysen (vissuto nella fede di Allah e nella tolleranza) muore travolto dalle fiamme per salvare i libri dall’incendio appiccato dagli sgherri di Seit Beu. Il diario del saggio Hysen, non più di trenta pagine, era stato sotterrato da Ramadan, padre di Meta, nel sacro luogo adiacente la casa (La Teqja – il monastero in cui vivevano, pregavano e venivano sepolti i dervisci, adepti di una confraternita nata intorno al secolo XVII. Nel romanzo è la tomba degli uomini sapienti, ritenuti santi) e ritrovato da Meta pochi giorni prima del novembre 1969. Una sera, in totale clandestinità, oltre che in piena dittatura comunista, otto persone della famiglia Cialliku, più un traduttore, si riuniscono a casa del vecchio patriarca Meta per ascoltare le parole del diario di Hysen Cialliku. Queste persone continueranno a riunirsi per nove sere di seguito per apprendere dalle parole dell’antenato, su quali basi può poggiare la santità di un uomo. Così a grandi linee la trama. Spanjolli costruisce un libro davvero eccezionale, in primo luogo perché riprende un costume che è ormai in fase di estinzione: quello dell’incontrarsi. Ma si tratta di una modalità che non è fine a se stessa, ma diviene per l’autore un modello per intessere relazioni fondate sul dialogo, sull’ascolto di vicende che partono dalla tradizione, che vengono tradotte (e non nel senso di tradire, ma trasportate) in una micro-memoria collettiva di un nucleo famigliare, e che si trasformano in uno strumento per costruire un futuro nuovo, migliore, aperto. Il raccontare per Spanjolli è un’alta forma di pedagogia, di battaglia culturale da esercitarsi senza mezzi termini, perché la forza del porsi come creatore di una mitopoiesi, è centrale e addirittura iper-funzionale a divenire insegnamento per comprendere la Storia, le Storie. In secondo luogo, Spanjolli da al lettore, le consegna brevi manu, le chiavi per comprendere un mondo come l’Islam che, se non ci fossero voci autentiche come la sua, ci sfuggirebbe, perché saremmo vittime della stereotipizzazione massmediatica che vuole l’Islam un’incubatrice di estremismi e barbarie, di volontà di potenza nucleare, e attore di propaganda di evangelizzazione mondiale. Nulla di più sbagliato: “ (…) Per gli ebrei tutto finisce con i padri dell’antichità. Noè. Isaia. Abramo. Mosè. Davide. Ezechiele. Non riconoscono Gesù e non si parla neppure di Muhammad. I cristiani accettano la tradizione ebraica, ma vedono in Gesù il figlio di Dio, l’unica carne celeste, cosmica, diversa da quella umana e sono fedeli alla trinità: Padre-Figlio-Spirito Santo. I musulmani sono convinti che Muhammad sia stato l’ultimo inviato di Dio, colui che ha migliorato i concetti, ha detto il giusto universale, ha messo il sigillo della profezia. I musulmani accettano Gesù come profeta, riconoscono la verginità di Maria, ma ritengono un grave peccato il fatto di assicurarlo a Dio. Per i musulmani Dio non è stato generato da nessuno e non ha mai generato. Secondo i musulmani Gesù, nel vangelo di Giovanni, prima di morire annunciò l’arrivo di un altro Spirito della verità che avrebbe condotto alla verità piena, perché egli non parlerà da se stesso, ma dirà quanto ode. Per molti cristiani il Corano è blasfemo, nell’arco dei secoli il profeta è stato visto come un impostore e non accettano una religione che uccide il diverso in nome di Allah, che induce al fanatismo, all’estremismo, alla violenza, alla poligamia. Gesù predica in nome dell’amore e della pace. L’arcangelo Gabriele parla a Muhammad in nome di regole ben stabilite dal libro: guerra al politeismo, ai miscredenti, guerra in senso figurato, non guerra vera. E’peccato per le donne sposare i senza fede, è proibito agli uomini sposare donne atee: quelli che lo fanno sono considerati perduti. L’Arcangelo parla di far trionfare l’Islam per il mondo, se è necessario anche con la spada. L’islamismo include la tradizione ebraicae quella cristiana, mescola la Torah e la Bibbia, ma ritiene che il Corano sia l’ultima parola di Dio. I cattolici, gli ortodossi, i protestanti, i gesuiti, i francescani, gli apostolici, i musulmani (sciiti e sunniti), i sufi, i dervisci, i bektasci, gli zoroastriani, i buddisti, le tradizioni indù, i taoisti, i bahaiti, gli shintoisti, i krishna, gli shivanisti, il giainismo e le altre minoranze monoteiste sono sulla strada giusta, purchè adorino un unico Dio e purchè abbiano delle regole che non vadano contro quello che umanamente si crede giusto e positivo. Da quasi duemila anni tre libri fanno la storia del mondo: Torah, Bibbia e Corano.”. Spanjolli rispetto ad alcuni narratori italiani (come ha sostenuto in più di qualche occasione Renato Barilli sulle pagine de L’Immaginazione di Manni), non ha difficoltà ad affrontare il Romanzo, sia come prova del mettersi in gioco in quanto autore, sia come categoria della produzione scritturale. I protagonisti sono tutti ben tratteggiati, grazie ad una lingua asciutta, sobria, misurata, scandita da una paratassi plurivoca e articolata. La Teqja di Artur Spanjolli è un bellissimo esempio di come si può vedere l’Islam tra spiritualità e letteratura, una lettura in chiave occidentale.

