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martedì 19 maggio 2009

WALTER SITI, IL CANTO DEL DIAVOLO (RIZZOLI, COLLANA 24sette). Rec. di Silla Hicks

Premetto: sono eterosessuale. Ho sempre amato le donne, da quando mi sono accorto che esistevano, o meglio da quando loro si sono accorte che esistevo io. Avevo quattordici anni e tre mesi e dovevo già radermi ed ero solo pochi centimetri meno di adesso, un gigante spaesato che i compagni di classe chiamavano il vichingo, sradicato dal suo tutto, e lei di anni ne aveva trentacinque, ed era amica di mia madre, si chiamava Susanna, un nome da formaggino, gli occhi scuri e i capelli tinti di un biondo che mi ricordava casa.
Mi offrì il primo bacio e la prima sigaretta, una multifilter blu, e mi regalò un quaderno che curasse la nostalgia. Mi faceva piangere e pensare che ammazzarmi fosse l’unica via di fuga che mi restava: quando vorresti morire scrivi, mi disse, puoi farlo in tedesco, e sarà come tornare.
La ringraziai senza crederle: c’è voluta una vita per imparare quanto avesse ragione.
Non l’amavo, perché non ero capace: odiavo tutto, e soprattutto me. Quando cambiammo casa e la persi di vista non feci niente per ritrovarla. Da allora – sono passati più di vent’anni - non ne so più nulla, e mi dispiace, adesso, che lei è uno dei pochi ricordi belli che mi restano, e altre donne –in realtà, soltanto una– mi hanno reso quello che sono. Ma comunque sia – anche adesso, anche così – continuo a credere che un uomo senza una donna non possa avere senso: anche quando ti uccidono, sono la causa prima per cui siamo. L’anello di congiunzione tra l’uomo e dio, o il demonio, che è la stessa cosa, all’altro estremo della scala: in un caso e nell’altro sono loro a portarci in cima o in fondo, loro che ci spingono sulla strada, e che sia quella giusta o quella sbagliata non conta, senza di loro resteremmo immobili, sul ciglio, senza un pretesto per scegliere, e sarebbe infinitamente peggio - peggio anche di questo - non esistere, mai.
Premetto ancora: non ho mai pensato che l’identità sessuale potesse essere liquida, per quanto mi riguarda, almeno. Io sono un uomo, e amo le donne. Punto. Non mi riesce di immaginare qualcosa di diverso, la mia parte femminile è stata la mia donna, e prima di lei mia madre, e adesso, che è successo quello che è successo, mia sorella, con cui divido la casa e tante sere nere, i suoi numeri e le mie parole, la sua motocicletta e la mia motrice, due modi opposti di cercare risposte che miracolosamente completano il puzzle, perché è vero che sono l’altra metà del cielo, sono figlio dell’androgino io, spaccato a metà dal fulmine nel simposio, e cerco la metà amputata che mi manca.
È questa la ragione per cui ci ho messo tanto, a leggere le 205 pagine di questo libro, dalla dedica ai ringraziamenti inclusi: il perché ci ho messo tanto e il perché l’ho capito solo in parte, anche, e questo è un peccato, perché è indiscutibilmente un bel libro, che intessuta in un’ottima guida lonely planet post Naomi Klein sugli Emirati porta una storia d’amore scritta con gli occhi feriti a morte di chi l’amore ha avuto il coraggio di guardarlo in faccia, e sì che ci vuole coraggio ad essere “l’altro”, non si ha niente e non si può chiedere niente, nemmeno di essere amati, perché significherebbe imporre una scelta, e il rischio che significhi la fine anche di quel niente cui si sta aggrappati è fuori questione, e così pazienza se si viene maciullati ogni attimo, ne sa qualcosa il mio amico Giuseppe, che è stato l’amante per anni, e, dio, quant’è bella questa parola, e quanto è tremenda se non si associa a nient’altro, quant’è straziante quando significa solo niente domeniche e niente natale e niente compleanni, solo ristoranti sul mare d’inverno e qualche weekend camuffato da lavoro, guai se lo scopre qualcuno.
È una storia che gronda vita – nel senso letterale: qui e là sgranata, come la vita è, una montagna russa in cui basta un cellulare irraggiungibile a spegnere le luci sul mondo - ed è raccontata bene, in una lingua zeppa di riferimenti quanto più cerca di destrutturarsi nel gergo, sudore di uno scrittore vero, cui riesce senza sforzo quello che chiunque provi a scrivere sogna, fare buio in sala e proiettarti ogni riga nel cervello, finchè non sei lì, nel bel mezzo della pagina che ti viene incontro e senti, finalmente, il profumo dei gladioli e le grida dei russi che giocano a pallavolo in piscina e tutto il resto, anche il sapore del risotto con asparagi e tartufi, e sopra ogni cosa il dolore dell’amore che non riesce a ritagliarsi una stanza tutta per sé nella vita di ogni giorno, che è confinato alla vacanza, al ritaglio, nessuna certezza del domani.
