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sabato 8 maggio 2010

Le donne di Tunisi di Alessandra Bianco















Coltivano il sogno di diventare un esempio per tutto il mondo arabo e per questo sono attivissime nella vita politica del loro paese. “Essere deputato significa essere tunisina” ci ha detto Ben Hassine Zeineb deputato alla camera per il partito costituzionale democratico al lavoro insieme a tutto il governo per ottenere quelle numerose, piccole e grandi conquiste in ambito educativo, sanitario, sociale, economico, culturale e sportivo che hanno già reso il paese del Nord Africa tra i più occidentalizzati, ma che auspicano a diventare sempre di più.

Moderazione, tolleranza, uguaglianza sono le carte vincenti di una nazione in cui le donne costituiscono un terzo dei docenti universitari, più del 50% degli studenti, più di un quarto dei giudici e una forte presenza in Parlamento.

Abir Moussy, sottosegretario del partito costituzionale democratico si occupa di donne da sempre, nonostante non abbia nemmeno 40 anni. Spiega che “dal 1956, da quando venne abolita e punita la poligamia, ai mariti fu impedito il divorzio unilaterale ed attribuite alle donne più diritti di custodia dei figli, tutto è cambiato e sono venute meno quelle forti discrepanze tra uomo e donna”.

Il resto lo ha fatto il presidente Zin el Abidin Ben Ali. E’ sua la volontà politica di creare prestigio intorno alla figura della donna tunisina. Un approccio modernista ed una visione riformatrice globale e profonda, hanno permesso di perfezionare l’uguaglianza nei diritti tra i due sessi e confermato per la donna la posizione di partner che agisce indistintamente in tutti i campi della vita.

Le norme giuridiche realizzate in favore delle donne si sviluppano così, attorno ad un sistema legislativo avanguardista che si basa su dei principi immutabili. Tra questi, il riconoscimento delle donne in quanto parte integrante del sistema dei diritti dell’uomo, la soppressione del diritto di obbedienza della sposa al proprio marito e la sostituzione ad esso del principio di uguaglianza nell’educazione dei figli e nella gestione degli affari familiari.

Un cambiamento in qualità, insomma, che si basa su una convinzione radicale del Presidente tunisino non potrà mai esserci alcun progresso né modernizzazione senza la partecipazione attiva della donna, simbolo di sapere, creatività, competenza e maturità, motivo di fierezza per la società e un faro luminoso per le generazioni future.


in foto Abir Moussy

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venerdì 7 maggio 2010

Il libro del giorno: Critica delle nuove schiavitù di Yves Charles Zarka e Gli Inattuali (Pensa Multimedia)





















Perché la democrazia che è, principalmente, un regime di libertà può degenerare in schiavitù? La questione non è nuova e figura già nel pensiero politico di Platone ed Aristotele per i quali questa deriva si inscrive nella natura del regime stesso. La ritroviamo ancora nei primi pensatori della democrazia moderna, in particolare in Alexis de Tocqueville, secondo cui la democrazia è continuamente messa a confronto con una temibile alternativa: promuovere il piacere della libertà o, al contrario, degradarsi in schiavitù dei costumi e delle opinioni. Che tale schiavitù democratica – una tendenza per la quale la democrazia si auto-distrugge – non sia l’esito di una costrizione esterna ma rinviene le sue risorse nella volontà dell’individuo è noto da tempo grazie al concetto di servitù volontaria di Etienne de la Boetie. Perché allora parlare di nuove schiavitù? Perché oggi non è più tempo e luogo di scrivere “contro qualcuno”. È cambiata la figura del padrone, non c’è più un padrone personale, un tiranno che tiene in suo potere una moltitudine spaventata, ma un padrone anonimo, senza volto né nome che instaura un nuovo tipo di dominio e nuove schiavitù. Sono proprio queste nuove schiavitù – analizzate dal punto di vista antropologico, economico, etico, sociologico e filosofico-politico – l’oggetto del presente volume con la finalità di ripensare, alla luce dei problemi del nostro tempo, la libertà civile (individuale e
politica).





Non piangere coglione di Amedeo Romeo (Isbn)



















Non è un romanzo come gli altri. Ci posso mettere la mano sul fuoco … e non bruciarmela. Primo elemento che lo fa saltare fuori dal “mucchio editoriale selvaggio italiano” dei nostri ultimi tempi, è una certa malsana passione per un’ossessione autolesionistica del protagonista incapace di accettarsi e di accettare l’altro. Cattiveria allo stato puro! Il cortocircuito letale per Andrea Morini (il coglione…forse) è l’incontro con Lena, alla trentasettesima settimana di gravidanza, che aspetta un bambino da un uomo che la sta per lasciare. Lena, è uno splendido esempio di come il disequilibrio apparente dato da una variabile x nell’esistenza magari di ognuno di noi (cioè lei – in questo caso - nella vita di Andrea) si trasformi in una costante, in una vera e propria ancora di salvezza.

Si avvicina il momento del parto. Morini vorrebbe mettere lui alla luce Ada, in un processo di simbiontizzazione con la gravidanza di Lena, in un turbinio di esplosioni emozionali che simultaneamente e su due piani ontologici annichiliscono il lettore e distruggono la mente e il corpo del protagonista. Amedeo Romeo racconta fondamentalmente una vicenda tristemente umana e in bilico tra tragedia e folle leggerezza. Un risultato più che brillante visto che si tratta di un romanzo d'esordio. Il suo "Non piangere coglione" (ricordiamoci per dovere di cronaca musical-letteraria "Una faccia in prestito" di Paolo Conte), è un lavoro che minimo ti sta anche dando delle dritte su come gestirti le varie cose nella vita, e spingendoti magari a chiederti in maniera soliloquiale“… chi sei, cosa vuoi, e che ci fai nel posto dove ti trovi ora” … domande esistenziali fondamentali? Certamente e della peggior specie, ovvero di quelle che ti sbattono in faccia i tuoi lati più neri, le tue peggiori perversioni, le tue paure, i tuoi desideri da tenere ben nascosti nell’armadio, insieme magari a quei sogni che non vorresti mai si realizzassero.

L'incipit di questo romanzo è eccitante, coraggioso e contagioso. Perde qualche colpo nelle pagine centrali perché ormai alla pazzia di Morini uno ci fa il callo, e dunque la tensione s’ammoscia inevitabilmente. Ci vuole a questo punto un colpo di classe … e qui Amedeo Romeo “al 90°” ce la fa, e ti spiazza con una conclusione potentissima, degna di un ko. "Non piangere coglione" è il canto di una ritrovata verve per la zoppicante letteratura italiana post-Anni Zero che finalmente trova il suo cantore.

giovedì 6 maggio 2010

Il libro del giorno: Dicembre è un mese crudele di Elizabeth George (Longanesi)




















In uno sperduto villaggio del Lancashire muore avvelenato, dopo una cena in casa di una conoscente, il parroco Robin Sage. Di lì a poco arrivano in paese, per una vacanza fuori stagione, il patologo Simon St. James e la moglie Deborah, che aveva casualmente conosciuto il sacerdote a Londra. La scoperta della disgrazia li trascina tra le ombre più cupe di quei luoghi, sui quali aleggiano ancora antiche storie di stregoneria. L'inchiesta del coroner si è già conclusa con il verdetto di morte accidentale, ma Simon non ne è convinto, e decide di convocare il suo amico, l'ispettore Lynley, presto raggiunto dal sergente Barbara Havers. I quattro vengono così sommersi da una realtà in cui tutto è continuamente messo in dubbio. Com'è possibile che un'esperta erborista abbia inconsapevolmente offerto della cicuta al parroco? Nei panni di una mite perpetua si nasconde davvero una devota seguace dei culti pagani della Dea? E possibile leggere il destino di un uomo nel palmo della sua mano? In un clima di sospetti e pettegolezzi che rendono indecifrabili i volti del crimine, l'ispettore Lynley è costretto ad affondare sempre di più la lama delle indagini per riuscire a portare alla luce la verità. Una verità dal sapore amaro e crudele.