fonte Musicaos.it

lunedì 25 febbraio 2008

Marquez e le sue puttane tristi




















E’ sempre una questione di Tempo. Nel Tempo possono svilupparsi una serie di dinamiche tali, da contenere l’intero spettro dell’esistenza umana (vita, morte, amore, paranoia, spersonalizzazione, personalizzazione reclusiva, oltraggio al pubblico pudore, immoralità, moralismo, restaurazione, pornografia, erotismo, immigrazione clandestina, prostituzione organica e intellettuale, controllo, fanatismo, finzione, etc…) e non solo. La Metafisica nel Tempo, trova allocativamente la sua ex-sistenza fondazionale, a prescindere da sviluppi dialettico-materialistici propri della Storia. E sebbene il Tempo e la Storia abbiano scelto una sintassi e una grammatica strettamente categoriali, la Metafisica continua ad affermare la presenza di un multiverso le cui interne determinazioni costringono chiunque o qualsiasi cosa si trovi fenomenologicamente assorbita, a vivere cineticamente un’aspetto del Destino che è già determinato a priori. In questa spettrale triangolazione psico-cosmica (parafrasando Manlio Sgalambro), tutto si gioca sulle opzioni selezionate soggettivamente per la Sopravvivenza. Non ci sono regole, o leggi! E’ una scelta casuale! Può andare bene, come può andar male! O meglio, la scelta può soddisfare o meno parametri di comfort difensivi, nell’affrontare quel dato segmento che sono le nostre vite, ancora una volta sottosuddivisibili in micro strutture che interessano la mente, il linguaggio e l’ambiente, al di là della singolare percezione di complessità. Gabriel Garcìa Marquez, in questo suo ultimo lavoro, Memoria delle mie puttane tristi, sceglie di giocare le sue doti scritturali, su nano porzioni categoriali concernenti il Tempo, la Storia, e la Metafisica.
Il Tempo:Certamente osservando Nancy Hagen, Jenny Kinght, Kae Lee, rese eterne dall’obiettivo di Peter Lindberg, magari su qualche catalogo, o sulle riviste pop-patinate, il Tempo viene a cristallizzarsi nel dominio del qui, ora e per sempre. Ma questo accade su qualsiasi tipo di supporto: l’Eterna Giovinezza tra le pagine di opere immortali, nelle foto, nei film, nei fumetti, nei videogames, nei siti web, sui blog. Col Tempo però si può perdere Memoria, ma attraverso gli occhi, qualcosa ci permette di operare una scelta multimodale, che tramite gli altri sensi, ci porta al presente, o ci trasporta nel passato, il nostro o di chissà chi altro! Spesso l’associazione di idee è sufficiente per ricordare attimi, vicissitudini, ad osservarci e a osservare lo svilupparsi delle cellule,dei muscoli, degli organi, degli arti, dal loro fiorire sino alla definitva consunzione. La scelta dell’opzione divulgativa per la Sopravvivenza, dataci da Marquez, la leggiamo a pag. 133: “ (…) mi attraversò l’idea che la vita non fosse qualcosa che scorre come il fiume impetuoso di Eraclito, ma un’occasione unica di girarsi sulla graticola e continuare ad arrostirsi dall’altra parte ancora per novant’anni”.
La Storia: La successione degli eventi che si svolgono nel mondo, la narrazione di tali eventi e l’interpretazione del loro significato, cronaca documentata e ordinata dello svolgimento di qualsiasi attività artistica, culturale, scientifica, ciò che è veramente accaduto, ma anche quello che sarebbe stato se … o ciò che non si sarebbe mai verificato, diventando quindi Meta-Storia e aprendo le porte d’accesso, senza nessun tipo di Fire Wall che tenga, alla Metafisica! E meta-storica è la vicenda, la storia, narrata da Gabriel Garcìa Marquez, in questo splendido libro. La voce, è quella dell’anziano protagonista, un giornalista bizzarro, eccentrico, redattore del giornale “Diario de la Paz”,(nel XX secolo in cui il progresso fa volare gli aeroplani, e uno Junker, gettando in volo dal suo aereo un sacco di lettere, inventa la posta aerea) alla soglia dei novant’anni. Leggiamo a pag. 11: “ Non ho bisogno di dirlo, perché si nota a leghe di distanza: sono brutto, timido e anacronistico. Ma a forza di non volerlo essere sono riuscito a fingere tutto il contrario. Fino a questo giorno presente, in cui decido di raccontarmi come sono per mia stessa e libera volontà, anche solo per sgravarmi la coscienza (…)”. Estimatore sottile di musica classica e di mignotte, si ritrova ad innamorarsi di una prostituta adolescente, Delgadina, scoprendo il piacere di contemplare il corpo nudo di una donna che dorme ( i rendez-vous puntualmente organizzati dalla vegliarda maitresse Rosa Cabarcas, nel suo bordello) “senza le urgenze del desiderio o gli intralci del pudore”. E’ l’amore, che scopre il professore, quello che non ha mai cercato in tutte le donne che ha incontrato e conosciuto, lui che riteneva l’amore non uno stato dell’anima, ma un segno dello zodiaco, lui che finalmente prende consapevolezza del fatto che l’amore gli aveva insegnato troppo tardi, che ci si veste e ci si profuma per qualcuno, e che non aveva mai avuto qualcuno per farlo.
Metafisica: Delgadina! Attraverso di lei, Marquez, rende omaggio alla bellezza femminile, al corpo di una fanciulla descritto in tutto il suo esplosivo sbocciare, utilizzando magistralmente uno stile, che gli permette di tracciarne i contorni del viso, delle membra, e di ogni sfumatura di un’anima in silenzio, corrosa e stupita dall’ossessivo oscillare di Eros e Thanatos. Fanciulla vista come una gigantessa generatrice in potenza di vita, prolifica nella lussuria come nella castità, tra sangue e fuoco. E mentre ritrae quel corpo, lascia al professore l’ingrato compito di una presa di coscienza, l’ultima forse, in cui viene a galla dalle più profonde abissalità della coscienza, tutta la potenza di una blasfema immobilità! Un rapporto quello tra il professore e Delgadina, che lambisce anche dolci terre della pedagogia sessuale, dove l’eccitamento prodotto dalla contemplazione estatica di quel giovane corpo, viene ricambiato con il tentativo dell’uomo di sublimare quella fanciulla povera, analfabeta,vergine, bellissima (pronta pur di sbarcare il lunario, a donare le sue grazie al professore) attraverso le dolci pagine, durante quegli incontri monointenzionali e monodirezionali, del Piccolo Principe o qualche brano di musica classica. Un po’ da filosofia nel boudoir. Un libro quello di Gabriel Garcìa Marquez, intenso, commovente, malinconico, che costringe il lettore a non staccarsi dalla pagina, per tutta il tempo impiegato e necessario a finire l’intero volume. La bravura di Marquez viene riconfermata anche in questo lavoro, dove la capacità diegetica dell’autore, determina una compattezza e simmetria per tutto l’intreccio, che non da spazio ad alcun vuoto, o appesantimento del testo. Immancabile nella vostra biblioteca!


Gabriel Garcìa Màrquez, Memoria delle mie puttane tristi, Mondadori, pp.146

fonte Musicaos.it

sabato 23 febbraio 2008

Il pittore e il pesce















Domenica 9 marzo alle 17 a Piacenza siete tutti invitati
presso la Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi
s’inaugura l’opera di Carlo Dalcielo intitolata

“Il pittore e il pesce”

e ispirata all’omonima poesia di Raymond Carver.

L’opera è curata da Bruno Lorini e Giulio Mozzi. Il libro è edito da Minimum fax.

Tutte le informazioni nel sito dedicato:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com


In particolare, la poesia di Raymond Carver:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/01-il-pittore-e-il-pesce/

Il progetto dell’opera:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/1-il-progetto/

Il trailer dell’opera:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/2008/02/03/il-pittore-e-il-pesce-il-trailer/

Il saggio critico di Gabriele Dadati e Stefano Fugazza:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/03-introduzione-in-italiano/

Il racconto “Carlo non sa leggere” di Carlo Dalcielo:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/05-carlo-non-sa-leggere-it/

Lo storyboard dell’opera:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/2-lo-storyboard/

Lo storyboard in YouTube:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/2008/02/01/il-pittore-e-il-pesce-lo-storyboard/

L’elenco degli artisti partecipanti:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com/5-artisti-partecipanti/


fonte Musicaos.it

giovedì 21 febbraio 2008

Il mondo di Erika















Fondo Verri a.c.

Presidio del Libro di Lecce

(stagione culturale inverno 2008)

in collaborazione con la Libreria Icaro

Domenica 24 febbraio, ore 19.00

Il mondo di Erika!

Incontro con Erika Scarano



Dove guarda un adolescente? Una ragazza, un ragazzo oggi, nell’affollamento mediale?

C’è l’amore, la necessità di comprendersi nello scambio, nell’unicità e nell’idealità di un incontro. C’è il mondo virtuale, quello dei blog, il “my space” sempre più sponda di uno svelamento profondo, nell’invenzione di una lingua che permette il dire, il venire al mondo nascosti nelle maglie della rete. C’è la strada, la scuola, la parrocchia. Le socializzazioni coi pari.

Poi, c’è la scrittura. Che è inventare, guardare, affabulare e fantasticare.

E’ farsi autori, nel cercare dentro sé le leve per nutrire una vocazione, per maturarla.

Erika Scarano, giovanissima e prolifica autrice salentina, ha pubblicato con le Edizioni del Grifo tre intensi libri: "Il segreto di Villa Clamberry: memorie di un fantasma", "Il circolo della vita" e, in ultimo "Il rogo della strega". Titoli che intrigano.

Erika è attratta dall’occulto, è affascinata dal paranormale. Cerca il dialogo col mistero, il contatto con chi non è. “Devono esserci le tenebre affinché qualcuno possa conoscere lo splendore della luce” così recita la presentazione di un suo libro e con lei scopriamo un altro modo d’essere adolescenti, la piega di una immaginazione per molti versi inaspettata che vale la pena indagare.

lunedì 18 febbraio 2008

Barack Obama ... Yes, we can













Domani 19 febbraio alle 19,00 presso la libreria Palmieri di Lecce, in via Trinchese, incontrerò il curatore del volume di Barack Obama dal titolo "Yes, we can" per i tipi di Donzelli, Empedocle Maffia.

Questa la scheda del libro.