Tutto chiarissimo, so cosa sia, cercare di comprare quello che può essere solo un regalo,io che nel 2000 avevo 35 milioni di debiti (e ci tengo a sottolineare che proprio allora tornammo assieme, quando non potevo offrirti nient’altro che me, a riprova che ci sono cose che non hanno prezzo, né possono averlo, e com’è andata a finire è un’altra storia).
Ma questo libro è una lettera d’amore – sussurrata nelle prime pagine, a voce così bassa che ti chiedi se hai capito bene, così rileggi, finché non ti rassegni – e poi urlata – senza nessuna forma di discreta censura, e sì che Lui è sposato, e cerca ai bazar un posacenere da regalare alla moglie – per Massimo e il suo lessico romanesco e il suo perizoma da culturista, cui lo scrittore regala una vacanza superlusso per ricompensarlo di esistere, prima di immergersi in un viaggio solitario e necessariamente low cost oltre l’ologramma di una terra fabbricata con il Lego, alla ricerca della sua anima e della propria, entrambe perse, l’una soffocata dalla plastica di sogni faraonici e l’altra dal suo amore clandestino.
E purtroppo, malgrado i trentasette anni e i forse trentasettemilioni di chilometri che ho alle spalle, l’unico modo che ho avuto di decodificarlo è stato trasformare Massimo in Marina, farne un adattamento che mi fosse comprensibile, e necessariamente questo ha significato semplificare, distorcere, e molta parte del tutto mi è rimasta oscura.
Me ne scuso, non è rifiuto del diverso, no, è una vita che sono diverso in quasi tutto, sono mancino, e zero negativo, e porto il 47 di scarpe e ho capelli e ciglia così chiari che sembrano bianchi, ma ci sono cose che vanno oltre quello che posso capire, che hanno strutture e meccanismi che mi sfuggono, e quando succede devo trasformarne l’algoritmo in un simbolismo che mi sia comprensibile, e il risultato necessario è perderne le (probabilmente più profonde) sfumature.
Come questa volta, ed è stato un peccato: di questo libro – gli Emirati restano sullo sfondo – mi è rimasta la sensazione sgradevole del disegno del tappeto impresso sulle ginocchia di Massimo a pag. 34, che è stata un pugno nello stomaco, non mi vergogno a dirlo, per me come per molti uomini (la maggior parte? Questo non lo so. Sono uno solo, io.)
Peccato, davvero. Una storia bellissima, raccontata ancora meglio. Ma sarebbe stato troppo sforzo chiamare Massimo Marina? Troppo sforzo concederci di capire, davvero? Ho trentasette anni e trentasettemilioni di chilometri alle spalle. E chiuso il libro è alla moglie di Massimo, che penso, al suo sorriso quando avrà ricevuto il posacenere, al dolore che non sa di provare, perché, ne sono certo, lei non sa.
Ma poi finalmente capisco, è questo il miracolo vero di un vero libro, la moglie di Massimo nella storia non c’è, non si vede, eppure io l’ho vista, sto pensando a quello che deve aver pensato, sono entrato nei suoi panni, e magari lei nemmeno esiste, è tutto inventato, ma io la vedo, questa donna che è rimasta a Roma, che ha aspettato che il marito tornasse ed è corsa a prenderlo all’aeroporto, il suo muscoloso marito che neanche saprebbe immaginare carponi sul tappeto del resort che le ha portato in regalo il patchouli e chissà cos’altro comprato nei suk che visitava con il suo amante di sessantadue anni, chissà le balle che le ha raccontato per coprire tutto, e vorrei gridarlo, dirglielo, e prendere lui per il collo, anche, so cosa vuol dire essere traditi, e non credo che il dolore che si prova sia in relazione con chi.
Così, finalmente capisco, istintivamente ho scelto da che parte stare, sono entrato nella storia, ed è questo che conta. Che molto, moltissimo mi sfugga dei meccanismi di cui parla non è più importante, il fatto è che ci sono entrato, e questo è tutto.
È questo il miracolo vero di un vero libro.
E questo è un vero libro.
Avrei preferito che Massimo fosse Marina, sì.
Sarebbe stato più facile leggerlo. Ma è un vero libro, e il resto, gli Emirati, il perizoma e il tappeto, sono dettagli. Non conta di quali io – lettore, maschio, trentasettenne, eterosessuale, camionista, italotedesco - avrei volentieri fatto a meno.