Ed io parlo, scrivo e fumo di Giovanni Bernardini (Lupo editore). Intervento di Luciano Pagano



















Dopo una attesa ragionevole viene pubblicato – per i tipi di Lupo Editore nella collana Topkapi – “Ed io parlo, scrivo e fumo“, di Giovanni Bernardini, raccolta tesa tra il genere memoriale e l’autobiografia per diari, scritti per oltre cinquanta anni dallo scrittore pescarese naturalizzato salentino. Come è scritto nella prefazione, della quale è autore Stefano Donno (curatore del volume) “Bernardini non è uno scrittore periferico, come lui stesso in più di qualche occasione tende ostinatamente ad affermare, proprio perché questa sua ‘modestia’ contrasta con una qualità di stile che solo un vero scrittore e non un semplice mestierante, è in grado di mettere nero su bianco”. Ce ne accorgiamo scorrendo le pagine nelle quali la biografia e i fatti della vita quotidiana si intrecciano alle vicende e ai personaggi letterari, senza risparmiare nessuno né risparmiandosi, con quel cinismo che a volte resta l’unica lente ottimale per osservare il mondo senza esserne troppo disgustati, proprio in virtù del grande sentimento che ci lega, volenti o nolenti, ai nostri contemporanei. Un pensiero di Bernardini, scritto il 15 maggio del 1996, recita “Una persona non mediocre in un ambiente di mediocri è irrimediabilmente condannata alla solitudine”.La lucidità e la critica di Bernardini – sociale e soprattutto politica – investono chi ci mal-governa e mettono a nudo chi si fa governare senza sviluppare un pensiero critico. Ciò che resta dalla lettura di questo libro è senza dubbio una testimonianza rilevantissima di un pezzo di storia del nostro paese, dal 1952 ai giorni nostri; se è vero, come scrive l’autore in un frammento datato 12 dicembre 2008, che “nessun libro pubblicato può restaurare la vita d’un vecchio. Può concedere solo un momento d’illusione, una fugacissima gioia”, è anche vero che la raccolta dei diari di uno dei nostri intellettuali più importanti, non potrà che aiutarci a restituire a noi stessi un’immagine di quello che è stato il secolo scorso, senza ipocrisia. Interrogare questo libro ci sarà utile, quindi, a interrogarci e recuperare quelle memorie storiche, flash, ricordi, presi da un tempo che altrimenti rischiamo di smarrire per sempre.


Giovanni Bernardini, originario di Pescara si stabilisce nel Salento dove vive tuttora. Ha collaborato come pubblicista a riviste e periodici. Ha scritto racconti, romanzi, testi giornalistici e poesie che hanno riscosso il favore dei lettori e per i quali ha vinto vari premi. Bernardini è stato maestro per generazioni di studenti nei licei leccesi. Impegnato socialmente e politicamente, ha ricoperto anche, tra il 1992 e il 1993, la carica di Sindaco del comune dove vive (Monteroni di Lecce).

mercoledì 5 maggio 2010

Il libro del giorno: La vendetta di Siviglia di Matilde Asensi (Rizzoli)





















1606. Catalina Solís scruta l'orizzonte, mentre a bordo della Sospechosa fa rotta verso il Vecchio Mondo. Alla notizia che il padre adottivo Esteban Nevares è prigioniero nelle carceri reali di Siviglia, la bella Catalina, da poco rimasta vedova, ha lasciato l'isola di Margarita nei Caraibi per raggiungerlo. E scoprire che dietro il suo arresto c'è un nemico molto potente: la famiglia dei Curvo, commercianti senza scrupoli che si sono arricchiti con l'argento delle Americhe, e di cui Esteban conosce un infamante segreto. Ormai in punto di morte per le torture subite in carcere, il vecchio mercante fa giurare alla figlia di vendicarlo: fino a quando anche uno solo dei fratelli Curvo sarà in vita, la sua anima non avrà pace. Vincolata a questo giuramento di sangue, Catalina si appresta a mettere in atto la sua terribile vendetta. Lo farà con l'arma più potente: la seduzione. Aiutata da un'anziana curandera e da una fascinosa prostituta, introducendosi nei bordelli e nei salotti più influenti della Siviglia opulenta e incantatrice del Siglo de Oro. Catalina userà tutto il suo fascino e la sua astuzia per portare infine a compimento la promessa fatta al padre.

La libertà sprituale di Michael Beckwith (Bis edizioni)
















Sono convinto che oggi, ai nostri tempi, nella nostra società con tutte le contraddizioni che la agitano, sia quanto mai necessario cercare di stabilire una serie di punti fermi che consentano di orientarsi anche nelle tenebre più fitte. E la risposta migliore ad un senso di disagio che si fa sempre più presente e consistente, la si può trovare lasciando parlare il cuore. Certo, il sentiero che il cuore sovente vuole intraprendere confligge con gli orizzonti di produttività e razionalità che il sociale impone come target vitali ineludibili, stride con quell’anelito all’infinito e alla libertà che il cuore sente di voler costruire per tutti noi, ma che in realtà impatta purtroppo con un vero e proprio muro di gomma. In un’unica battuta potremmo dire che si tratti di una barriera fatta da tutte quelle sovrastrutture che si auto-alimentano per mantenere in vita il mondo. Dunque quello che necessita ad ogni “animale sociale” (noi ancora lo siamo), e con una certa urgenza, è la possibilità di realizzare una libertà spirituale che permetta di oltrepassare gli angusti confini della paura, del timore, delle incertezze, delle preoccupazioni, e del latente senso di mancanza che non ci fa vivere una vita piena e realizzante. La libertà spirituale di cui parla Michael Beckwith è la chiave di volta che ci insegnerà a rompere le catene che affliggono la nostra vita e a effettuare un vero e proprio salto di paradigma, per destrutturare quegli schemi della nostra mente che ci impediscono di essere lucidi, e consapevoli. Ed ecco che attraverso una serie di pratici consigli che l’autore fornisce pagina dopo pagina in questo suo lavoro, si perverrà ad una scoperta incredibile, ovvero una sorta di rivelazione che alimenterà il fuoco del cambiamento, ci permetterà di vederci in un nuovo modo, ci consentirà di vivere giorno dopo giorno con la consapevolezza che ad ogni notte seguirà sempre un nuovo giorno, e che ci saranno sempre frammenti di gioia e proposizionalità che permetteranno di costruire la propria personale destinalità. L’obiettivo finale è una sorta di illuminazione laica, un risveglio di tutte le potenzialità del soggetto che permetteranno di riprendersi il posto che spetta a ciascuno di noi nell’Universo. Beckwith parla con cognizione di causa di coscienza cristica, di rivelazione, illuminazione. E lo fa con un approccio olistico per niente approssimativo o confusionale. Un libro assolutamente da non perdere per tutti coloro che amano scoprire cosa di nuovo si agita nel pensiero contemporaneo. Prima di concludere mi sembra doveroso spendere due parole sull’autore.

Michael Beckwith si occupa di crescita personale e spirituale. E' nato nel 1956, e sebbene sia l'autore più spirituale di The Secret, la sua prima esperienza in campo religioso non è stata positiva visto che all’età di 16 anni ha lasciato la chiesa Metodista. Negli anni ’70 ha iniziato una ricerca negli insegnamenti orientali e occidentali ed oggi insegna princìpi universali di verità che hanno radici nella tradizione di spiritualità dell’antica saggezza.