Barack Obama rappresenta, non solo politicamente, l’America del cambiamento. Ogni volta che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una situazione che mette in discussione il loro ruolo storico nel mondo contemporaneo, si ripropone per gli americani la questione: che cosa legittima la nostra aspirazione a porci alla guida del mondo? A questa domanda vi sono due modi di rispondere. Il primo cerca le ragioni nel passato, nell’o­rgogliosa rivendicazione di un modello. Il secondo cerca le ragioni nel futuro, nell’in­di­viduazione dei nuovi scenari possibili, nel cambiamento. È l’America della frontiera, l’Ame­rica di Truman, di Roosevelt, di Kennedy, quella che ciclicamente si ripresenta, e che trova in Obama oggi il suo nuovo, consapevole banditore.
L’America non è stata mai così a rischio e impaurita come dopo l’11 settembre. Mai co­sì in crisi è apparsa la sua capacità «convenzionale» di dominare i conflitti, di fronte a un nemico, come il terrorismo, del tutto «non-convenzionale». Mai come oggi si sono rivelate fragili la forza propulsiva del suo sistema economico, la sua sicurezza energetica, la sua capacità di aggregazione del melting-pot etnico, linguistico, religioso che la costituisce.
La risposta di Barack Obama alla crisi a­me­ricana non consiste – come superficialmente è portata a pensare larga parte del­l’o­pinione pubblica «progressista» nostrana – in una sorta di pacifismo arrendevole, o di solidarismo «buonista», o di anticapitalismo intento a sminuire la forza della competizione e del mercato. Obama è un candidato nero, ma non è il candidato dei neri. Si oppone alla guerra in Iraq (e lo ha fatto fin dal primo momento), ma vuole aumentare la forza e la qualità dell’apparato militare del suo paese. Vuole chiudere Guantanamo, ripristinare la legalità interna e internazionale, chiama al rispetto dei diritti civili, ma sostiene tutto ciò per poter condurre con maggiore forza e determinazione la lotta mortale contro il terrorismo fondamentalista. Si batte – primo tra i leader ame­ricani di ogni tempo – per una nuova sensibilità ambientale su scala mondiale, ma è attento all’in­novazione tecnologica, allo sviluppo, alla cre­scita. E ancora, Obama porta nel cuore della politica americana una motivazione, uno spirito, un afflato che sono profondamente religiosi, ma sa essere assolutamente laico nel di­segnare, su temi come l’abor­to, il controllo del­la natalità, l’etica della vita, gli scenari di un nuovo pluralismo e di una nuova tolleranza. So­prattutto, Oba­­ma non promette il cambia­mento. Al contrario, lo sollecita, lo chiede agli americani. E al tempo stesso, lo «certifica», lo rende possibile: «Yes, we can». Solo attraverso questa assunzione collettiva di responsabilità l’America potrà essere credibile nel chiedere lo stesso cambiamento al mondo intero.
Qualunque sia l’esito elettorale, Obama ha già ottenuto di schierare, di mettere in campo l’America del cambiamento. Nelle parole del giovane leader, è un mondo nuovo e diverso che prende corpo. Per una parte crescente del suo paese è l’ultima declinazione del sogno ame­ricano. Ma tra qualche mese, questa speranza potrebbe segnare la storia di tutti noi.

Barack Obama è nato a Honolulu il 4 agosto 1961, da padre del Kenya e madre del Kansas. Da piccolo ha vissuto per alcuni anni in Indonesia. Dopo la laurea in Scienze politiche alla Columbia University, si è trasferito a Chicago, dove ha lavorato per anni ai programmi di assistenza ai poveri della città. Nel 1991 si laurea in Giurisprudenza a Harvard. Nel 1996 è stato eletto senatore nello Stato dell’Illinois. Dal 2004 siede al Congresso di Washington. Il 10 febbraio 2007 si è candidato alla presidenza degli Stati Uniti per i Democratici. È sposato e ha due figlie.

domenica 17 febbraio 2008

Gezim Hajdari e la poetica dell’esilio.

















L’Albania è un paese che poeticamente ha molto da raccontare. La scrittura poetica di Hajdari non è solo un lavoro sull’elaborazione della separazione e del lutto, ma è un canto su tutto ciò che si lascia alle proprie spalle, su tutti quegli oggetti dell’esistenza che nel loro divenire pre-annunciano la perdita, lo svanire, la distruzione. Una modalità poetica che cerca instancabilmente di ricucire lo iato esistente tra vita e transitorietà dello scorrere del tempo, amore e separazione. Separazione per un poeta migrante non vuol dire semplicemente: incurvarsi sotto la nostalgia per le radici, per i confini, per la lingua. Essa costituisce un tendere la mano all’uomo per conoscersi meglio e comprendere meglio il mondo, stabilizzando un colloquio nuovo con l’Alto e con gli uomini. La separazione diventa salvezza per il poeta e la sua arte.
Hajdari costruisce una sua geografia personalissima di temi poetici che va oltre le categorie dell’Esilio, dell’Addio e dell’Identità. Parte dai Balcani per attraversare l’Europa, l’America, l’Oriente e l’Asia., ma anche il Paradiso e l’Inferno, il passato e il futuro. Abbraccia vari aspetti antropologici, letterari, sociali, politici ed etici, insomma, un percorso che tenta, con il passare del tempo, di diventare una enciclopedia umana. Nella sua penultima raccolta poetica Mal di Luna pubblicata dalla Besa editrice di Nardò (Lecce) il lettore subisce il fascino di una parola scarna, ridotta all’osso dal dolore, che penetra fino alle radici profonde dell’essere, recuperandone l’essenza, e rivelandone soprattutto il dilaniante disagio esistenziale, quel male di vivere di cui si intesse la cifra versica hajdariana. Mal di Luna costituisce un corpus poetico la cui tradizione è data dallo sradicamento di ogni tradizione, l’identità dal confronto con elementi in cui non ci si può riconoscere, la sua forza da una rabbia politica che non concede compromessi, la meta dal ricordo di una patria che si vorrebbe ma non si può dimenticare.

giovedì 14 febbraio 2008

Inquinato il cuore
















Inquinato il cuore
da un decoder inquinato
ossido acido scarico avanzo
il cuore digitale sottoterrestre
inquinato al plasma 42 pollici
il cuore nero il cuore
rubato il cielo negato.
Inquinato il cuore
da boccheggi saltelli puttanaio in grande bordello
in telesalotto in telecerone
che torni la clava e l’aquilone.
Ossido acido scarico a pranzo
per cena l’avanzo
il cuore nero il cuore
secca viola tra due pagine
il cuore è un segnalibro
tra noi pagine sbagliate.



Pierluigi Mele


fonte iconografica www.futurix-news.blogspot.com

martedì 12 febbraio 2008

Da Finibusterrae. Spettacolo teatrale - frame



















Del Sud, l’attesa è vizio e virtù.
Il Sud è un’auto che sembra sprofondare ma resta sul ciglio del burrone, in bilico tra sole e schianto, me ne fotto e pianto.
Aspetta.
Il posto di lavoro, lo stato, il padrino, il terno al lotto.
È umano.
È la debolezza su cui poggia l’arroganza del potere.
La sua mediocrità la nostra.
Quella di chi stende il tappeto rosso ad ogni imbonitore di regime, musicante, velina, intellettuale da cazzeggio, agli eventi, alle vetrine, alle sagre senza amore, ai trallalleru senza notte, senza core, alle svendite in diretta, ai premi Barocco Salento Valentino.
Premieranno anche Riina con l’olio della poesia.
Venghino, signori, venghino!
Io mi scorno di questo marketing, di questa marchetta, del sud che non sono, del sud che non siamo, di chi a bocca aperta aspetta un sud che non c’è.

di Pierluigi Mele

fonte iconografica www.borderlands.it

lunedì 11 febbraio 2008

Fabrizio. Di Pierluigi Mele




















FABRIZIO




Vedremo altri soli
domani, o giù
nella stiva sono questi
i migliori. Ditemi
allora chi scoprire
chi ignorare di nuovo,
quale faccia mettere
in fila alle note,
quale ascia interrare
quale freccia nell’aria.

La signora naviga,
ormeggia alla baia
di cose sicure,
una mano alla mano
di ogni paura.
Riprende il viaggio
tra il fondo e la cima
perché l’uomo
che muove è felice
di averlo cantato.

Solo un caffè chiedo
signora, ho nicotina
a farne di strada,
a svuotare il tempo
e lasciargli un inchiostro.
Stasera discuto una tesi
col buio che tira,
la stella che manca
alla mia collezione.
Avrai caffè ancora
signora, sono notti
che non dormo
e sono certo
di averti sognato.
Sei la stessa dei sogni,
solo l’occhio è più scuro,
quello che guarda
la terra che sembra affondare.

Un ottico, una lampadina
va bene, un cerino
per vedere ai miei piedi.
Ci sono cicche e non sono le mie,
qualcun altro è venuto,
i minori che ho intonato
mi dici, sono i primi
a viaggiare su questa nave.
Ti chiamo signora
e mi piaci così.
Mi hai detto dammi del tu
senza piegare la testa,
perciò ti accordo signora
per chi non s’inchina
e per me, libertà,
e anarchia signorina.

Un calcio dopo l’altro
al cuore a vederlo più alto
volare davvero.
L’ho pulito dal fango
a contare i calci
che ha preso
e al fango l’ho reso
perché non cambiasse.

Da un pettirosso
ho avuto i miei figli,
dai vicoli i fiori,
dai monti prigione
ma è stato fragile
signora tornare
e vedere com’eri.
Ancora un caffè,
voglio sapere
che fanno le acciughe
e che salma è domenica.
Lo suonerò forse
in dialetto, belìn
di un potere, rifarti
il trucco non basta.