AVREI PREFERITO MARINA
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(WALTER SITI, IL CANTO DEL DIAVOLO, 2009, RIZZOLI MILANO, COLLANA 24sette)

lunedì 11 maggio 2009

La settima stella di Maria Pia Romano (Besa editrice). Rec. di Silla Hicks

Ciao, Pia.
Non lo userò, il tuo nome intero, che ti appesantisce, mentre tu invece sei leggera. Non fisicamente, intendo: o, piuttosto, questo io non lo so, solo ti immagino, le guance paffute, ancora incerta sulla soglia dell’adolescenza.
E’ dentro, che sei lieve.
Acqua nell’acqua, eterea solo come chi è molto giovane può ancora essere quando vorrebbe a tutti i costi le rughe di una vita intera per sentirsi subito grande. Piccola, spaesata in un mondo che vorrebbe collocarti da qualche parte, mentre tu cerchi, ancora, te. Siddartha di provincia, e femmina, per giunta. Dio lo sa, se è (stata) dura.
E, a dispetto di quanti anni tu abbia ora, è questo che sei ancora, dentro, o che eri, mentre scrivevi. Il resto - il curriculum, il voto di laurea, il colore degli occhi o dei capelli - non è cosa che possa mai trasparire attraverso le parole e sinceramente non credo nemmeno importi, se Marguerite Yourcenar, una vecchia signora, è diventata il giovanetto Adriano: uno che scrive s’inventa anche se stesso, o semplicemente scrivendo diventa quello che è.
Così, ho letto ogni riga, Pia, e mi perdonerai, adesso, per quello che ti dirò, e ti farà arrabbiare.
Ma io quello che tu immagini l’ho visto, tutto, inclusi gli occhi sbarrati dell’amore. Ne ho respirato l’odore di sangue e di cancrena. Io sono diventato grande. Tu, ancora, fortunatamente – per te, certo, ma anche per chi può leggerti – ancora no. Per questo la tua acqua è così limpida, un mare calmo mentre piove piano.
E tu ci nuoti come hai imparato – da sola, è da credere, anche se ci tieni tanto a citare versi e canzoni – senza accorgerti che può inghiottirti, con l’incoscienza degli anni migliori, dell’inesperienza che sa di fiori e sigarette fumate di nascosto nel bagno del liceo.
Sicuramente avevi bei voti, e ti piaceva studiare: ma, sai, non c’è libro in cui ci siano le risposte, e il dolore che senti nella musica è qualcosa che difficilmente ti porta da qualche parte: piuttosto, ti aiuta a smarrirti, dentro te.
Sono i giorni ad insegnarti la strada , e ti lasciano sulla pelle tagli che non sai guarire, e che altri giorni cicatrizzano in cheloidi slabbrati e bruni. È sempre così, fino alla fine.
Potrei dirti che è bello, che tu legga – miracolo, Anais Nin – e scriva: che tu sia capace di cesellare le parole, e scovare riferimenti che dipanano fili attraverso labirinti, seminando echi.
Invece, no.
Non è vero, non è questo che conta, non è questo che mi rimane, adesso, che ho chiuso il tuo libro.
Non è questo che ti serve, Pia.
Non ti serve limare ogni riga, né trovare metafore, né fingerti grande.
Adesso sì, ti arrabbierai. Quello che ti serve è vivere. Toglierti la maschera di donna vissuta e lasciare da parte echi volutamente torbidi, che fortunatamente non ti appartengono, e sottolineo il fortunatamente, perché nessuno – e nemmeno te – capisce che la vera trasgressione è essere felici, almeno finché non s’accorge che non potrà più esserlo davvero, a vita.
Non voltare le spalle, non rimanere in ombra, guardami dritto negli occhi. Guarda questa spiaggia, questi scogli, questo sole. Il resto verrà da solo, anche la notte.
E quando succederà, e dovrai abituarti al buio, al freddo, lo farai, perché è il destino umano. Ma resta al sole, finché c’è.
L’amore non è liquido, Pia. Non è il mare. È oceano denso e nero, e parlarne significa essere superstiti della tempesta. Non si può fare, essendosi appena bagnati i piedi. Sotto il livello del mare non c’è il Nautilus, Pia. C’è Cthulhu. Vorrei che tu non lo scoprissi mai.
E trova le parole non nello zaino con cui andavi al Palmieri, ma per strada, non aver paura di chiamare le cose con il loro nome.
Di urlarle, se necessario.
Non so cos’è, la poesia, io: non so contare le sillabe né fare giochi con le rime né so come si chiamano i versi, non sono un poeta né uno scrittore, sono solo uno che scrive per non strozzarsi .
Ma so che quando lasci che quello che sei e senti davvero venga fuori scrivi cose che mi attraversano, perché sono il tuo occhio – nudo – sul mondo.
Il cavaliere che si strucca quando lo spettacolo al circo è finito dimostra che sai vedere.
Ed è quando vedi che – come direbbero i tuoi amici su facebook – le tue parole arrivano.
Anzi di più: colpiscono. Le parole sono pietre. Si scagliano, Pia. E feriscono, anche. A un tempo la mano che le getta e il bersaglio.
Lo sa Roth, forse oggi l’unico capace di usarle per davvero.
Roth, che non evoca, ma dà a ogni cosa un nome.
La sovrastruttura, i titoli di studio, i complimenti, i premi, sono polvere.
Quello che resta, sono le persone, quelle che indovineranno la tua faccia, attraverso le tue righe, e si scopriranno a ridere e piangere e parlarti, riconoscendosi nelle tue risate e nelle tue lacrime, che tu abbraccerai e che ti abbracceranno, lungo questo filo posto rasoterra che non si può percorrere ma in cui si può solo inciampare che Kafka dice sia la vita.
Tutti quelli che senza averti conosciuto ti avranno guardato, per quello che sei davvero, e ti vedranno, così, senza occhi bistrati né altri orpelli, e pazienza se non sembrerai abbastanza grande.
Attraverso l’acqua, nella quale sarai sempre come adesso, leggera, trasparente, la luce che ti attraversa, anche se volgi le spalle e ti rifuggi nell’ombra.
Come ti ho visto io.
Una ragazzina che vorrebbe essere Anais Nin, e non sa che è molto più bella e conturbante – questa parola ti piacerà, lo so, e la scrivo apposta, perché meriti un regalo - così, con quello sguardo e quel sorriso e quegli occhi che si riempiono di lacrime e domande che non avrà mai più uguali, in vita sua.
Avrai tempo per diventare una Strega. O qualsiasi altra cosa che tu voglia, e non sai ancora.
Ma mai più potrai essere così come in questo momento che mi guardi.
Insostenibile leggerezza di orizzonte.
Acqua nell’acqua.
Anzi, persino di più. Acqua di primavera.