Nel 1986 ha fondato a Santa Monica in California l'Agape International Spiritual Center of Truth, una delle comunità spirituali multiculturali, multirazziali ed interconfessionali che ha 10.000 soci a livello locale e un milione di affiliati in tutto il mondo. Già nei primi anni, i suoi partecipanti aumentarono notevolmente e dovettero spostarsi in un’altra sede più ampia a Culver City, California dove risiede attualmente. Questa chiesa si fonda sul Nuovo Pensiero, un movimento del secolo scorso che annovera figure come William Walker Atkinson, Pheneas Parhurst Quimby, Prentice Mulford, Wallace Wattles, Charles Haanel, Genevive Behrend, Robert Collier e molti altri. Il movimento del Nuovo Pensiero oggi vive sotto diverse denominazioni tra cui Religious Science in cui Michael è stato ordinato sacerdote nel 1985. Le parole del suo fondatore descrivono meglio il Centro: “Quando ho fondato l'Agape International Spiritual Center nel 1986, avevo in mente un movimento per la pace e per l'amore che potesse apportare benefici al pianeta. Questo è il motivo della scelta del nome Agape, che in greco antico significa amore incondizionato. Questo amore è alimentato dall'amore di Dio, l'unica, indefinibile ma inconfondibile presenza che ha come veicolo il cuore e l'anima umana. La mia massima aspirazione è che ogni individuo toccato dalla vibrazione di Agape sia spinto a coltivare un cuore pieno di amore grande come il mondo.” Michael Beckwith è sposato con Rickie Byars, direttrice del coro del Centro, musicista e compositrice, entrata nell’Agape Center nel 1988. La coppia è apparsa insieme su diversi album di musica devozionale. Hanno quattro figli ormai grandi, i quali sono divenuti loro stessi genitori. Ogni settimana, migliaia di persone si riuniscono all’Agape Center per ricevere l’ispirazione da Michael. Ha scritto insieme a Rickie liriche e musiche per i concerti del coro eseguiti in tutto il mondo. Partecipa a gruppi di discussioni internazionali con altri importanti leader spirituali pacifisti quali il Dalai Lama, Dr. T. Ariyarante, fondatore di Sarvodaya, e Arun Gandhi, nipote di Mohandas K. Gandhi.

martedì 4 maggio 2010

Il libro del giorno: Templari, dov'è il tesoro? di Roberto Giacobbo (Mondadori)




















"Conoscere i Templari non cambia la vita, non conoscerli rende più difficile cambiare vita." La storia, spesso, nasconde un doppiofondo. E la storia dei Templari in particolare suggerisce ipotesi capaci di stravolgere la nostra visione del mondo. Non è un caso che questo mitico Ordine cavalleresco, che conquistò in poco tempo un enorme potere dopo la Prima crociata per poi venire soppresso con la forza nel 1314, conti ancora tanti appassionati ed eserciti tanto fascino. Il sacro Graal, la Sindone, l'Arca dell'alleanza: sono solo alcuni, i più noti, fra i misteri che aleggiano attorno alla fantastica avventura dei Templari. In questo libro Roberto Giacobbo ci accompagna in una vera e propria caccia al tesoro, il leggendario tesoro dei Templari. E a ogni indizio lasciato dai Templari nel loro lungo viaggio, si aprono scenari inauditi sul passato che abbiamo dato finora per scontato. Le crociate, l'elezione di papa Celestino V, la fondazione della città dell'Aquila, la nascita del santuario di Loreto, la scoperta dell'America, la rivoluzione francese, Mozart, Goethe, Dante Alighieri... Come se la vicenda dei Templari fosse il più grande giallo architettato dalla Storia, e la soluzione fosse proprio a un passo dall'essere scoperta.

Angeli a pezzi di Dan Fante (Marcos y Marcos). Intervento di Vito Antonio Conte




















Torno a dire di libri, dopo un po' d'assenza. Ho avuto altro da fare che scrivere recensioni. Intanto, tra tutto quell'altro, solita refrattarietà compresa, ho letto qualche libro. Quello di cui voglio parlare ora è “Angeli a pezzi” di Dan Fante (Marcos y Marcos edizioni, Collana MiniMarcos, pagine 271, € 10,00), letto per curiosità, stante la circostanza che l'Autore è figlio dell'immenso John Fante, del quale ho divorato quasi tutto quel che ha pubblicato in Italia. Del quale già (poco...) ho scritto. Incontrare figli di padri (o di madri) “importanti” nel mondo dell'arte (in generale, e della letteratura in particolare), traverso l'attività nella quale si cimentano e che già era stata del loro genitore, è sempre un fatto che nasconde insidie. È di per sé rischioso voler scrivere se il proprio padre (o la propria madre) scriveva. Se poi il genitore è stato uno dei più grandi del Novecento, la faccenda diventa ancor più complicata. Voglio dire che -sempre, almeno all'inizio- il giudizio dei lettori -quale io sono- (per non parlare dei critici, alla cui categoria mi pregio di non appartenere) deve superare qualche pregiudizio... e altro. E allora non resta che leggere. Nell'aletta della prima di copertina del libro in parola è -tra l'altro- scritto: “Un romanzo più bukowskiano di Bukowschi”. Non scherziamo! Non so chi l'abbia scritto, ma -per quel che ho letto- mi sembra un'emerita stronzata. Poi, sull'altra aletta (della quarta di copertina) leggo: “I suoi romanzi sono ballate di amore e di morte, come lo erano quelli di Bukowschi e come lo sono stati quelli di suo padre”. Il giudizio è di Fernanda Pivano (tratto dal Corriere della Sera). Ora, con tutto il rispetto e la stima per Fernanda Pivano e per quanto di meritorio ha fatto per la divulgazione della letteratura (soprattutto per gli scrittori della Beat Generation...) in Italia e con la personale diffidenza di cui sopra, il paragone mi sembra davvero esagerato. E quel che dico vale evidentemente per quella minima conoscenza che ho di Dan Fante, limitata alla lettura -appunto- di “Angeli a pezzi”. Un romanzo pulp, all'apparenza molto autobiografico, scritto in prima persona, il cui incipit pretenzioso (“Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose”) appare essere mera trovata letteraria in quanto il seguito della narrazione non mantiene la promessa iniziale. Quanto meno, non la rispetta sino in fondo. Le vicende del libro sono note per chi conosce la vita di John Fante e, in particolare, i suoi ultimi anni e sa cosa restava (fisicamente) di lui. Ridotto pressoché a un tronco umano, ormai cieco, alle prese con cure di nessun effetto e con la nolontà di morire, nonostante tutto. Anche i suoi rapporti con la moglie e con i figli (compreso Dan) sono noti. La “novità” che questo libro dà è la versione di Dan Fante del suo rapporto col padre. Non mi è piaciuto per niente il dare nomi diversi da quelli reali ai personaggi realmente esistiti, riconoscibilissimi nel libro e proprio per questo m'è sembrata veramente ultronea tale scelta. Ma trattasi di romanzo e tant'è. M'è piaciuta di più la narrazione e il linguaggio utilizzato dall'Autore: la prima semplice e efficace, che rende scorrevole il romanzo, intrigando il lettore; il secondo molto concreto, decisamente vicino all'oralità del racconto che consente di vivere le scene evocate dalle parole come fosse un film, senza per questo intendendo dire che la scrittura è vicina alla forma della sceneggiatura. Tali caratteristiche sono quelle che più avvicinano la scrittura di Dan Fante a quella dei su citati John Fante e Charles Bukowski, senza però contenerne la forza, la poesia, l'immediatezza, la potenza, l'aspetto eversivo che -nella letteratura- hanno avuto (soltanto per citare un paio di titoli) “Chiedi alla polvere” di John e “L'amore è un cane che viene dall'inferno” di Hanks. Lo stile è quello, ma proprio per questo la scrittura di Dan Fante sembra più quella di un epigono che quella di uno scrittore che smuove qualcosa nel dejà vu del genere. “Sapevo che se non bevevo, avrei potuto scrivere di nuovo.”, dice Dan Fante nellultima pagina del romanzo, dopo aver creato qualcosa di buono. Ma, come per quasi tutte le cose, la risposta la darà il Tempo. Per quel che potrò, mi terrò informato. Sperando che oltre a scrivere di nuovo, Dan Fante scriva anche qualcosa di nuovo.