Un oceano,
un altro signora,
sarà Nina
a issare le vele.
Le altre ridono
su questa nave,
le tante cantate
sono vere signore
come Nancy
e forse la vita.

Ho freddo, ho sbagliato
stagione a partire,
la pietà ha aperto
sul petto una falla,
un papavero
e non posso vederlo,
ti credevo guarito
invece fai sangue.
Andiamo signora,
se sogno vuol dire
che ho primavera.
La morte è una rosa,
io m’innamoro di tutto.


Pierluigi Mele






PIERLUIGI MELE

Nato in Svizzera nel 1967, vive e lavora nella provincia di Lecce. Ha pubblicato i libri di poesia: Lavare i fuochi (Libroitaliano, 1995), I mestieri si rubano con gli occhi (Edizioni Moscara, 2002), Tramontalba (Edizioni Moscara, 2003). Di prossima uscita il suo primo romanzo Mezzaluna.
Vincitore Premi Poesia e Teatro Dario Bellezza, Lerici Pea, Festival Internazionale del Mediterraneo.
Presso le Università di Perugia e La Sapienza di Roma, sono state svolte due tesi di laurea sulla poesia e l’attività culturale di Mele dal titolo Il Lessico dell’Illusione e Sociologia del Salento.
Particolarmente apprezzato da Maria Corti, Rina Durante, Annalisa Cima, Eugenio De Signoribus, Wanni Scheiwiller e Oreste Macrì.
Svolge attività di pedagogia e didattica dello spettacolo, curando laboratori di recitazione, dizione e scrittura. Dirige il Teatrolaboratorio Le Lune, realizzando spettacoli di ricerca basati su parole, musica e danza.
Ha aperto le edizioni 2006 e 2007 de La Notte della Taranta con alcune letture di suoi scritti davanti ad un pubblico di oltre 100.000 persone.

Per il teatro ha scritto, diretto e interpretato: Bosco Segreto, spettacolo per voce e musicista su poesie di Salvatore Toma; Favolerie, spettacolo sui miti dell’Eneide rivisitati in chiave contemporanea; Luci su Otranto, spettacolo di luci, suoni e immagini sulla storia letteraria di Otranto; Pornò, spettacolo sul “cuore” della Grecìa Salentina; Hydrusa, spettacolo sul mito della giovane donna otrantina nel mezzo della “presa” turca di Otranto; Perditempo, spettacolo di teatro-ragazzi sul tema della fantasia; Lectura Dantis, spettacolo per voce, immagini e suoni elettronici; MurAli, spettacolo per parole, musica e immagini sulle barriere architettoniche e mentali; Prendimi, spettacolo sul Sud oltre i luoghi comuni sul Sud; Tramontalba, spettacolo-concerto per voce, suoni, immagini e danza su poesie di Mele; Quaderno d’Acqua, spettacolo per voce, danza, suoni e immagini su poesie di Mele, Bodini, Bene, Garcia Lorca; Kilim, spettacolo-concerto sui temi delle migrazioni con il patrocinio della Fondazione Fabrizio De Andrè; Api, spettacolo-concerto per voce, musica, danza, mangiafuoco ed Api; Finibusterrae, spettacolo su Otranto, Castro, S. Cesarea, Leuca; La Fiaba del 29 settembre, fiaba d’amore per voce e danza.

fonte iconografica www.setino.it

domenica 10 febbraio 2008

Agnese Manganaro & Sarah Jane Morris


























AGNESE MANGANARO live support a SARAH JANE MORRIS

Nelle due prossime date italiane del Tour europeo di SARAH JANE MORRIS, la nota jazz singer inglese
gia´ voce dei Communards e fresca reduce dalla registrazione a New York del nuovo album di Marc Ribot, ha scelto la giovanissima esordiente
AGNESE MANGANARO (cantautrice salentina che sta ultimando la registrazione del suo album d´esordio)
per aprire i suoi due prossimi concerti italiani.


Il martedi´ 12 Febbraio al Teatro Metropolitan di Palermo (viale Strasburgo 352),
e il mercoledi´ 13 Febbraio al Teatro Metropolitan di Catania (via Sant´Euplio, 21).

In entrambe le date l´esibizione di AGNESE MANGANARO (in duo con Luca Tarantino) iniziera´ alle 21.30,
mentre il concerto di SARAH JANE MORRIS (con la sua band) avra´ inizio alle 22.15

martedì 5 febbraio 2008

Il funambolo sull'erba blu. Il nuovo libro di Maria Pia Romano



















SEDIMENTANDO

Mi sono amputata le gambe
per imparare a correre
sul filo teso delle utopie

a mezzogiorno
ho assorbito istanti
senza dare nomi

a mezzanotte
ho slacciato parole
lasciandomi salvare

è carezza il silenzio

da Il Funambolo sull'erba blu (Besa editrice)

giovedì 31 gennaio 2008

La Besa a Parigi


















FESTA DEL LIBRO E DELLE CULTURE ITALIANE
PARIGI (MARAIS) 1, 2, 3 FEBBRAIO 2008
ESPACE DES BLANCS MANTEAUX
Con il Patrocinio dell’Università degli Studi del Salento

Da venerdì 1 a domenica 3 febbraio del 2008 si terrà a Parigi la “Prima Festa del Libro e delle Culture Italiane”. La Besa editrice, con il patrocinio dell’Università degli Studi del Salento, partecipa con un suo spazio nell’ambito della manifestazione francese proponendo la presentazione del volume “Danze di corteggiamento e di sfida nel mondo globalizzato” a cura di Eugenio Imbriani e Piero Fumarola, alla presenza di due personaggi del calibro di Remi Hess e George Lapassade. Il momento di incontro sarà un’occasione di studio di grande rilievo, dove verranno affrontate questioni come danza, musica, tradizione, innovazione, e interazioni dinamiche tra le diverse diverse classi sociali, rispetto a questi fenomeni. Ci si soffermerà sulla figura dell’antropologo che è obbligato a interrogarsi sul senso dell’attesa, dell’ascolto, dove i corpi agenti dei danzatori, si analizzano, si delineano e infine si riallacciano in uno spazio mentale incrociato dove il mondo e le sue contraddizioni si riflettono grazie al supporto di una musica ricca e complessa e di una poesia incessantemente rinnovata, che trova le sue radici nella tradizione del nostro territorio.

L’appuntamento che si terrà domenica 3 dicembre alle 18,00 nella sala Eventi della Fiera in 48 rue vieille du Temple, avrà il titolo “Transe, danza, possessione e musica. Dal Tarantismo alle Danze di corteggiamento a cura di E. Imbriani e P. Fumarola (Besa editrice)”. Incontro dibattito con Remi Hess e George Lapassade, e proiezione del film “La Taranta” di Gianfranco Mingozzi con commento di Salvatore Quasimodo. La “Taranta” è un filmato accompagnato dal commento di Salvatore Quasimodo, che racconta le esperienze di un cineasta appassionato di antropologia. Per oltre vent’anni Gianfranco Mingozzi ha percorso le terre del Salento documentando per primo, nel 1961, con questo cortometraggio il fenomeno del tarantismo.

Introduce Stefano Donno
Scheda del volume

Danze di corteggiamento e di sfida nel mondo globalizzato, a cura di P. Fumarola e E. Imbriani (Nardò, Besa Editrice, 2006).

Nell’universo mobile e fluido della cultura si attuano processi di istituzionalizzazione e codificazione delle forme; ciò non avviene una volta per tutte, e non necessariamente in modo univoco. Il libro vuole indagare su queste dinamiche, riflettendo sui fenomeni della cultura popolare e, in particolare, sulla danza, e sui modi in cui agiscono le politiche nella determinazione dei percorsi e delle scelte destinati ad assumere rilevanza in una panorama che contempla varie possibilità. Chi stabilisce, allora, quali debbano essere i movimenti corretti della capoeira, della pizzica, della danza scherma o del tango, come mai, a lungo, il valzer è stato considerato pericoloso per la salute delle donne, in quali contesti sono stati fissati le norme e i significati del movimento rotatorio dei mistici sufi; e per quali motivi una manifestazione musicale come «La notte della taranta» è avviata a costituirsi in «fondazione»? Sono questi alcuni dei principali argomenti sviluppati sul piano storico come su quello etnografico e sociologico, in uno scenario multiforme e complesso che coniuga situazioni locali con quel che accade nel mondo.

PIETRO FUMAROLA insegna Sociologia delle religioni all’Università di Lecce. Le pratiche della transe e le culture dei movimenti giovanili sono al centro della sua riflessione, nel quadro teorico dell’analisi istituzionale e della ricerca azione.