ACQUA DI PRIMAVERA ovvero
LA SETTIMA STELLA (MISCUGLIO DI SEME DI SESAMO E RISO)
MARIA PIA ROMANO, 2008 BESA, NARDO’ (LE)

sabato 9 maggio 2009

Hammerstein o dell'ostinazione. Una storia tedesca (Einaudi) di Enzensberger Hans Magnus. Rec. di Silla Hicks

Quando sono arrivato qui, oltre vent’anni fa, mi capitava spesso. Camminavo per strada, e li sentivo, i vecchi, sussurrarmelo alle spalle, il loro dialetto che non capivo, solo qualche parola comprensibile, tagliente, il sibilo di un coltello, all’altezza delle scapole, stramaledetti tedeschi, ce l’avevo scritto in faccia, chi ero.
Col tempo, avevo imparato ad evitarli, ad incassare il collo nelle spalle se proprio dovevo passare davanti alle loro panchine, ma non ho mai pensato di rispondere, di difendermi. Sapevo, già allora, cos’abbiamo fatto. Abbiamo, tutti. Anche quelli nati nel ’72, come me, che la notte dei cristalli non erano nemmeno nella mente di dio (ammesso che quella notte ce ne fosse uno).
Oggi non c’è più tanta gente che ricorda. I ragazzini fuori dai licei non sanno nemmeno che ci sia stata, la Shoà, e forse per questo bruciano le bandiere di Israele. Sono e sembro ancora un tedesco, parlo con il mio accento e porto i miei occhi e i miei capelli, ma non c’è rimasto più quasi nessuno a considerarli il segno del demonio. Di quelli che abbiamo invaso e trucidato, non è rimasto che qualche capitolo nei libri di scuola, ma è nelle ultime pagine, e si sa che la maggior parte delle classi non finisce il programma, così per tanti studenti italiani le SS restano i cattivi di qualche film: non voglio dire di chi, tra loro, si tatua le svastiche, adesso. Sinceramente, spesso, non voglio nemmeno pensare che esista. Perché io sono uno stramaledetto tedesco, e so. Io, e tanti come me, sappiamo di parlare la lingua di chi ha scritto l’abominio di Mein Kampf. E non riusciamo a perdonarcelo, anche se è stato prima di noi: ne portiamo gli occhi azzurri come un lutto, sappiamo di essere nipoti di chi l’ha lasciato fare. Per questo, ci ho messo un po’ prima di trovare il coraggio di leggere questo libro. Perché parlava di quella parte della storia del mio paese che vogliamo dimenticare, di quel bagaglio ingombrante che ci fa vergognare del nostro accento e delle nostre facce, che ci fa desiderare di chiedere scusa, come se potesse valere a qualcosa, dopo milioni di innocenti morti. Perché l’ho sfogliato, riconoscendomi nelle foto, e ho pensato che sì, le razze esistono. Noi, ci assomigliamo. Marie Therese è identica a mia sorella, e io ricordo parecchio Eugen Ott, o almeno lo ricordavo, prima che tutto andasse a rotoli, perchè adesso, coi capelli rasati e venti chili meno, più che un ufficiale del Reich ricordo un deportato, e non c’è bisogno di dire che mi fa piacere, questo, o che mi farebbe piacere, anzi, se fossi ancora capace di gioire di qualcosa..
Ma poi ho cominciato a leggere, e l’ho finito, questo libro, e ho ringraziato dio (sempre ammesso che non sia bestemmia pensare che dio ci fosse, in quegli anni) perché questo libro non parla di SS, o anzi, ne parla, ma parla anche di persone che non si sono fatte abbindolare dal mito della superiorità ariana, che hanno cercato di fermare la follia, che l’hanno combattuta, e pazienza per com’è andata a finire, se ci sono stati gli Hammerstein allora non tutti i tedeschi hanno colpa, ma solo quelli che hanno seguito un pazzo: non è stata la Germania, ma solo una parte, a cercare di distruggere l’umanità del mondo. Non sono una famiglia perfetta, gli Hammerstein, esponenti della Reichswher, nobili eleganti e viziati, il padre che arriva a rimproverare alla figlia bambina di aiutare la servitù piuttosto che bighellonare coi fratellini: piuttosto anticipatici, per quell’aria intrinseca di superiorità che i nati ricchi di tutte le latitudini hanno, sono altezzosi persino nella critica a Hitler, il “caporale impazzito”. Per loro conta saper stare a tavola ed avere una cultura adeguata: disprezzano i burocrati e giudicano volgare l’attivismo nazista, e l’apparente lassismo nell’educazione dei figli, il lasciar loro una sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, da “repubblicani liberi”, sa dello snobismo supremo dell’èlite che si ritiene al di sopra delle regole, proprio mentre l’impone al resto del mondo. Sono gattopardi, gli Hammerstein, anche nella resistenza all’ascesa del male, che doveva apparire loro volgare e, prima ancora che crudele, e sopra tutto ottuso, ignorante, “basso”: scordare in metropolitana la corona funebre inviata da Hitler al patriarca morto è il gesto simbolo del loro disprezzo per un regime che non reputano al loro livello, che “invillanisce” il loro Paese, e che per questo, sopra ogni cosa, non possono riconoscere. E restano aristocratici, anche quando la storia di questa famiglia finisce per intrecciarsi con l’attentato a Hitler nel ’44, la rete di resistenza, coi relativi legami con la Russia, e i figli diventano clandestini partigiani, conoscono i campi di sterminio, mentre le figlie sono spie in giro per il mondo, autentiche pasionarie, estremamente libere e moderne, anche usando il metro di oggi.
E’ un romanzo, ed insieme è tutto vero, le foto, le lettere e le testimonianze di chi ci ha parlato accanto a postume interviste immaginarie, narrazione complessa e corale, tanti, troppi personaggi, e su tutti il vecchio leone, il generale che accettò il patto col diavolo delle relazioni con Mosca e che riteneva che la paura non fosse mai essere un’ideologia, ma anche sua figlia, Marie Therese, la piccola Esi che ride sulla sua moto e vuole trasferirsi in Israele dove vive la sua migliore amica del Ginnasio, che si chiama Wera, ed è ebrea, e che ritroverà da vecchia, nel ’71, dopo il Giappone e la California, e una vita che contiene la sceneggiatura di una dozzina di film.
Perché non si può riassumere, questo libro, che non è una storia, ma la storia, un affresco che rapisce e spaventa, anche, per la musica di Wagner che ne è colonna sonora, opera di accetta e di cesello come le nostre facce, mascelle quadrate e nasi diritti, epopea di una casata che non si è rassegnata alla fine del mondo civile, che ha lasciato la sua Donnafugata per ricacciare indietro l’avanzata della barbarie.
Un libro tedesco, come le persone che racconta.
Perché è così che siamo, nel bene e nel male, sempre: persone che non si rassegnano, che s’impegnano allo spasimo quando credono in qualcosa, e la perseguono a qualsiasi costo, perché avere uno scopo è tutto ciò che chiedono, e non conoscono la resa.
Cocciuti fino alla ferocia figli dell’ostinazione.