domenica 2 maggio 2010

Il libro del giorno: Sopravvivere alla crisi di Jacques Attali (Fazi)



















"Un giorno o l'altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. Il mio scopo non è pertanto quello di esporre un programma politico per risolvere questa crisi e tutte quelle che seguiranno, e neppure quello di offrire vaghe generalizzazioni moraleggianti, bensì di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di "cercare uno spiraglio nella sventura" e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio". Dopo aver analizzato il crac del 2008 e le sue cause socioeconomiche nel precedente saggio "La crisi, e poi?", Jacques Attali estende ora la sua riflessione alle fasi cruciali della vita personale e collettiva. In una realtà complessa come quella di oggi, però, diventa sempre più arduo superare le difficoltà che incontriamo nel nostro cammino. Per questo l'autore individua sette principi da applicare, di volta in volta, di fronte alle avversità, siano esse di natura macroeconomica internazionale (la crisi finanziaria) o privata (la fine di un amore).

Il buon ladro di Hannah Tinti (Einaudi)



















New England. Metà del XIX secolo. Ren orfano in una comunità di protestanti alla “veneranda” età di undici anni, aspetta che qualcuno lo adotti, nella speranza di poter evitare l’arruolamento coatto nell'esercito. Il ragazzino scopre nel frattempo di avere un talento innato che lo rende diverso e per certi aspetti speciale rispetto agli altri coetanei: una spiccata abilità per il furto. Quando un uomo che sostiene di essere il fratello, tal Benjamin Nab, si presenta al convento di Saint Anthony dove Ren aveva trovato dimora e una certa stabilità, reclamandolo dunque in qualità di parente più stretto, ecco che per questo giovane “Lupin” cominceranno una serie di peripezie singolari, stravolgenti, avvincenti che lo metteranno sempre e comunque nelle condizioni di mettere a frutto il suo "dono".

A questo si aggiunga che le circostanze in cui Ren potrà dare il meglio di sé sono il frutto della scaltra architettura “scenica” messa in moto da Benjamin, e dallo sgangherato Tom. Una serie di piccole rappresentazioni teatrali come nella migliore tradizione western, piene zeppe di pozioni miracolose, esibizioni maldestre giusto adatte a prendersi gioco dei più gonzi, fino all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per qualche “dollaro” in più. In una di queste squallide sortite Ren conoscerà il mastodontico Dolly, assassino letteralmente ritornato dall’aldilà. Insomma una piccola truppa di squinternati che aiuteranno il ragazzino ad andare incontro al suo destino nella città di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi dello spietato contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi. Libro splendido questo di Hannah Tinti, dal titolo “Il buon ladro” edito da Einaudi, che va oltre un Charles Dickens o un Mark Twain, vuoi per eleganza che per contenuti. Che sia stato in madrepatria (negli U.S.A.) considerato nel 2008 uno dei libri più stuzzicanti o che sia stato pluripremiato potrebbe essere un incentivo in più per comprarlo. Ma vi dico che in questo caso, basta leggerlo, gustarlo, e il sogno sarà a vostra portata.

Il libro del giorno: Glister di John Burnside (Fazi editore)




















L'Innertown è un desolato centro postindustriale, avvolto da una vegetazione fitta e malata. La città è cresciuta attorno allo stabilimento chimico e, ora che l'azienda ha chiuso i battenti, si è trasformata nell'ombra di se stessa. Laddove vivevano operai e persone comuni germogliano strane forme di vita. L'aria, le case, l'acqua: tutto è oscuro, intossicato. In questa terra vuota e spoglia l'ex complesso chimico torreggia, come un catalizzatore di luci e di ombre, tra i fusti contorti del bosco avvelenato; i ragazzi, la notte, vi si aggirano furtivi. Tra loro c'è Léonard, un quindicenne che alla solitudine e la desolazione del luogo e alle violenze della sua scatenata gang di amici oppone la fragile protezione della letteratura, da Proust a Conrad a Fitzgerald. E c'è Morrison, il solo poliziotto dell'Innertown, l'uomo che un giorno, in una caverna vegetale adorna come un altare, ha scoperto il corpo legato e straziato di un adolescente. Di fronte a quel corpo oltraggiato Morrison ha accettato d'insabbiare l'inchiesta, lasciando credere che il ragazzo fosse fuggito: e così gli altri fanciulli scomparsi dopo di lui, uno dopo l'altro, un anno dopo l'altro. Glister è molte cose insieme. È un'intelligente metafora sulla paralisi del mondo industrializzato, di un'umanità alienata dalla realtà delle cose, delle anime prosciugate e recise dall'indifferenza per il dolore altrui. Introduzione di Irvine Welsh.

Azzeccare i cavalli vincenti di Charles Bukowski (Feltrinelli). Intervento di Vito Antonio Conte















“Azzeccare i cavalli vincenti” è l'ultimo titolo degli sterminati scritti di Charles Bukowski, uscito nel novembre dello scorso anno per i tipi di Feltrinelli Edizioni nella Collana “Canguri”. Si tratta di trentasei “pezzi” pubblicati (Buk vivente) su riviste, fanzine e giornali underground (tra cui “Portfolio”, “Story”, “L.A. Free Press”, “Open City”, High Times”, “Small Press Review”, dal 1946 al 1994) e ora ottimamente raccolti da David Stephen Calonne, curatore del libro. Del Bukowski poeta e scrittore in prosa questi “pezzi” hanno lo stile e il linguaggio, riconoscibilissimi, ché la scrittura di Hank è inconfondibile tanto è unica. Il pregio di questo libro è che, traverso gli inediti che contiene, rivela qualcosa in più (semmai occorresse) sulla versatilità creativa della incalcolabile opera bukowskiana, così vasta che -allo stato- non esiste una bibliografia completa di tutti i lavori di Bukowski. In questa raccolta si possono leggere racconti brevi, recensioni a libri di altri autori, brevi saggi e veri e propri manifesti sulla sua poesia. Tutti e trentasei i “pezzi” sono altrettanti piccoli capolavori e dopo le duecentosessantanove potentissime pagine del libro la sensazione più evidente (OLTRE TUTTO... CH'È MOLTO ALTRO...) è quella di piena soddisfazione per i diciassette € spesi (CHE IN QUESTI TEMPI DI CARENZE NON È POCO!), in uno al fatto di sapere che di Hank c'è ancora tanta scrittura inedita... Per quanto dopo questa premessa possa sembrare inutile esercizio segnalare qualche “pezzo” in particolare, meritano una nota a parte quello che dà il titolo al libro, “AZZECCARE I CAVALLI VINCENTI (Come vincere all'ippodromo o almeno come riprendersi i propri soldi)”, nonché “IN DIFESA DI UN CERTO TIPO DI POESIA, DI UN CERTO TIPO DI ESISTENZA, DI UN CERTO TIPO DI CREATURA FATTA DI CARNE E OSSA E SANGUE CHE UN GIORNO MORIRA'” e “INCONTRO IL MAESTRO” . Nel primo c'è il Bukowski delle corse di cavalli, a suo perfetto agio nell'ambiente dell'ippodromo con tutti i personaggi che lo frequentano (e che lui ignora osservandoli), che tanta sua scrittura ha ispirato.