EUGENIO IMBRIANI insegna Antropologia culturale all’Università di Lecce. Le sue ricerche riguardano particolarmente temi relativi al folklore, alla scrittura etnografica, ai processi di patrimonializzazione delle pratiche culturali.

Relatori coinvolti:

RÉMI HESS è professore presso l’Université de Paris VIII. Ha pubblicato opere di filosofia, sociologia, didattica, analisi delle istituzioni, antropologia della danza, occupandosi in particolare delle danze di coppia. In Italia sono usciti La pratica del diario (Besa, 2001) e Prodursi nella scrittura (Besa, 2005).

GEORGES LAPASSADE, nella sua lunga carriera, si è occupato delle culture nordafricane e afroamericane, con particolare interesse per i temi della transe e della possessione. Ha scritto testi teorici di analisi istituzionale, psico- ed etno-sociologia, contribuendo alla riflessione sulle modalità dell’inchiesta sul campo; ha indagato fenomeni di comunicazione e aggregazione, come l’hip hop. Da molti anni insegna all’Université Paris VIII.

Stefano Donno - Classe 1975. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Sturm and Pulp” (Lecce, 1998); “Edoardo De Candia, considerazioni inattuali” (Lecce, 1999); il romanzo “Se Hank avesse incontrato Anais” (Lecce, 1999); “Monologo - +” (Copertino, 2001); la raccolta di racconti “Sliding Zone (Lecce, 2002); il saggio “L’Altro Novecento - giovane letteratura salentina dal 2002 al 2004″ (Luca Pensa editore, 2004). Collabora con la cattedra di Scienza Politica dell’Università di Camerino.

martedì 29 gennaio 2008

S. CIURLIA, Varietas in unitate. Individualismo, scienza e politica nel pensiero di Leibniz, Trepuzzi (Le), Publigrafic edizioni, 2008, pp. 286.



















Il volume analizza e discute alcune delle più significative tematiche della riflessione di Leibniz, dal nominalismo giovanile allo studio del disegno teorico su cui si fondano gli istituti accademici, dal confronto con l’aristotelismo umanistico-rinascimentale alla discussione sull’importanza politica di concetti quali «pace perpetua» e federalismo, dall’analisi del ruolo della filosofia in una società in fibrillazione come quella pre-illuministica alla proposta di un’«Europa dei popoli», rispettosa delle tradizioni delle genti. Il tutto all’insegna di una rigoroso dialogo critico con le istanze più recenti ed innovative della storiografia leibniziana, nella convinzione che il filosofo tedesco sia «un pensatore cui l’età moderna deve una delle più suggestive letture di sé» (dall’Introduzione).







SANDRO CIURLIA è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Camerino.I suoi interessi di ricerca si sono indirizzati allo studio della cultura filosofico-politica europea sei-settecentesca, in particolare tedesca: ha pubblicato numerosi saggi su Leibniz, Kant, Hegel e Schelling. Si è anche occupato del metodo dell’indagine storiografica e delle dinamiche storico-critiche dell’ermeneutica filosofica moderna e contemporanea. Ha fondato, nel 1998, “Arché. Rivista internazionale di filosofia e di cultura politica”. Collabora con numerose riviste nazionali di filosofia e di cultura storico-politica. Di recente, ha pubblicato su Leibniz: Antonio Corsano e la filosofia analitica: il pensiero giovanile di Leibniz (Galatina, Congedo, 2002) e Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz (Galatina, Congedo, 2004); Diritto, Giustizia, Stato. Leibniz e la rifondazione etica della politica (Lecce, Pensa MultiMedia, 2005). Sulle tematiche ermeneutiche, si segnalano Ermeneutica e politica. L’interpretazione come modello di razionalità (Saonara (Pd), Il Prato, 2007) e la co-curatela dell’edizione italiana di R.E. PALMER, Cosa significa ermeneutica? (Nardò, Besa, 2008).

domenica 27 gennaio 2008

John Titor. I was "sent"...










I was "sent" to get an IBM computer system called the 5100. It was one the first portable computers made and it has the ability to read the older IBM programming languages in addition to APL and Basic. We need the system to "debug" various legacy computer programs in 2036. UNIX has a problem in 2038.
On my worldline, it is known that the 5100 series is capable of reading all the IBM code written before the widespread use of APL and Basic.
In 2036, it was discovered (or at least known after testing) that the 5100 computer was capable of reading and changing all of the legacy code written by IBM before the release of that system and still be able to create new code in APL and basic. That is the reason we need it in 2036. However, IBM never published that information because it would have probably destroyed a large part of their business infrastructure in the early 70s. In fact, I would bet the engineers were probably told to keep their mouth's shut.


"Io sono stato "inviato" per prendere un computer IBM denominato con la sigla 5100. È stato uno dei primi computer portatili prodotti e ha la capacità di leggere i più vecchi linguaggi di programmazione IBM in aggiunta a APL e Basic. Il sistema ci serve per "debuggare" vari programmi per computer nel 2036. UNIX ha un problema nel 2038.
Nella mia worldline, è noto che la serie 5100 è capace di leggere tutto il codice IBM scritto prima dell'uso diffuso di APL e Basic.
Nel 2036, fu scoperto (o almeno, si è saputo dopo dei test) che il computer 5100 era capace di leggere e modificare tutto il codice scritto da IBM prima del rilascio di quel sistema e che era capace di creare nuovo codice in APL e Basic. Questa è la ragione per cui ne abbiamo bisogno nel 2036. Comunque, IBM non ha mai pubblicato questa informazione perché avrebbe probabilmente distrutto una gran parte della loro infrastruttura commerciale nei primi anni settanta. Infatti, ci scommetterei che agli ingegneri venne detto di tenere la bocca chiusa."

fonte Wikipedia
fonte iconografica www.repubblica.it

sabato 26 gennaio 2008

Tratti in margine

















Per quanto terribile il mio rossore
Non avrò più malesseri ad avvolgerti
In un abbraccio che solo per sguardi incerti
Arrischia visione per quel candore di polsi
Che stracciano senza alcun consenso amore.


Porterò il lutto in tasca e senza lisca d’oblio
Trasformerò il languore dei mei silenzi in odio
Senza troppe smancerie o l’obbligo indiscreto di un addio.

Tratti in margine saranno i ricordi e a nulla serviranno
Gli strappi del consenso che chiuderanno sguardi innocenti
Su pagine e pagine di ebete silenzio o di quasi morte.


fonte iconografica www.alexvisani.com

giovedì 24 gennaio 2008

Untitled ed.
















A passo d'angelo: l'avventura Untitl.Ed
Presentazione della casa editrice Untitled Editori (Untitl.Ed) e del libro "A passo d'angelo"

Interverranno:
Anna Maria Palladino (Untitl.Ed)

Mikel Capelli (autore)



Lecce - Libreria Icaro – sabato 26 gennaio ore 19



Untitl.Ed è stata la prima casa editrice a pubblicare esclusivamente libri scritti da blogger.

L’idea fondante di Untitl.Ed è quella di creare un ponte tra l’autopubblicazione sul web e l’editoria tradizionale.

Untitl.Ed sceglie i suoi autori in base a ciò che scrivono quotidianamente in rete, e li sfida a costruire un libro nuovo – su commissione cioè.

Si guarda al blog dunque non come a una vetrina di testi, ma come al vocabolario effettivo dell’autore, dal quale il libro intravisto prenderà impulso e struttura.

I libri Untitl.Ed sono tutti uguali e non hanno il nome dell’autore in copertina: untitled è inteso come de-titolato, ovvero privo di titoli preventivi che autorizzino lo scrittore a scrivere. Untitl.Ed invita pertanto i suoi autori a fare un passo indietro, a rinunciare a trasformarsi in personaggio-autore (costruendo su quest’immagine la fortuna del proprio libro), affidandosi solo alla forza e all’evidenza delle proprie parole scritte. Esattamente come avviene in rete – dove ognuno è relativamente anonimo, ma non per questo meno riconoscibile.



www.untitlededitori.com

martedì 22 gennaio 2008

Le Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès viste da Nunzio Festa.















