I gambrini, per inteso, coi ragazzi di vita nulla han a che fare. Nonostante
Vanni Santoni, in un passaggio alquanto istrionico ma pur sempre e
semplicemente sempre estroso di "Se fossi foco, arderei Firenze",
citi il poeta del fazzoletto rosso. Mentre una delle tante voci, accompagnate
dalla voce principale, anorché esterna la seconda, fa il giro di boa in una
delle traverse della capitale del Rinascimento. Una scorribanda senza corsa
cominciata da uno studente di lettere e proseguita da una straniera
allampanata. Che a sua volta finisce nello squardo del giovane che spera e
spererà che un giorno il suo presidiare il Gabinetto Viesseux si trasformi
nella casuale non casualità d'incrociare un grande e affermato che si voglia
affidare ai suoi servigi di studioso in erba. Prima che dal Gambrinus, un
gambrino si faccia ingoiare dalla foga di scrive grazie a un gruppo di lettori
e scrittori giovani che dedicano parte del loro tempo libero a queste attività
dello 'spirito' e della "vita". Duccio, insomma, potrebbe esser nato
dappertutto. Ma solamente a Firenze avrebbe potuto farsi sfregare dai passaggi
di Santa Croce e l'Oltrarno. Duccio in qualsiasi altra città avrebbe potuto conoscere
la redazione sotterranea che gli fa amare la scrittura, eppure solamente nel
capoluogo toscano è spiato dalla Stazione Leopolda. La traccia del romanzo ha
poco da darci; non che sia frivola: più che altro per il fatto che veramente i
personaggi sono troppo abbozzati. C'arrivano, quindi, difronte in forma di
scarabocchio. Eppure quel che vivono potrete trovarlo in giro, a ben vedere. A
incuriosirsi di certi ambienti. Perché si devono amare le tentazioni d'arte per
assecondare gli istinti dei protagonisti del libro di Santoni. Il quale, dal
suo canto, registra la vitalità e le fiacchezze
d'una città da toglier di cartolina. E, adesso, chiediamoci, con una
guida romanzata sulla Firenze che fu medicea come attacca il "Bar
Atlantic" di Bruno Osimo? E noi, al dunque, da cinta ci mettiamo il
superlativo spettacolo teatrale di Renzo Martinelli interpretato a Matera da
Federica Fracassi e Guido Baldoni, dall'omonimo libro d'Aldo Nove, "Mi
chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese...". E state per comprenderne
la ragione. La precarietà dei giovani fiorentini, il precariato agito sotto al
Gambrini dai gambrini e le esperienze fatte rivivere da Fracassi e Baldoni per
via di Nove e Martinelli, sono praticamente l'altra faccia della
trama-storia-vicenda dell'Adàm dell'ultimo libro del traduttore e cultore
dell'ebraico Osimo. Un professionista dell'insegnamento che deve, materia che
affronta con una certa apparente dose di tranquillità, divincolarsi tra treni e
città del Settentrione italiota delle sedi universitarie nelle quali arriva a
dar lezioni e sesso. Ebraico e sesso accanito. Mentre la moglie Ada, per lui
Hhava attende a casa e il pene garantito durante il sonno insieme a un'altra
mole di riti domestici. Ada, Paola, Monìca, Teresa, Fernanda, Sasha. Tutti
giorni, l'intera settimana tranne il sabato del riposo, conditi da gesti
abitudinari, nonostante quindi la precarietà di sottofondo, e le scopate.
Nonostante l'affetto e lo stranissimo rispetto riservato alla
mogliettina-commercialista Ada, l'intrigante e fedifrago Adàm si svuota con le
altre, dunque, ma soprattutto come se avesse il culto del mantra si decida ai
doveri che s'è imposto. "La sua vita è un mosaico di momenti vissuti al
volo, tra carrozze ferroviarie, amanti diverse in città diverse e un beato
stordimento, che lo porta a lasciarsi andare a questo flusso ininterrotto di
esperienza con ironia e spirito giocoso. Lo stesso che l’autore mette nelle
spassose note a pie’ di pagina, che costellano il libro con un tocco che mi
viene spontaneo associare ad alcune delle uscite più felici di Woody Allen. Ma
i temi, dicevo, sono seri. Su tutti, il precariato; lo spaesamento che induce
in chi lo vive e si ritrova spezzettato in una serie sfilacciata di momenti.
Manca un baricentro. Per Adàm il surrogato di questo ancoraggio interiore è
l’adorata moglie, che pur cornifica abbondantemente, e anche il bar del titolo
dell’opera, dove si consuma una confortante ritualità di gesti", scrive
infatti in un'acuta, intelligente e sintetica recensione Giovanni Agnoloni.
"Ma in questo suo mondo galleggiante sul mare dell’instabilità rientra
anche la lingua ebraica, l’oggetto del suo lavoro", aggiunge Agnoloni. E
in questo marasma di vicissitudini, non poteva mancare la sorpresa. Perché il
professore deciderà per optare, in conclusione, per una scelta di vita in un
certo qual senso e modo radicale. Che, appunto, modificherà gran parte
d'abitudini e, prima di tutto, farà chiarezza sulla vera inadeguatezza e sul
profondo sentimento d'insicurezza che il colto e attraente docente si
preoccupava di mascherare.
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