Qui c'è il tentativo di dare delle regole all'azzardo, ché non sia -puntare su un cavallo-l'ennesimo modo per farsi fottere (dal gioco come dalla morte). "In difesa di un certo tipo di poesia...” è uno scritto che sembra un manifesto del comecazzovannolecoseporcodiooggigiorno, tanto è attuale nella sua causticità.

Il tema è quello più caro a Buk: vivere fuori da qualsiasi omologazione, seguendo il proprio istinto, le proprie passioni, il proprio pensiero. Cito stralci: “Abbiamo avuto alcuni buoni insegnanti nelle Arti. E alcuni scadenti. Ma nella storia delle nazioni tutti i leader dei secoli passati, i nostri leader politici, sono stati cattivi insegnanti e ci hanno condotto all'odierno vicolo quasi cieco. I nostri capi di stato evidentemente sono stati malvagi, ottusi e stupidi... perché per governare il popolo morto i nostri cosiddetti leader hanno dovuto pronunciare parole morte e predicare azioni morte (e la guerra è una di queste) per essere capiti da menti morte. La storia... non ci ha lasciato nulla se non sangue e tortura e rovina -perfino ora dopo quasi duemila anni di cultura semicristiana le strade sono piene di ubriachi e di poveri e di morti di fame e di assassini e di polizia e di invalidi solitari, e quelli che nascono oggi vengono schiaffati in mezzo a tutta questa merda- la Società. Non so se sarà possibile salvare il mondo; bisognerebbe che ci fosse una tremenda inversione di marcia, il che è quasi impossibile. Ma se non possiamo salvare il modo, allora per lo meno diteci in cosa consiste, dove siamo. Ci sono tanti, tanti salvatori del mondo. Quasi quanti se ne possono trovare morti. E, sfortunatamente, quasi tutti i salvatori del mondo sono già morti. Essendosi dimenticati, strada facendo, di salvare se stessi. Il che ci porta dritti a quella parola sporca, POESIA”. Buk considera sporca la poesia scritta dai professori universitari che identifica nei centri di potere delle lettere e, in generale, quella che è un mondo sicuro e un mezzo sicuro, quella che tratta di tutte le cose che non contano, quella che nel loro mondo è come un conto in banca. Quella di quel professore d'inglese che -in una delle sue lezioni- avrebbe detto “qualcosa del tipo: . Questa (prosegue Henry) è stata interpretata come una frase molto profonda e arguta, colma di saggezza, ma naturalmente si trattava semplicemente di una frase rubata, una frase che anni fa si diceva a ogni angolo di strada, e quindi, in questo caso, il tizio è un fottuto plagiario da due soldi. I suoi problemi non sono i miei problemi. Ha scelto di contrastare i problemi e di morire. Io ho scelto i problemi e di vivere la vita”. (…) Henry sputa tutto il veleno servito in calici d'oro da quei cosiddetti poeti (accademici e non) che hanno perso di vista la finalità della scrittura, ossia LA VITA e “derubano spudoratamente dei poveri figli di puttana nel nome altisonante del Progresso e del Profitto... Noi, che scriviamo la poesia della Vita, molti di noi sono piuttosto stufi e tristi e nauseati e quasi sconfitti (ma non del tutto). Eppure sappiamo bene che non abbiamo bisogno che Dio sia divino, che non abbiamo bisogno di versi fioriti per essere Salvati, che non abbiamo bisogno della Guerra per essere Liberi, che non abbiamo bisogno di ammirare i Creeley, che non abbiamo bisogno dei Ginsberg che cadono in farneticanti stranezze, ma forse abbiamo bisogno di piccole lacrime... capite che non sto sostenendo che tutto ciò che scrivo è ... pochi uomini come me hanno fatto una scelta, con o senza talento, siamo stufi del continuo gioco della morte... VIVERE? Già, vivere, la cosa che ci accomuna tutti, voi morti viventi e noi vivi viventi. Il mondo della poesia attira certi coglioni tremendi. La maggior parte dei coglioni tremendi... Siamo le farfalle di una brutta estate. E allora, 'fanculo, questo articolo è tuttora in difesa della poesia e contro certe forme considerate poesia e vita. Molti di noi non ce la fanno, ma grazie alla buona sorte e, oh mio dio, all'amore, molti in un modo o nell'altro ce la fanno...”. Cos'altro aggiungere? Una volta ho scritto (oltre a averlo detto ripetutamente) che posso leggere di tutto e di più, sino alla nausea, sino al vomito, e posso starmene -per refrattarietà- senza ascoltare e sentire e leggere nulla per settimane, ma quando i miei occhi incontrano Charles, ogni volta, la sua scrittura mi riconcilia con la letteratura e col mondo. Poi, qualcuno (non ricordo più chi) mi ha chiesto: perché? La mia risposta è stata: trovalo da te: leggilo! E, se oltre a quanto sopra, servisse ancora spiegare perché, provate a intuire chi -il vecchio Hank- considerava suo Maestro. “Incontro il Maestro” è uno dei più bei racconti di Henry: è noto che Bukowski ha letto moltissimo e che -in particolare- di tutti i poeti e gli scrittori del suo Tempo aveva (tranne rare eccezioni) ben poca considerazione. Per dirla con Hank “Centinaia di scrittori conosciuti e centinaia di sconosciuti... E mi facevano male perché a volte era roba buona, ma a singhiozzo, a scatti qua e là, per poi ricadere nella pesante monotonia letteraria. Questo era molto più che avvilente, perché significava che secoli, SECOLI di letteratura e di scrittori avevano fatto fiasco con me. O almeno avevano fallito nel darmi quello di cui avevo bisogno nelle loro opere. Ma, come stavo dicendo, proprio quel pomeriggio stavo perdendo come al solito la giornata prendendo i libri, aprendoli a casaccio e leggendo un paio di pagine per poi riporli sullo scaffale. A quel punto ne presi un altro a caso... Aprii una pagina aspetandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole, mi saltarono addosso, proprio così. Balzarono dalla pagina e mi trapanarono. Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo proprio allora! Anche il tipo di carattere sulla pagina sembrava diverso. Le parole si leggevano bene. C'erano spazi vuoti e poi parole. Le parole sembravano una voce nella stanza. Portai il libro a un tavolo e mi sedetti. Ogni pagina aveva forza. Non riuscivo a crederci. Mi pareva come se le parole potessero saltare fuori dal libro e iniziare a camminare in giro, o spiccare il volo. Avevano una forza straordinaria, erano completamente reali. Come mai quest'uomo non era mai stato citato da nessuna parte?”. Quell'uomo era John Fante! Il “pezzo” (tutto da leggere) si chiude così: “Avevo incontrato il mio idolo. Capita a pochissimi”. A me non è capitato, né può capitare più, ormai. Anche perché (nonostante questo pezzo) non ho più idoli!


sabato 1 maggio 2010

Il libro del giorno: Caino di Josè Saramago (Feltrinelli)



















A vent'anni dal "Vangelo secondo Gesù Cristo", José Saramago torna a occuparsi di religione. Se in passato il premio Nobel portoghese ci aveva dato la sua versione del Nuovo Testamento, ora si cimenta con l'Antico. E sceglie il personaggio più negativo, la personificazione biblica del male, colui che uccide suo fratello: Caino. Capovolgendo la prospettiva tradizionale, Saramago ne fa un essere umano né migliore né peggiore degli altri. Il dio che viene fuori dalla narrazione è un dio malvagio, ingiusto e invidioso, che non sa veramente quello che vuole e soprattutto non ama gli uomini. È un dio che rifiuta, apparentemente solo per capriccio e indifferenza l'offerta di Caino, provocando così l'assassinio di Abele. Il destino di Caino è quello di un picaro che viaggia a cavallo di una mula attraverso lo spazio e il tempo, in una landa desolata agli albori dell'umanità. Ora da protagonista, ora da semplice spettatore, questo avventuriero un po' mascalzone attraversa tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica: la cacciata dall'Eden, le avventure con l'insaziabile Lilith, il sacrificio di Isacco, la costruzione della Torre di Babele, la distruzione di Sodoma, l'episodio del vitello d'oro, le prove inflitte a Giobbe, e infine la vicenda dell'arca di Noè. Riscrittura ironica e personale della Bibbia, invenzione letteraria di uno scrittore nel pieno della maturità, compone un'allegoria che mette in scena l'assurdo di un dio che appare più crudele del peggiore degli uomini.

Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio (Sellerio). Intervento di Elisabetta Liguori

















E’ tornato in libreria: GiGi. È così che la monella di turno dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio appella confidenzialmente il protagonista della vicenda, evocandone le sole iniziali: Guido Guerrieri,
avvocato un po’ eroe, un po’ genio, un po’ cialtrone, al quale lo scrittore sta progressivamente abituandoci.

L’abitudine non è un dettaglio in questo romanzo.

Per quanto la Bari che Carofiglio racconta sia una città nuova, post moderna, persa tra storiche desolazioni e risorse rinnovate, è l’abitudine agrodolce a certi antichi vizi a farla da padrone. L’avidità, l’indolenza, la debolezza, l’insuccesso, la crudeltà. Siamo di fronte ad una vicenda fatta essenzialmente dai personaggi e dalle loro abitudini. Una passerella di prototipi antropologici, sintetizzati abilmente, con rapidi quanto efficaci tocchi, da una penna oramai consapevole. Il plot è semplice. Una ragazza sparisce nel nulla dopo un fine settimana trascorso con gli amici. Il caso tristemente irrisolto - inutile anche il passaggio a Chi l'ha visto? - sta per essere archiviato, ragion per cui i genitori della ragazza si recano da Guerrieri e lo pregano di tentare di individuare nuovi filoni d’indagine. Con qualche tentennamento Guerrieri accetta e comincia la caccia, mentre lungo il suo cammino investigativo si dipana un piccolo mondo. Il fallito, il truffatore, il poliziotto nobile, il padre distrutto, il collega invidioso, la perversa, il cinico, la bestia fedele. Ma il vertice della galleria è rappresentato senza dubbio da Nadia, bellezza provvisoria e vera.

Una escort d’invenzione letteraria che ha riscattato la propria libertà col mercimonio.

Animata rappresentazione del desiderio e specchio sociale di scottante attualità: è in questo profilo che l’ultimo Carofiglio dà il meglio di sé. Nell’economia di una trama che non brilla per originalità, Nadia rappresenta un guizzo dotato di autentica forza narrativa. È proprio lei ad offrire l’occasione giusta per l’intuizione che porterà alla soluzione del caso. L’intuizione dell’assenza, l’improvviso avvertimento del contrario e della mancanza, con i quali molti di noi fanno i conti di continuo, in un dichiarato richiamo a Conan Doyle. Nadia e il suo omopub, il Chelsea Hotel n.2, circoscrivono la No man’s land in cui Guerrieri si muove, meglio delle altre citazioni musicali e letterarie, delle quali il romanzo gronda. S’accendono e si spengono nella notte della narrazione come insegne a neon, facendo da contrappunto ai ricordi del passato e ai tic nei quali l’avvocato si smarrisce. Ma lo scrittore seriale è spesso animale abitudinario, rischia col tempo di finire ad imitare solo se stesso. Come un serial killer si piace a volte più del necessario. Per quanto la maestria narrativa di Gianrico Carofiglio sia oggi indiscutibile (il ritmo della storia sempre e comunque riesce ad avvincere il lettore in una sorta di estatica allegria) è proprio il titolo di questo romanzo a doverci mettere in allarme. La perfezione non dura. La perfezione come la bellezza sorprende. È il frammento rubato di una mutazione costante, ragion per cui alla perfezione non ci si può abituare. L’avvocato Guerrieri ritrova di rado quella perfezione, poiché, forse troppo preso dalla piacioneria, dalla vanità, dalle abitudini, sembra aver smesso di cercarla veramente.

venerdì 30 aprile 2010

Il libro del giorno: Un colpo di vento di Ferdinand Von Schirach (Longanesi)



















Cosa spinge uno stimato e irreprensibile medico di paese ad ammazzare la moglie a colpi d’ascia dopo quarant’anni di matrimonio? E come si può consumare un delitto tanto efferato in un’atmosfera di calma apparente? Muove da qui il racconto di Ferdinand von Schirach, da situazioni di normalità in cui un colpo di vento può scatenare una follia criminale.
Dalla sua posizione privilegiata di avvocato penalista, l’autore osserva quotidianamente gli orrori e le violenze della vita di tutti i giorni. Spacciatori, prostitute, skinhead, ma anche famiglie aristocratiche, ricchi uomini d’affari e insospettabili guardiani di museo diventano così i protagonisti di vicende semplicemente inspiegabili dalla ragione.
L’avvocato von Schirach rivela un eccezionale talento narrativo: entrando in punta di piedi nelle vicende che racconta, riesce a mostrarcele sotto una nuova luce, invitandoci a rivedere i pregiudizi sui criminali e sulle cause delle loro azioni, e a riflettere sul labile confine fra il bene e il male.

giovedì 29 aprile 2010

La versione di Barney di Mordecai Richler (Adelphi). Intervento di Vito Antonio Conte



