Faraòn Meteosès, fa anagramma del suo vero nome: Stefano Amorose; come esattamente fa anagramma della lingua italiana, anzi dei versi, o del verso che versificar si voglia. La miscela incantevole contenuta in Psicofantaossessione permette d’aprire gli occhietti sulla poesia. Amorese raccoglie le sfide lanciate dal mondo, grazie alla sua capacità di mettere in moto un meccanismo – una meccanica poetica – tutt’altro che rispondente a canoni modaioli. E se il termine meccanica può apparire antipoetico, da un pezzo esemplare di KM 1999 è possibile prendere risposta immediata dalle poetica superba di F. M. “Esserci stati, quando ci dovevamo essere, / dietro le barricate, entro le scuole a studiare il Moismo / contro i conservatori, a fianco dei progressisti, / lungo i corsi centrali, nelle piazze, / durante le marce autogestite, / alle manifestazioni non violente”, fino a toccare il cambio di passo che conduce all’estremo. “E noi che abbiamo più di trent’anni suonati, / abbiamo piantato un fiore sopra il cavalcavia / dell’autostrada del Sole al Km 1999, / mentre lassù sfreccia un concorde, / là transita il treno per Lourdes / tu mi consigli di contrarre una pensione integrativa, / d’istallare un impianto a GPL /… di comprarmi la casa a riscatto.” Aldo Nove, per la queste poesie ha parlato di “sapiente dialettica, giustapposizione di voci e forme”, e persino di “un viaggio onirico nella sintassi e nel lessico”. Cogliendo a pieno nel segno. Tanti altri pareri critici, più che favorevoli, ha raccolto per quest’opera prima il poeta romano classe ’65. Dunque occorre entrare in territori che non sembrano ascoltati come si dovrebbe. Amorese non è un nuovo futurista, non è il neo nato cannibale che sa fare versi Contro o dentro. Nonostante una lirica per il fratello Bovè. Stefano Amorese ha composto una volume che strumentalizza la lingua italiota per permetterle di rovinare certezze acquisite nel corso degli anni, per rivolgere un saluto fatto di invenzioni musicali e Sensazionali all’umanità che vive in forma di gregge. E l’umanità tutta dovrebbe sospirare a contatto con cadenze e una dimestichezza nel lasciare a bocca semiaperta, farsi sconvolgere come difficilmente sa ormai fare. Psicofantaossessioni è la maniera giusta per ricordare che esiste ancora una forma di libertà che è possibile inseguire, ricercare, oltre che con cura rispettare. Dove c’è l’attuale e il quotidiano, dove il passato si fa condire dal presente arriverà il pensiero di questi versi sublimi scabroso.



Psicofantaossessioni, di Faraòn Meteosès, LietoColle (2007)

La ragazza sordomuta. Racconto di Dora Albanese




















Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira - con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
- Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta - quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia - mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole - ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone - come fosse una cicatrice - e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre - Caterina, italiana d’origine - era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo - erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali - frequentati di nascosto - che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo - quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia - si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac - la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno - memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio - per scegliere quale giovane orfano prendere con sé - quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio - e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire - gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti - quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento - sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera - iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta - per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa - era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni - un ragazzo, ormai - che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così - finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

fonte Musicaos.it
fonte iconografica www.nicolalalli.it
nell'immagine opera di J. Fussli

domenica 20 gennaio 2008

... e di nuovo verrai di niente vestita









Forse sei arrivata davvero

Sono entrato nel settimo sogno

L’aria a lungo sperata e immaginata
Nella polvere che si colora
Prende forma
Comincio a toccarla
Si lascia attraversare

Poi si scompone
Come di respiri mischiati
In un nuovo vivere

Fresco tra le dita
Ancora mistero
E d’intorno senso pieno


Vito Antonio Conte, … e di nuovo verrai di niente vestita
Luca Pensa editore

fonte iconografica www.repubblica.it
nella foto Victoria Silverstedt

giovedì 17 gennaio 2008

La sveglia elettrica di Icaro Ravasi

















Amica cantante di “chicchiricchì elettrico”
Quadro di pittore matematico senza pennello
Notturna e diurna
O meglio:
nottambula e girovaga
sempre all’erta
e in carica

da “La chitarra blu” con prefazione di Dacia Maraini
edizioni Libere

fonte iconografica www.letrottoir.it

mercoledì 16 gennaio 2008

Amoà Fatuiva. Orizzonti Impazziti









Ho steso un tappeto come una sposa dell'Est
ricamato con i miti di regioni sconosciute
per festeggiare il ritorno del tuo destriero.
Ho vegliato tutta la notte pregando i xhin
affinchè il maestrale non ti portasse via.
Giungerai con passi silenziosi come la tua Ombra
e vi imporrai l'orma duratura
della tua Storia

da Orizzonti impazziti di Amoà Fatuiva (Besa editrice)

lunedì 14 gennaio 2008

Io sono leggenda di Richard Matheson

Il libro di Matheson non è un libro qualunque. Non so se sia un errore o meno lasciarsi prendere dalla voglia di incasellarlo all’interno di un genere letterario, come quello dark ad esempio, perché verrebbero messe fuori due altre categorie come l’horror e il noir, che tutte e due l’autore sintetizza in maniera davvero esemplare. E allora? Lasciamo da parte qualsiasi intento sistematizzante, che in certi casi, e mai come in questo, si rischierebbe di fare gran brutte figure. O peggio uscirsene alla buona con affermazioni del tipo … una splendida metafora del limite sottile esistente tra normalità e diversità. L’orizzonte in cui si muove la vicenda narrata è l’Apocalisse. Per essere più chiari: immaginiamo uno scenario consueto come quello che trascorriamo giorno per giorno, dove gli oggetti, le persone, le cose, i ricordi, le nostre abitudini, il lavoro che svolgiamo per tirare a campare, gli affetti facenti parte non solo del nostro bagaglio interiore, ma anche di quello agito nella realtà, scompaiono improvvisamente. E di tutto quell’universo esistenziale non rimane altro che un sopravvissuto, che scoprirà a sue spese di non essere l’unico! La meccanica narrativa sviluppata da Matheson in “Io sono Leggenda” percorre con grandissima lucidità tutte quelle dinamiche psicopatologiche che fanne parte degli abissi mentali di tutti coloro i quali riescono a sfuggire ad un disastro: sciagura aerea, attacco terroristico, guerra, incidente automobilistico mortale. Poi l’autore lavora ancora di fino, e con grande disinvoltura rappresenta tutte le tecniche di sopravvivenza, che un essere umano può mettere in campo, in un ambiente ostile, pericoloso, dove l’altro è né più né meno che un predatore, con mezzi di sussistenza che diminuiscono copiosamente con il trascorrere del tempo, secondo la legge della darwiniana selezione della specie: il più forte domina, il più debole soccombe. Ma non è così semplice. In base a questa teoria si tratterebbe di eliminare i pesi morti della specie di riferimento, per migliorarne esponenzialmente la qualità, potenzialità, e la produttività. Nello specifico, è in ballo la razza umana, il suo ultimo prodotto. Parliamo di una minaccia che viene dallo spazio? Una guerra termonucleare su scala planetaria? No un batterio ad alto potenziale virale, trasforma gli esseri umani in vampiri. Robert Neville sembra uno di noi, che dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa, svolge le sue attività domestiche, del tipo cucina, scopa per terra, ascolta un disco, si siede in poltrona ascoltando musica classica, si concede la lettura di un libro. Mi si potrebbe dire … e allora? Tutto nella norma! Eppure la sua è una vita tutt’altro che normale. Di giorno forse … ma dopo il tramonto…le cose cambiano! Neville è l’ultimo uomo sulla Terra in un mondo completamente popolato da vampiri.Robert in perfetta solitudine, studia il suo nemico. Ne analizza ogni singolo aspetto, la storia, la leggenda, il mito di questi abomini, e addirittura riesce ad entrare in possesso di un campione di sangue di questi neo-vampiri, e ne studia chimicamente la composizione. Il tutto per raggiungere un unico, fondamentale obiettivo: lo sterminio delle creature delle tenebre. La storia è ambientata nel 1976. In questi giorni esce nelle sale cinematografiche il film con Will Smith, dove l’ambientazione appartiene ai nostri giorni. Sia in un caso che nell’altro rimarremo tutti a bocca aperta!

fonte Musicaos.it


Io sono Leggenda, di Richard Matheson, Fanucci, pp.224, euro 13

domenica 13 gennaio 2008

John Titor. Nessuna delle cose che ho detto ...















None of the things I have said will be a surprise. They were set in motion ten, twenty, even thirty years ago. Are you really surprised to find out that Iraq has nukes now or is that just BS to whip everyone up into accepting the next war?


Nessuna delle cose che ho detto saranno una sorpresa. Esse sono state messe in moto dieci, venti, perfino trenta anni fa. Ora vi sorprenderebbe di più scoprire che l'Iraq ha delle armi nucleari o che era solo una stronzata perché tutti accettassero la guerra?