(HANS MAGNUS ENZENSBERGER – “HAMMERSTEIN” -2008, EINAUDI, TORINO)
LA PAURA NON E’MAI UN’IDEOLOGIA

martedì 5 maggio 2009

IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO di LUIGI PRUNETI (LA GAIA SCIENZA EDITRICE). REC. DI SILLA HICKS

Anni fa, prima che la mia vita finisse e cominciasse tutto questo, andammo al cinema a vedere 23, innocuo filmetto estivo confezionato su uno degli apparentemente più scarni racconti di Stephen “it” King.
Non c’è molto da dire sulla trama né sull’atmosfera allucinatoria, livida e claustrofobica, in cui Donnie Darko echeggia insieme a Spider (che è un compitino, ok, ma del mio adorato Cronenberg) e persino al telefilm Numbers: ruota tutto attorno a questo numero, il 23, che il protagonista trova praticamente ovunque, una persecuzione onnipresente cui non riesce a sfuggire.
Apparentemente, niente di che: eppure, nei giorni successivi, cominciai anch’io a notare il susseguirsi di 23 nelle cose più banali della mia, di vita: d’un tratto, era come se fosse davvero ovunque, nelle cifre – sommate a due a due- della targa della mia motrice, in quelle – moltiplicate per due, prima di sommarle a tre a tre - della mia patente, persino nelle date –opportunamente elaborate -che mi significavano qualcosa.
Senza volerlo, mi stavo convincendo che questo numero incombesse davvero –opportunamente mimetizzato - sul mondo: ormai certo che non fosse possibile che la frequenza con cui si presentava a tradimento fosse casuale, telefonai addirittura a mia sorella, che è un matematico, per cercare nella sua amicizia coi numeri primi un qualche sostegno alle mie ipotesi.
Era la prima volta – ed è stata anche l’ultima – in cui i suoi numeri dialogavano con me: voglio dire, io i compiti di matematica, a scuola, li copiavo. So a stento le tabelline e i giochi tipo sudoku hanno per me lo stesso grado di difficoltà della scalata dell’Annapurna, ma ero così preso dalle mie indagini sulla presenza del 23 da pensarci di continuo, di ricavarlo persino dalle cifre del prezzo del gasolio in autogrill, o dalla partita IVA sullo scontrino del caffè, arrivando a moltiplicare le soste per cercare conferme.
Gentilmente, Ilaria non rise. Aspettò che finissi, e mi dimostrò, in due parole, che qualsiasi numero può sembrare onnipresente se siamo noi a cercarlo, perché, di fatto, scomponiamo le cifre di tutto quello che troviamo fino a che non lo scoviamo, utilizzando qualsiasi espediente per costruire l’algoritmo necessario con tutti i mezzi a disposizione: e tanto più ci convinciamo, quanto più il gioco diventa facile, perché è la nostra mente a continuare a giocare, di nascosto, e a servirci il risultato ammantato di meraviglia, anche, affinché possiamo restare al sicuro, aggrappati alla nostra teoria, che pure non ha altro fondamento che quello che noi abbiamo deciso di darle.
Fu così che la mia liaison con il numero 23 finì bruscamente, e con essa ogni mia velleità di vedere nei numeri altro che prezzi o limiti di velocità. Non capirò mai niente di matematica.
Ma da quei giorni mi è rimasto l’insegnamento a partire dall’ipotesi, senza manipolarla per potersi scegliere il finale.
Fatti i debiti distinguo, mi sembra che la rilettura in chiave esoterica di miti, leggende, letteratura e fumetti abbia molto in comune con la mia ricerca di allora del numero 23 nella quotidianità della mia vita.
Voglio dire: molto di quello che l’uomo produce con le parole ha sicuramente a che fare con la sua evoluzione, e ogni progresso viene fuori da un percorso.
Esistono generi interi che parlano di questo, dal bildungroman, che significa letteralmente racconto di formazione, a Siddharta.
Tutto è cammino, tutto è ricerca. Di cosa, poi, questo sì che è vario.
Diventare adulti è un percorso di iniziazione: nella foresta per Kunta Kinte, sulle autostrade per me e altri, attraverso i tre regni dell’aldilà per Dante, le 7 fatiche per Ercole e qualche mese in una caserma-anticamera dell’inferno del Vietnam per i ragazzi di Full Metal Jacket.