Finalmente, dopo averne sentito parlare da pochi buoni (di là delle recensioni e del clamore mediatico che c'è stato), ho conosciuto da vicino Mordecai Richler, traverso il suo libro (ormai cult) “La versione di Barney” (Adelphi Edizioni, Collana “Gli Adelphi”, pagine 484, € 12,00), che mi ha regalato momenti di solitarie incontenibili risate e tristezze sino al pianto. Mordecai Riclher nasce nel 1931 a Montreal (nel ghetto ebraico di Rue Saint Urbain -che ispirò molti dei suoi libri, tra cui quello noto come “St. Urbain Street”) e, dopo una vita fatta di lavoretti part-time, i primi studi, l'abbandono dell'ortodossia e della fede religiosa in generale, un primo viaggio in Europa (visse -prima- in Francia e -poi- in Spagna), il ritorno in Canada, un altro viaggio in Europa (Londra), il matrimonio e tre figli, il ritorno definitivo (nel 1972) in Canada, dove visse fino a settantanni. Autore di numerosi romanzi, scrisse anche libri per bambini, sceneggiature (lavorando per il cinema e la televisione) e fu prolifico giornalista, lavorando anche in radio. “La versione di Barney” è stato un successo mondiale. In Italia (nel 2001) è divenuto un caso letterario (con più di 100.000 copie vendute). Nell'estate dello scorso anno, a Roma, c'è stato il via alle riprese della trasposizione cinematografica del romanzo (regia di Richard J. Lewis, protagonista Paul Giamatti, con Dustin Hoffman nei panni del padre di Barney). Il romanzo è esilarante e struggente insieme, strutturato in tre parti: una per ciascuna delle tre mogli di Barney Panofsky. La prima, la pittrice Clara Charnofsky, suicidatasi a Parigi, dopo una vita costantemente borderline. La seconda signora Panofsky è una donna di agiatissima condizione sociale che Barney sposa senza un esatto perché e che, il giorno stesso delle nozze, comprende essere stato un errore, tant'è che alla cerimonia di nozze s'innamora di quella che sarà il suo vero grande amore, Miriam, dalla quale avrà tre figli (Michael, Saul e Kate). Queste brevi note sulla vita di Mordecai Richler e sul personaggio Barney Panofsky (tra le tante rinvenibili) sembrano immagini speculari, tant'è che molti hanno visto in Panofsky l'alter ego dell'Autore. Vi è che il romanzo è autobiografico, pur con i limiti precisati dallo stesso Autore in un'intervista rilasciata nel 2000 a Federica Velonà di Radio Tre. Ma se è vero che Mordecai non è stato sposato tre volte, suo padre non era un poliziotto e non è stato accusato di omicidio, come accade a Panofsky, è altrettanto vero (per stessa ammissione dell'Autore) che l'identificazione tra Barney e Richler è quasi violenta tant'è forte. Barney è, come lo definisce la sua terza moglie, un “collezionista di rancori”, che fuma troppi sigari Montecristo e vuota troppe bottiglie di Macallan, prendendosi gioco di tutto e di tutti con il cinismo tipico del ricco arrivato (senza essere snob...), che non risparmia giudizi su nessuno, condendo le parole di quell'umorismo nero che rendono quei giudizi politicamente scorretti, sì da rendersi antipatico ai più. Nella narrazione, infatti, emergono progressivamente tutti i difetti di Barney (ruvido, sadico, cinico, vile, opportunista...), ma -in maniera altrettanto potente- vien fuori tutta l'umanità del protagonista del libro (severo con se stesso non meno che con gli altri, con lo sguardo scevro da condizionamenti verso la vita e la morte, capace di grande amore e umile nel riconoscere e ammettere i propri fallimenti...), che ne fanno un personaggio costantemente in bilico tra un terribile burlone che non esita a schernire i sentimenti altrui e una gran bella persona capace di giocare e mettere in gioco i suoi stessi sentimenti. Il tutto con un linguaggio che definire -come ho detto- esilarante è riduttivo. Un linguaggio fatto di pause, di reiterazioni, di citazioni, di richiami e di rimandi continui, a caratterizzare l'importanza della memoria e la sua perdita. Panofsky, infatti, è malato di Alzheimer e questa invenzione dell'Autore in un personaggio molto colto (com'è Barney) s'addice pienamente a quella ch'è la nota predominante dello stile di Richler, ossia il progressivo abbandono dell'organizzazione cronologica della trama del romanzo con infinite digressioni, che mai appesantiscono la storia. Ciò che dà modo all'Autore di spaziare temporalmente attraverso la storia principale con grande libertà inserendo nella narrazione (con dei flashback apparentemente disordinati) una miriade di personaggi e le loro storie. “La versione di Barney”, così, è narrazione delle vicende di Panofsky (fisicamente provato dagli acciacchi della vecchiaia, senza l'unica donna che ha amato -e continua a amare- follemente, consumatore incallito di sigari e whisky) e di quelle dei personaggi che -comunque- con lui hanno interagito e interagiscono (in una giostra di ricordi d'un vissuto straordinariamente ricco d'eventi), ma anche racconto di altre storie parallele. Come dev'essere una vita vera, degna di tal nome. Razionale, folle e romantica.

Il libro del giorno: FRANCESCO BACCINI. TI PRESTO UN PO' DI QUESTA VITA a cura di Marzio Angiolani e Andrea Podestà (Zona editrice)




















E' la prima volta che Francesco Baccini si racconta così a lungo. Tanto a lungo che c'è voluto un libro intero per raccogliere tutto ciò che ha detto a Marzio Angiolani e Andrea Podestà. Tutti e tre genovesi, hanno familiarizzato subito: gran parte delle conversazioni contenute in questo libro s'è svolta nel soggiorno di casa Baccini. L'incontro galeotto - fra i tre - fu a Trezzano sul Naviglio, in occasione di un concerto. Angiolani e Podestà - due che di musica ne masticano bene, e parecchio - chiesero a Francesco un'intervista. In realtà quell'intervista è finita alcuni mesi e molte chiacchiere dopo. "Quel che abbiamo fatto è stato farci prestare un po' delle sue parole, inseguire i versi delle sue canzoni e le pieghe della sua voce, accompagnarlo in un viaggio nei suoi ricordi e negli sguardi verso il futuro, in quel groviglio di amore, musica, cinema e testi che è la sua carriera".
Una carriera lunga vent'anni, e in questo 2010 si festeggia. Insieme a questo libro, il nuovo disco "Ci devi fare un goal" (Sugar Music), antologia dei suoi maggiori successi più due inediti, e tanti nuovi progetti per il cantautore genovese.
Dentro a ogni uomo, si sa, si combatte continuamente una guerra. Dentro a ogni uomo si scatenano tempeste, si scontrano desideri e volontà, cuore e ragione, bene e male.
Ci crediamo Uno e invece siamo una moltitudine. Un guazzabuglio di “persone” dentro di noi che cercano a turno di prevalere le une sulle altre. Subpersonalità le chiamerebbe Jung, Omini – più prosaicamente – li chiama Francesco Baccini. Come degli spiritelli (... E io che sono uno spirito maligno/ mi muovo di notte con l’istinto di un vampiro...) si divertono a dire la loro, a prendere il controllo, a tirare brutti scherzi.
E se tutto questo accade dentro a ogni uomo, immaginate cosa possa essere l’animo di chi passa la vita a inventare storie, a darsi nuovi nomi, a interpretare altri ruoli, e a raccontare, sempre, a raccontare in prima persona, nascosto dietro al pianoforte, nascosto dietro quell’Io che è di qualcun altro...

mercoledì 28 aprile 2010

Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0, di Giuseppe Genna (Minimum Fax ). Intervento di Nunzio Festa

