John Titor


fonte iconografica www.heavyplace.com
fonte testuale www.wikipedia.com

sabato 12 gennaio 2008

John Titor. Nel 2008 ...






















The year 2008 was a general date by which time everyone will realize the world they thought they were living in was over (or never was).

Il 2008 è l'anno entro il quale chiunque si renderà conto che il mondo in cui pensavano di vivere è ormai finito (o non è mai esistito)

John Titor


fonte testuale www.wikipedia.it
fonte iconografica www.ciai-s.net

mercoledì 9 gennaio 2008

John Titor. Nel 2036...



















«Sì, credo in Gesù Cristo e preghiamo Dio nelle chiese. Ci sono alcune differenze che vi potranno interessare. La religione è una parte enorme nella vita della gente nel 2036. Il dolore e i cambiamenti tendono ad avvicinare le persone agli altri e a Dio. Comunque, la religione è molto più personale di quello che è ora. Non ci sono religioni grosse e centralizzate e le persone parlano apertamente delle loro credenze. Vi potrà interessare anche il fatto che il giorno della preghiera è il sabato, il giorno che Dio ha creato come Shabbat e che i 10 comandamenti sono tornati a essere i "10" che Dio ci ha dato. »
(John Titor )

fonte www.wikipedia.it

lunedì 7 gennaio 2008

In Padania...sognando Mutu. Di Mihai Mircea Butcovan




















Povero io sono
e solo i miei sogni posseggo
Cammina in punta di piedi
perché cammini sui miei sogni.

William Butler Yeats

«Effettivamente, se bruciassero le tende degli zingari, stasera, domani potremmo vincere la partita di calcio… Se brucia anche la casa di Andrei, che è fortissimo, domani non verrà a scuola».

Questo pensavo ieri sera, dopo aver origliato le discussioni da grandi che mio padre faceva nella tavernetta con i suoi amici. Mi aveva detto: «Andrea, vai in camera tua che dobbiamo fare discorsi da grandi!» Ero già molto agitato perché oggi si doveva giocare ancora, a scuola, una partita del torneo di calcetto.

Ieri pomeriggio mio padre aveva occupato il telefono per più di due ore. Appena metteva giù la cornetta, il telefono squillava di nuovo e papà urlava: «Adünansa… ci troviamo da me, prima di cena, vedi di trovare anche Giuanin il Viscunt e il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent, tucc!».

Tra tutti i sopranomi che avevano gli amici di papà Esercent era quello che mi piaceva di più. Sembrava il nome di un rapper d’oltreoceano. Gli amici chiamavano mio padre Parabula, forse perché ogni volta che iniziava un discorso diceva: «Par esempi…». Invece la mamma diceva che lo chiamavano così perché era un po’ la sua storia di impegno politico. E mia madre chiamava Parabula anche lo zio, il fratello del papà, che è nel sindacato.

Ieri sera erano tutti lì, tranne lo zio, nella tavernetta di sotto, e Giuanin diceva: «Dobbiamo mandarli via quei baluba. Quelli che rubano nelle case e rubano i bambini e ammazzano la gente… zingari comunisti mangiabambini…»

Il mio sogno è quello di fare il calciatore. E sogno di fare gol come Mutu. Lo avevo visto quando ero andato allo stadio con il nonno, a San Siro. Il nonno m’aveva detto: «Si va allo stadio, Andrea. Per vedere il bel calcio e fare festa».

Oggi invece, a scuola, si doveva giocare contro quelli della sezione B, fortissimi. E sono diventati ancor più forti da quando è arrivato Andrei, “il rom”. Io invidio Sergio, non mi vergogno e gliel’ho detto in faccia. Sergio è il mio amico d’infanzia, il mio vicino di casa e compagno di classe fino all’anno scorso. Poi ha cambiato sezione da quando mio padre aveva detto, alla riunione coi genitori, che la sezione A doveva rimanere degli italiani e non si dovevano inserire ragazzi stranieri. «E nemmeno terroni…» aveva aggiunto papà a denti stretti mentre si sedeva. Ma ormai gli altri genitori l’avevano sentito ed il padre di Sergio ha deciso di spostare suo figlio in un’altra classe.

Sergio fa le vacanze estive dai nonni a Palermo. Ha in classe un cinese, un marocchino, due filippini, un romeno e due zingari “rom”. «I rom non sono romeni», dice Sergio. Glielo ha spiegato Gabriel, il compagno romeno. Ma Andrei e Sergiu, i due rom, vengono dalla Romania. Giocano benissimo a pallone. Arrivano ogni giorno a scuola con un pulmino. Vivono in un campo nomadi in delle “tende provvisorie”. Li hanno mandati via dalle baracche di un altro campo. «Sono un po’ vivaci, come noi» dice Sergio. E sono fortissimi nella corsa e nel calcio.

Sotto, nella tavernetta, mio padre stava urlando parolacce, ieri sera.

Domenica gioca il Milan, si va allo stadio… Anche lì papà dice le parolacce… Ieri sera papà ha tirato fuori la maglietta con la scritta: Tegn dur contro il sud magrebino. «Non si sa mai», ha detto alla mamma.

Quella maglietta papà l’ha comprata qualche anno fa, ad una festa dove erano tutti vestiti di verde, come dei marziani o come la squadra dell’Irlanda. C’era un rito dell’acqua e tutti che gridavano: «Fuori l’Italia dalla Padania, fuori la Padania dall’Italia, e fuori l’Italia dall’Europa». Poi col tempo hanno cambiato, gridano lo stesso, ma cose tipo: «Fuori gli zingari dall’Italia, e tutti i baluba a casa loro».

Ricordo che c’era quella volta un uomo col fazzoletto verde che urlava al microfono: «Noi quella gente non la vogliamo, padroni a casa nostra, stiamo bene da soli…». Io pensavo che è triste vivere da soli. Si era agitato per un’ora quel signore col microfono. E tutti si agitavano con le bandiere quando lui alzava la voce, diciamo ogni due minuti circa. Aveva sbagliato qualche congiuntivo il signore col fazzoletto, ma ho capito che non era il momento per farglielo notare a mio padre.

Papà era impegnato a urlare, con bandiera verde legata al collo e con il volto rosso carminio: «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne».

C’erano tutti a urlare e agitare bandiere: Giuanin il Viscunt, il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent. Col ritmo un po’ rap. «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne». Il via alle urla l’aveva dato ancora l’uomo col microfono. Quello con la voce rauca, quello che poi mio padre aveva messo sul desktop del computer, a casa. La foto di quell’uomo vestito da Zio Sam con la scritta: «Mì te voeuri!»

Ogni volta che accendevo il pc mi ritrovavo la faccia di quell’uomo, con il cilindretto, il frac e il dito puntato minaccioso: «Mì te voeuri!». Altro che uomo nero. L’uomo verde ad ogni accensione del computer: «Mì te voeuri… mì te voeuri!» Era diventato l’incubo dello schermo, il tormento del monitor. «Mì te voeuri…?» In qualche modo l’uomo verde se l’era preso, mio padre. Infatti papà ogni tanto tornava la sera in garage vestito di salopette, come un imbianchino, sporco di vernice bianca e verde. E sentivo che diceva alla mamma che lo aspettava con il vin brulé: «Che ciulada sul cavalcavia!».

Scriveva sui muri di cemento cose tipo «Padania libera, Padania ai padani» e altri slogan sentiti al rito dell’acqua. Lo zio sindacalista, prendendolo in giro, le chiamava «installazioni artistiche».

Non penso che lo chiameranno mai alla Biennale di Venezia per una scritta da cavalcavia tipo «romaladrona, padaniastato»…

Per il compleanno il papà aveva regalato alla mamma, tempo fa, un «elegante set cucina sale pepe serigrafato con sole delle alpi», ordinato su Internet. La mamma aveva detto: «Adesso anche i miei regali sono diventati sovvenzioni per il partito». E ha messo il suo regalo nella tavernetta, per le riunioni degli amici di papà. Che a volte giocano al Risik Padan. E bevono grappa «Va’ Pensiero».

Papà dice che il comunismo ha fatto tante vittime e che non bisogna falsificare la storia. Lo zio gli risponde che forse è vero ma neanche bisogna dimenticare quando noi andavamo in America.

Il papà dice che lo zio andrà all’inferno per quel «forse» e che noi però non eravamo «con le toppe al culo». Lo zio risponde: «Allora per chi fate la toppa Sole delle Alpi?». Mio padre sotto la doccia canta: «Va’ pensierooo…». Che poi lo zio gli dice: «A furia di lavà el penser… ghe n’è pù… l’è andaa…». La mamma a volte fa dei lunghi sospiri e dice che quei due, fratelli, prima o poi si prenderanno a botte.