Qualsiasi sia l’ambientazione, la sostanza non cambia: affrontando le necessarie prove si diventa grandi, e si conquista il diritto a sedere a tavola con gli adulti.
O a far parte di un gruppo, perché si è superato il test d’ingresso: questo vale per le confraternite universitarie, per il Rotary, per la Yakuza, per il MENSA, e per ogni altro circolo chiuso, che selezioni i suoi membri in base a qualche caratteristica che li renda “speciali”e quindi degni di farne parte.
Che caratteristica sia, ancora, questo sì che varia.
Nell’epoca antica, il mondo degli dei e degli eroi, erano il coraggio e la forza fisica ad avere valore.
Oggi come oggi, che un AK47 uccide uguale, anche nelle mani innocentemente incoscienti di un bambino di sei anni, ovviamente le regole di ingaggio sono cambiate. Ma la sostanza, quella no: tutti credono di essere unici, di avere qualcosa che li renda migliori di altri. I circoli non sono che espressione di questo. Quelli magici, in particolare.
È quantomeno consolatorio cercare rifugio nell’immateriale, per riscattarsi da una vita concretamente grigia (che ci sia qualcuno che ci specula, è un discorso a parte), e in fondo non è cosa diversa che trasformarsi in avatar su second life: in un caso e nell’altro, si esce da questa dimensione. Che sia l’unica che io credo esista, questo è un problema mio.
Ma arrivare a vedere simboli esoterici in tutto o quasi quello che è stato scritto o disegnato finora, è davvero come il mio cercare il numero 23 negli scontrini degli autogrill: è voler scovare, a tutti i costi, quello che cerchiamo.
Sicuramente esistono autori che hanno usato simbologie esoteriche, ma perché appartenevano al loro background, alla loro epoca e al loro modo immaginifico di raccontare. Ciascuno di noi scrive per i libri che ha letto e i film che ha visto, ha un suo Pantheon, e lo tiene per la mano.
Pentacoli, rosacroce, …tutto può starci, ma addirittura vedere nei guantoni del primo Mickey Mouse un riferimento subliminale alla massoneria vi prego no, e giù le mani dai Puffi, che siano metafora del mondo ok, ma il Grande Puffo –Gran Maestro per via del cappello rosso è davvero come il 23 nascosto nel mio codice fiscale.
Preferisco continuare a pensare che questi gnometti blu, un po’ folletti, un po’ condominio di ringhiera siano solo quello che sembrano, un fumetto/cartone animato per bambini, con il solito schema dei buoni che vincono e del cattivo che resta beffato, il pasticcione Gargamella che più che un alchimista è un maghetto da strapazzo, perfino simpatico per tutte le bastonate che sistematicamente prende: se proprio vogliamo trovarci un substrato ideologico, il villaggio dei Puffi è un’edulcorata Utòpia, il comunismo della città del sole in salsa mcdonald, le punte smussate per non ferire nessuno.
Ma basta così, niente cosmologia agnostica né altre tortuose interpretazioni che assomigliano a sciarade per iniziati, e intendo l’ultimo termine nel senso di gente abituata a riconoscerle, magari perché compra ogni mercoledì la settimana enigmistica.
Il senso del Codice Da Vinci è l’amore feroce di un figlio per il padre che si è scelto, ed è lo stesso del Frankestein della Shelley, che piange sulla zattera per quel padre che non gli ha mai dato un nome.
Il resto, il criptex, il collage di cadaveri, Maddalena e Gesù e la chiave di volta, la vita dopo la morte, sono contorno, attirano i curiosi e fanno vendere, va bene, ma non è quello il vero mistero.
L’unica simbologia, per quanto faccia male, resta la disperazione del rifiuto, del diverso troppo bianco o troppo pieno di cicatrici, del suo cuore che grida l’urgenza di un abbraccio che nessuno ha il coraggio di dargli, del suo pianto che nessuno ha voglia né tempo di ascoltare.
Bisogna essere iniziati davvero (alla tragedia della specie umana) per sentirlo, attraverso il rumore dei simboli del niente, della fuga, dei giochi di lettere e numeri e carte.
Ma una volta che ci si riesce, è fatta.
Perché si resta capaci di sentirlo. E si smette di avere paura.

(IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO – APPUNTI SULL’ESOTERICO NELLA LETTERATURA. LUIGI PRUNETI, LA GAIA SCIENZA EDITRICE, 2009, BARI) - LA LEZIONE 23

mercoledì 22 aprile 2009

QUALCUNO HA MORSO IL CANE – RACCONTI DI DOPPIA VITA a cura di Antonio VENEZIANI e Riccardo REIM (Coniglio editore) rec. di Silla Hicks

LA VITA E’ UNA, SIAMO NOI A NON ESSERLO ...

Io non lo so cos’è, una doppia vita. Non lo so, perché se c’è stata una cosa che finora ho imparato, è che siamo tutti uno nessuno e centomila, o ,se preferite, che niente è quello che sembra, tanto, in fondo, dicono la stessa cosa, Pirandello, Akira Kurosawa e persino Jhon Locke ( non il filosofo del Saggio sull’Intelletto umano, ma l’ispettore paraplegico di una fabbrica di scatole che diventa la bella copia di Rambo una volta caduto sull’isola smarrita di Lost).
Ciascuno è sempre tanti e tutti assieme, tutti portiamo maschere bifronti che piangono e ridono in simultanea e nascondiamo nell’armadio scheletri putrefatti e scampoli di luce: fortunato è chi è capace di guardare oltre quello che sembra, dal di fuori. Gli altri, si perdono la metà almeno del film.
E non lo dico perché sono un camionista, e nessuno o quasi per questo crede che possa leggere e scrivere e pensare, quasi che il gigante di due metri e centoventi chili che vedono sia di me tutto, l’uomo ridotto a uno schizzo senza chiaroscuri, a una dimensione sola. Lo dico perché non ho mai incontrato nessuno al cento per cento coerente col suo personaggio, nessuno, nemmeno la persona più ottusa e idiota e granitica nelle certezze che solo un fanatico sa avere. Tutti hanno sfaccettature che non quadrano, sono funzioni a n incognite, direbbe mia sorella, che è insieme corpo scheletrico coperto di tatuaggi e fine matematico, e per questo non s’è disegnata addosso un drago, ma l’ipotesi di Fermat e una spirale logaritmica, e s’è innamorata persa di chi l’ha vista protagonista nel libro di Larsen, e pazienza se regalarglielo voleva essere soltanto un complimento perché respira i computer e sa guidare e bene la sua vecchia Honda.
Così, non credo che avere una doppia vita si riduca a fare le corna alla moglie, o a preferire segretamente i maschi, e nemmeno a leggere Tolstoi di nascosto come la signora Michel, riccio elegante celato dagli abiti informi e la puzza di cavolo della portinaia. Nel senso che non credo che esistano doppie vite, né triple né quadruple: se ne nasce un casino, basta rifletterci, è perché si corre il rischio sempre d’essere scoperti, e ciò perché la vita – contenitore di emozioni e attimi e amori – è soltanto e disgraziatamente una.
Siamo noi, a non essere uno, non per scelta ma per destino: noi che ci barcameniamo, tra questo e l’altro e l’altro me, tra il camionista e colui che legge e scrive, e quello che ascolta have you ever seen the rain e piange, pensandoti, ovunque e con chiunque tu sia adesso.
Per tutte queste ragioni, l’ho letto avidamente, questo libro che pure è una collettiva e io le collettive le detesto, come detesto le foto di gruppo che sono come le parate del due giugno, in cui tutti (granatieri di Sardegna a parte) sfilano coi bassi avanti e finirei necessariamente relegato dietro, ma pazienza, c’è sempre chi guarda oltre le prime file, nelle ultime pagine, alla fine dell’elenco in ordine alfabetico.
C’è sempre. E quello ti trova.
Ti trova, e ti respira. Questo, in questo libro, ho fatto io.
Sarebbe educato citare tutti, ma il fatto è che neanche li ricordo: ma quelli che mi hanno colpito li ricordo eccome, anzi: non me li scorderò, ed è questo che un buono racconto buono cerca di ottenere.
