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lunedì 11 maggio 2009

La settima stella di Maria Pia Romano (Besa editrice). Rec. di Silla Hicks

Ciao, Pia.
Non lo userò, il tuo nome intero, che ti appesantisce, mentre tu invece sei leggera. Non fisicamente, intendo: o, piuttosto, questo io non lo so, solo ti immagino, le guance paffute, ancora incerta sulla soglia dell’adolescenza.
E’ dentro, che sei lieve.
Acqua nell’acqua, eterea solo come chi è molto giovane può ancora essere quando vorrebbe a tutti i costi le rughe di una vita intera per sentirsi subito grande. Piccola, spaesata in un mondo che vorrebbe collocarti da qualche parte, mentre tu cerchi, ancora, te. Siddartha di provincia, e femmina, per giunta. Dio lo sa, se è (stata) dura.
E, a dispetto di quanti anni tu abbia ora, è questo che sei ancora, dentro, o che eri, mentre scrivevi. Il resto - il curriculum, il voto di laurea, il colore degli occhi o dei capelli - non è cosa che possa mai trasparire attraverso le parole e sinceramente non credo nemmeno importi, se Marguerite Yourcenar, una vecchia signora, è diventata il giovanetto Adriano: uno che scrive s’inventa anche se stesso, o semplicemente scrivendo diventa quello che è.
Così, ho letto ogni riga, Pia, e mi perdonerai, adesso, per quello che ti dirò, e ti farà arrabbiare.
Ma io quello che tu immagini l’ho visto, tutto, inclusi gli occhi sbarrati dell’amore. Ne ho respirato l’odore di sangue e di cancrena. Io sono diventato grande. Tu, ancora, fortunatamente – per te, certo, ma anche per chi può leggerti – ancora no. Per questo la tua acqua è così limpida, un mare calmo mentre piove piano.
E tu ci nuoti come hai imparato – da sola, è da credere, anche se ci tieni tanto a citare versi e canzoni – senza accorgerti che può inghiottirti, con l’incoscienza degli anni migliori, dell’inesperienza che sa di fiori e sigarette fumate di nascosto nel bagno del liceo.
Sicuramente avevi bei voti, e ti piaceva studiare: ma, sai, non c’è libro in cui ci siano le risposte, e il dolore che senti nella musica è qualcosa che difficilmente ti porta da qualche parte: piuttosto, ti aiuta a smarrirti, dentro te.
Sono i giorni ad insegnarti la strada , e ti lasciano sulla pelle tagli che non sai guarire, e che altri giorni cicatrizzano in cheloidi slabbrati e bruni. È sempre così, fino alla fine.
Potrei dirti che è bello, che tu legga – miracolo, Anais Nin – e scriva: che tu sia capace di cesellare le parole, e scovare riferimenti che dipanano fili attraverso labirinti, seminando echi.
Invece, no.
Non è vero, non è questo che conta, non è questo che mi rimane, adesso, che ho chiuso il tuo libro.
Non è questo che ti serve, Pia.
Non ti serve limare ogni riga, né trovare metafore, né fingerti grande.
Adesso sì, ti arrabbierai. Quello che ti serve è vivere. Toglierti la maschera di donna vissuta e lasciare da parte echi volutamente torbidi, che fortunatamente non ti appartengono, e sottolineo il fortunatamente, perché nessuno – e nemmeno te – capisce che la vera trasgressione è essere felici, almeno finché non s’accorge che non potrà più esserlo davvero, a vita.
Non voltare le spalle, non rimanere in ombra, guardami dritto negli occhi. Guarda questa spiaggia, questi scogli, questo sole. Il resto verrà da solo, anche la notte.
E quando succederà, e dovrai abituarti al buio, al freddo, lo farai, perché è il destino umano. Ma resta al sole, finché c’è.
L’amore non è liquido, Pia. Non è il mare. È oceano denso e nero, e parlarne significa essere superstiti della tempesta. Non si può fare, essendosi appena bagnati i piedi. Sotto il livello del mare non c’è il Nautilus, Pia. C’è Cthulhu. Vorrei che tu non lo scoprissi mai.
E trova le parole non nello zaino con cui andavi al Palmieri, ma per strada, non aver paura di chiamare le cose con il loro nome.
Di urlarle, se necessario.
Non so cos’è, la poesia, io: non so contare le sillabe né fare giochi con le rime né so come si chiamano i versi, non sono un poeta né uno scrittore, sono solo uno che scrive per non strozzarsi .
Ma so che quando lasci che quello che sei e senti davvero venga fuori scrivi cose che mi attraversano, perché sono il tuo occhio – nudo – sul mondo.
Il cavaliere che si strucca quando lo spettacolo al circo è finito dimostra che sai vedere.
Ed è quando vedi che – come direbbero i tuoi amici su facebook – le tue parole arrivano.
Anzi di più: colpiscono. Le parole sono pietre. Si scagliano, Pia. E feriscono, anche. A un tempo la mano che le getta e il bersaglio.
Lo sa Roth, forse oggi l’unico capace di usarle per davvero.
Roth, che non evoca, ma dà a ogni cosa un nome.
La sovrastruttura, i titoli di studio, i complimenti, i premi, sono polvere.
Quello che resta, sono le persone, quelle che indovineranno la tua faccia, attraverso le tue righe, e si scopriranno a ridere e piangere e parlarti, riconoscendosi nelle tue risate e nelle tue lacrime, che tu abbraccerai e che ti abbracceranno, lungo questo filo posto rasoterra che non si può percorrere ma in cui si può solo inciampare che Kafka dice sia la vita.
Tutti quelli che senza averti conosciuto ti avranno guardato, per quello che sei davvero, e ti vedranno, così, senza occhi bistrati né altri orpelli, e pazienza se non sembrerai abbastanza grande.
Attraverso l’acqua, nella quale sarai sempre come adesso, leggera, trasparente, la luce che ti attraversa, anche se volgi le spalle e ti rifuggi nell’ombra.
Come ti ho visto io.
Una ragazzina che vorrebbe essere Anais Nin, e non sa che è molto più bella e conturbante – questa parola ti piacerà, lo so, e la scrivo apposta, perché meriti un regalo - così, con quello sguardo e quel sorriso e quegli occhi che si riempiono di lacrime e domande che non avrà mai più uguali, in vita sua.
Avrai tempo per diventare una Strega. O qualsiasi altra cosa che tu voglia, e non sai ancora.
Ma mai più potrai essere così come in questo momento che mi guardi.
Insostenibile leggerezza di orizzonte.
Acqua nell’acqua.
Anzi, persino di più. Acqua di primavera.


ACQUA DI PRIMAVERA ovvero
LA SETTIMA STELLA (MISCUGLIO DI SEME DI SESAMO E RISO)
MARIA PIA ROMANO, 2008 BESA, NARDO’ (LE)

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