Lo zio ha sposato una pugliese. Papà chiama anche lei, quando non c’è la zia, baluba. «Maschile o femminile, sempre baluba è» mi disse papà quando gli chiesi se anche mio cugino fosse un balubo. Il papà dice: «Ognuno a casa sua». Che tristezza, ognuno a casa sua! E ieri sera dicevano, nella tavernetta, gli amici di papà: «Organizziamoci, difendiamo il nostro… fratelli sul libero suol, meniamo i baluba… contro i baluba… uniamoci!». E poi sono usciti tutti insieme, ringraziando mia madre per la torta. E mia madre scuoteva la testa, preoccupata.

Allora se Andrei non si fosse presentato a scuola per il torneo noi avremmo sicuramente vinto…

Andrei gioca scalzo ed è fortissimo. Sogna di fare gol come Inzaghi. Un giorno, all’intervallo, quando Sergio me lo ha presentato, gli ho detto: «Ciao, sono Andrea, quasi come Andrei. Ma tu, se giocasse Italia contro la Romania, chi tiferesti?». Andrei mi aveva risposto «la Romania», anche se dicono che lui è rom. Però viene dalla Romania. E aveva aggiunto: «Ma comunque deve vincere il migliore. E se nessuno migliore va bene anche uguale». «Uguale?» ho chiesto io perché non capivo. «Sì, uguale, cioè pareggio», m’aveva risposto Andrei.

Ma oggi non si è giocata la partita del torneo, a scuola. Andrei è arrivato tardi a scuola, lo hanno portato, col solito pulmino, delle persone grandi, preoccupate. Anche le prof erano preoccupate.

All’intervallo Andrei raccontava a Sergio: «Oggi tenevo stretto per mano mio papà… hanno bruciato le nostre tende… non si sa chi è stato. Papà dice che è gente razzista… “razzista” sembra cattivo… se brucia le tende in cui dovevamo abitare… forse lo è… era arrabbiato mio padre, voleva dire tante cose ai giornalisti ma secondo me sbagliava qualche parola. Io imparo l’italiano, non è facile ma papà dice di studiare che così avrò più fortuna di lui nella vita e saprò anche difendermi con le parole e parlare bene coi giornalisti».

Questo pensava Andrei oggi, nel giorno della partita del torneo a scuola. È venuto lo stesso a scuola e ci ha detto che gli dispiaceva per la partita ma anche perché ora sentiva dire che si doveva traslocare di nuovo, proprio sotto Natale, come un anno fa, perché si diceva che la gente qui non li vuole. Proprio ora che suo padre aveva trovato un lavoro e sua madre era contenta perché non si doveva più andare in giro a chiedere la carità, come qualche mese fa.

E ci ha detto che ieri sera erano pure felici, era il compleanno di sua sorella Adela, era venuto il Don, Massimone, Maria Grazia e tanti amici a portare una torta ed una bambola. Per Adela era il primo vero compleanno. Ma forse, diceva lei, non avrebbe potuto mai collezionare bambole. Traslocavano troppo spesso.

Mi dispiaceva vedere Andrei così triste. Poi lui mi ha detto: «Se vuoi possiamo giocare a pallone insieme qualche volta, se troviamo un luogo dove giocare…».

Avvertenze per i lettori:

In quella scuola andavano anche Adela, Elena, Elisabeta, Georgia ed erano compagne di Adele, Elena, Elisabetta, Giorgia.

La faccia di quel signore vestito da Zio Sam che punta il dito: «Mì te voeuri!» esiste. E pure il Risik Padan. E se volete sapere di più delle ciulade padane fatevi un giro in rete.

Avete fato un po’ fatica a districarvi tra Andrea e Andrei, tra Sergio e Sergiu? Affari vostri. Quella piccola differenza nei nomi vi ha disturbato nella lettura? Affari vostri.

Quella piccola differenza nei nomi racconta molte altre differenze nelle loro vite. Ma non nei loro sogni da bambini. Che sono affari nostri, di tutti. Anzi, ci riguardano.

Dedica:

Ai ragazzi che menano il balòn sul campo di calcetto in un parco di Milano.

Ai sognatori che hanno regalato loro il campo per giocare, i palloni e qualche sogno in più.

A coloro che rendono i sogni dei bambini realtà.

Il racconto è stato pubblicato su il manifesto del 3 gennaio 2008

Mihai Mircea Butcovan
E' nato nel 1969 in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale. Vincitore nel 2003 del premio «Voci e idee migranti», ha pubblicato il romanzo «Allunaggio di un immigrato innamorato» (Lecce, Besa 2006) e con la raccolta di poesie «Borgo Farfalla» (Eks&Tra 2006) ha vinto, nel 2006, la XII edizione del Premio Eks&Tra.

(mihai@fastwebnet.it)



fonte iconografica www.fiorentina.it

giovedì 3 gennaio 2008

Salento's Movida di Armando Tango

Fortunatamente da qualche anno a questa parte, il mondo delle lettere salentine, contro ogni previsione (Rina Durante scriveva in un suo articolo sulle pagine del Quotidiano, l’impossibilità del Pulp nella piccola città di provincia e poi c’era invece già Maurizio Leo che mixava da tempo ormai, Beat e Pulp in maniera eccezionale) comincia a creare un’identità altra che non è solo Comi, Bodini, Pagano, Toma, Verri, Ruggeri, o la Pizzica, ma non perché non siano necessari a costruire una mappatura del fare poesia e letteratura in queste terre, tra le maglie della sua storia, ma perché ciò che sta emergendo è un desiderio di riscrivere la storia della lettere a queste latitudini. Si poteva mai pensare ad esempio ad un giallo salentino o addirittura al noir? Era tutto in gestazione da queste parti, basti pensare al Delitto di Campi 1 e 2 di Gianni Capodicasa (Luca Pensa editore) e Libreria antica Roma. Il mistero di Taviano (Lupo editore) di Raffaele Polo. Pur non entrando nel merito qualitativo di queste due opere appena indicate, avendo chi più chi meno il diritto di esistenza nell’ambito della storia della letteratura contemporanea salentina, non posso non dire che comincia a strutturarsi un quadro di una geografia letteraria che prima o poi dovrà essere sistematizzata. Ora dopo le sue fatiche letterarie come La Lecce di papà (Eda) e Scusi vuol ballare con me?, (Edizioni del Grifo) a cui collaborai con grande piacere, ecco che Armando Tango, pseudonimo del giornalista leccese Teo Pepe, aggiunge un’altra interessante pubblicazione dal titolo “Salento’s Movida ” edita da Glocal editrice. Un giallo o un noir salentino? Difficile dirlo perché sembra che Tango sia abile ad utilizzare i codici dei due generi narrativi, con grande maestria e talento, conosce i trucchi del mestiere, le sue zone d’ombra, e sa perfettamente dove puntare i riflettori, perché di un’ibridazione equilibratissima tra sceneggiatura e romanzo sembra questo libro, che ti prende e non ti molla più, per ben 241 pagine. E c’è tutto e molto di più in quest’opera, lu sule, lu mare, lu ientu, le notti afose, la Lecce by night, la movida vacanziera e vip di Santa Maria di Leuca e i suoi salotti bene, il caldo torrido, le angoscie, le ansie, le paranoie di un’avventura che comincia a seminare una scia di sangue per un “paperino” - non vi svelerò di cosa si tratta perché se no che sorpresa è - che contiene dati sensibili e scottanti, e che lega i destini dei protagonisti, tutti ben delineati, e con una psicologia tracciata magistralmente in poche battute: Brooke (che ricorda il biondone di Beautiful); Pachi (fotografo very-macho-magnaccia, un clone di Costantino di provincia); il dj Claudio Capace; la nobildonna Adriana Cristofalco, Massimo Bellardoni il commercialista piacione, Pappa personaggio molto simile ad Adriano Pappalardo, e dulcis in fundo Maurizio Costanzo e Maria De Filippi …. Che c’entrano?! Scopritelo da soli ….


fonte da www.musicaos.wordpress.com

I prodotti qui in vendita sono reali, le nostre descrizioni sono un sogno

I prodotti qui in vendita sono per chi cerca di più della realtà

Cerca nel blog

My Hero Academia: Oltre l'eroismo, un'esplosione di poteri e valori

  PUBBLICITA' / ADVERTISING Un mondo di supereroi, ma non come lo conosciamo In un futuro non troppo lontano, il mondo di My Hero Academ...