Intanto, la Maddalena che si specchia in sé: peccato duri poco, mi sarebbe piaciuto sapere che ne è venuto fuori dalla sua polvere, perché l’anima/carne supera il dualismo manicheo in cui ci dibattiamo ancora troppo spesso, e Orlando e Middlesex restano là, sullo sfondo. Qualcosa su cui pensare.
Come il cuore di Fedora studentessa di belle arti e insieme Luca sessantenne professore. Identità liquide, fluide, una nell’altra, Leonardo/Monnalisa.Vedi sopra..
E poi la Federica sadica e senese – prodromica ai ricconi che comprano ragazzi con lo zaino nella Cecoslovacchia di Hostel?- e il suo Braschi così innamorato da amarla malgrado il suo cuore nero, da vederlo luccicante nella notte in cui l’ha trascinato, l’amore che tiene la morte per la mano e si rotola frenetico nel sangue. Fino alla vita, se mai ce ne sarà una.
Ma anche il Pulcinella che semina assieme bombe e caramelle, che pure mi ha fatto male, ho amici nell’esercito, e no, non sono mostri senza cuore, solo soldati, foglie sopra agli alberi che il vento spazza via, gente che s’è scelto o ha dovuto prendersi una vita che è anche rischio, ma che pensa e s’interroga e a volte scrive, perché niente è come appare, e gli steroptipi, contrastanti tra loro o no, sono semplificazioni, una funzione studiata per y < x > z, in cui y e z sono i paletti che abbiamo fissato, si chiamano intervalli, e sono solo scampoli, la vita invece è un continuum, da più a meno infinto, dal tutto al niente, e in mezzo, a perdita d’occhio, tutta la gradazione del colore.
Il resto, mariti che tradiscono con minorenni o rimorchiano extracomunitarie ingenue, mogli che si raffrontano/solidarizzano con l’amante e politici col vizietto, va da sé.
Continuo a non amare le collettive. E i temi fissati, anche, che alla fine ti portano a banalizzare pur di riempire il rigo e la pagina. Scrivere non si può fare a comando, o almeno si può fare se si è al liceo e si cerca un voto. Poi, non più.
Ma è indubbio che se metti perle in un cesto pieno di quello che ti pare, non è che non ci siano. Soltanto, vanno cercate. E tenute strette quando si trovano, mi verrebbe da dire, al signore gentile che ha regalato a mia sorella il libro di Larsen, e poi è scomparso, lui che ha saputo guardare dentro la sua anima, per la vertigine che deve aver provato. Per questo, anche, aspetto di vedere come è andata a finire tra Antonio e Maddalena. Una volta che uno si/ti guarda dentro, e vede, non può chiudere gli occhi per non ferirsi di luce.
Sono convinto che il signore gentile tornerà, prima o poi, e inviterà mia sorella a cena, vicino al mare, e giocheranno a scacchi e berranno vino rosso, parleranno di Gadda e dell’ipotesi di Reimann. Sono convinto che Antonio e Maddalena (Fedora e Luca) troveranno un equilibrio in cui ci sia spazio per entrambi. La carne è anima, l’anima è carne. Nel sangue e in mezzo ai fiori.
Anche in una doppia vita, o in una tripla e una quadrupla, c’è sempre spazio – purtroppo - per l’amore.

Con racconti di Renzo Paris, Mario Castelnuovo, Dora Albanese, Luca Giachi, Fabiomassimo Lozzi, Gianfranco Franchi, Silvana Pedrini, Gabriele Dadati, Carmine Amoroso, Maria Sole Abate, Fernando Acitelli, Filippo Scòzzari, Stefania Scateni, Claudio Marrucci, Gianluigi Mattia, Antonio Veneziani, Riccardo Reim, Roberto Nobile, Tiziana Rinaldi Castro, Giorgio Gigliotti, Franco Grillini, Carlo Bordini, Anna Segre, Paolo Di Orazio, Chiara Marchelli, Giulio Laurenti, Geraldina Colotti, Stefano Fugazza, Maurizio Gregorini, Michela De Muro, Fabrizio G. di Vasco.

(QUALCUNO HA MORSO IL CANE – RACCONTI DI DOPPIA VITA,
a cura di Antonio VENEZIANI e Riccardo REIM, 2008, Coniglio Editore, Roma)

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