Non sono sicuramente tra quelli che corrono appena sentono d’una nuova uscita di Wu Ming, ma ho molto apprezzato “Assalto a un tempo devastato e vile”. Dicevamo prima di Wu Ming, in quanto, e solamente per ciò che so, alla fine per un pizzico d’affinità vera e cruda esiste davvero tra Wu Ming e Giuseppe Genna. Ma lasciamo stare. Per ripartire, più utilmente, dalla nuova edizione (o versione, se piace maggiormente all’autore) del corposo – nonostante la mole non eccessiva per un volume di ‘genere’ – impianto – struttura – motivo di fondo del “genere” che abbiamo davanti agli occhi ugualmente rovinati dal tempo che rovina. Lo scrittore milanese avvisa in una nota, tanto per cominciare, e approfittiamo dell’angolo da noi creato per dire che ha scelto decisamente bene scegliendo d’entrare come autore in Minimum Fax, che “la presente costituisce la terza edizione presso un terzo editore, in un arco di otto anni (ma a un decennio dal momento in cui fu sottoposto al giudizio di varie case editrici), di ‘Assalto a un tempo devastato e vile’: al tempo stesso, il mio libro d’esordio e il mio libro finale. Il primo nucleo, pubblicato presso peQuod nel 2001, è stato terminato nel 1999, e si conclude con l’explicit dopo il testo ‘Ciò che resta’. La seconda edizione, presso Mondadori nel 2002, ha portato all’aggiunta del testo ‘Questo è il martirio del Santo Me’. Ora, a distanza di dieci anni dalla prima stesura, in forza delle mutazioni personali e di scrittura, è stata aggiunta una ulteriore costellazione di testi, la quale non comparirebbe tale senza il decisivo consiglio di Christian Raimo (editor aggiornatissimo sempre e sempre attentissimo, ndr), a cui sono inimmaginabilmente grato. Ritengo importante precisare che il libro, nella forma attuale, si autocostituisce come non definitivo”. Da una premessa e da tratti di spiegazione del tipo ascoltato, non ci si sarebbe potuto che aspettare almeno buona parte della successiva lettura. Innanzitutto, occorre specificare, il libro distorce i canoni del romanzo solamente perché si serve per diverse pozioni di testo di forme diverse: dal racconto al reportage finanche al saggio. Non a caso, già anni or sono il libro fu definito “l’opera cult di Giuseppe Genna” e che “fece gridare alla nascita di una voce potente e originale delle letteratura italiana”. Attualmente, precisiamo noi, e per me fortunatamente, in un certo senso, invece il lavoro non incontra (almeno per adesso) le sirene della critica. Buon segnale, forse. Incoraggiante: potrebbe essere. In contemporanea, addirittura alcune e alcuni provano a dare stroncature di diversa costituzione. Ad avviso di chi scrive, tanto per cominciare, la pesantezza d’alcuni momenti – però molto significativi – è il giusto e sacrosanto pegno, da lettore, che si deve pagare se veramente si vuole leggere d’infiltrazioni nella società che a loro volta sono capaci d’infiltrarsi nella nostra fasulla tranquillità. Non è, cosa che ci pare ovvia, per rispondere d’altronde al lancio di copertina se ci permettiamo di ribadire come, vedi per Milano, Genna riesca a spulciare pagine amare della metropoli consumata dalla morte lenta per veleni. A emblema, ma sempre aiutati da altri segni, di tanti altri e a volte simili spazi urbani e inumani. L’opera presenta tanti punti sui quali per correttezza ci si dovrebbe soffermare. Prima per riflettere. E poi per invitare a riflettere su noi italioti che siamo in transito a favore di Libero e del Giornale, di Repubblica e della Lega e di Caltagirone e di Fini e di Casini. Nella constatazione, a forza di presenza concreta, dei beni e dei desideri dei potenti. Però ricordiamo, almeno, gli originali titoli dei paragrafi: Assalto a un tempo devastato e vile, Radiazioni dall’epoca del trauma, Zona padre, Noi supereremo le soglie di qualunque universo sia senziente. Per analizzare, per dovere di data, magari, un brano: “Gadal scarica e carica con Francesco. Francesco ha tre figli, una moglie, il mutuo da un milione al mese per la casa, le rate di trecentomila lire per la macchina. La macchina gli serve: ci dorme dentro. Smonta alle tre di mattina, dorme quattro ore in macchina, poi va in un’officina. Alle otto è di nuovo nel padiglione. Il venerdì notte prende la macchina e va a Gallarate, dove sta la famiglia. Lunedì ricomincia”. Anzi, un altro: “Ricordo il primo premier ex comunista della storia d’Italia, che fece il ’68 essendo allievo alla Normale di Pisa nella foto bianconera con il dolcevita sotto la giacca e chi sa quale gelido sogno, e dice il sì alla guerra di là dell’Adriatico e giustifica il sì con sillogismi che innalzano onde anomale di vergogna umana e di sangue altrettanto umano”. Un libro pazzesco di tempi pazzeschi. Per certi argomenti persino anticipatore d’analisi, o portatore di ‘profezie’ si diceva una volta. Lo stile di Genna viaggia tra la descrizione assoluta e perfettamente fedele incastonata in situazioni paratattiche o strappi, di contro e addirittura, che spingono sulla scia del teatro evocativo. Un linguaggio, quindi, parola su parola destinato all’evocazione. Con mezzo di stilettate tondeggianti. Dove, infine, l’impegno di scrittura è tutto frutto della causa civile dell’opera. Titolo più giusto, dunque, non si sarebbe potuto trovare. Il retroterra di Giuseppe Genna si sposa con un mutamento dei tempi che sconquassano la gestione delle vite di tutte e tutti.

Il libro del giorno: Io innalzo fiammiferi di Irene Leo (LietoColle)




















Io innalzo fiammiferi non è una raccolta di testi, ma un libro che obbedisce a una struttura ve­getale, a delle nervature come quelle delle foglie. Intorno a cose inanimate come ossa, vetro, cucchiaino, ruotano aria, luci marine. Si sente che chi scrive ha fatto i conti con lo spazio, con la memoria. Irene Ester Leo usa metafore audaci ma non arbitrarie. Se il suo linguaggio sfiora i mistici è perché quel lessico è il mezzo che ha a disposizione per dire l'assenza. In realtà i suoi versi più belli splendono di un calore orizzontale, frontale, consapevoli del fatto che "è tutto una questione di luce". Se c'è rivelazione è del corpo e del paesaggio. Se c'è un presagio non è oscuro. Ci sono "lacci" è vero ma sono "vivi": come quelli dell'uva.

dalla prefazione di Antonella Anedda


L'ho vista piangere in un'alba rossa di fuoco, mentre declinava il capo avvilita. Pochi prescelti ascoltano la sua verità e la portano in braccio, altri ne fanno triste bandiera. Ora che anche io sono un po' morta con lei, chiedo di rinascere bruco, per andare a cercarla nei luoghi più bassi, nel carbone più nero dei semplici, tra le carte gialle di una dimenticanza, o negli scaffali di una mensola buia, nella coerenza di chi non ha mezzi termini, e nelle parole più spigolose e graffiate. Nel dettaglio del sale unto di olio e di vita, tra le calze distrutte di un uomo, che ha messo le sue scarpe al sole nei pressi della strada più ricca. Nella pioggia, sì nella pioggia acida della vendetta di madre, nel buio che avvolge tra le lenzuola il sonno la notte, respirandosi addosso. Sarò così in basso, che sotto di me sentirò solo l'inferno incalzare, sarò così strisciante che le mie costole saranno orizzonti a metà. Sì. La cercherò in tutti gli angoli disprezzati, nelle mie mancanze, nelle assenze. Lascerò ad altri il gusto del volo e la sua leggiadra bellezza vacante. La seguirò ovunque mi chiamerà... seguirò solo la Sua voce. E ne farò Luce. Ma non fermatemi. Sto cercandomi. Sto cercandola. Non fermatela. È 'solo' Poesia, ma ben presto tornerà ancora, e si farà carne. La vedo, la vedo quasi che (come scrisse S. Toma) si torce al riflesso di un miraggio / insegna la favola più antica.

Irene Ester Leo


Dogma
Quanto più leggermi è diventare straniera alle perline di pietra,
collana pesante da legare all'andatura,
quanto più rivolto la pelle, che è sotto il sangue coi suoi lacci vivi,
fino a sentire tirare le gambe e le nocche, arricciarsi le pupille,
sfilacciarsi i polmoni,
secernere anima collosa,
quanto più mi decompongo queste ossa in azzardi
e li ricerco in tessere affinate alla Rubik,
quando mi apro la gola per vomitare fuori
un fiamma erosiva,
quando mi avvicina alla morte
ed infierisce con un cucchiaino freddo
infilato tra le costole pregustandosi me,
solo allora io segno
la sua verità.


Presagio

La polvere è l'ansia della spina
che cade piano dentro le cose morte,
prima dell'affondamento nella voce.
Ho ingoiato tutta la tua polvere
lungo il passo incerto spogliato,
ma negli occhi solo ora nacquero
appena tu le scartasti con parole a punta,
rose dal bouquet lungo,
omologate ai sensi altrui.

Assenzio

Se l'acqua lava ciò che penso,
forse un iris nasce tra quel fango, dopo.
Chiara la notte senza sangue e corpo, a volte
è la mia mano,
pesante lama che ti offende mio amato sempre.
Ma non c'è occhio cieco tra le ciglia del grano morto,
l'onda ferrosa della vita attanaglia la lingua
ed io lo so che tutto è.
Da quassù le orme dell'invisibile
sono mie.
Stelle laconiche di tempo
abbottonate tutte sulle maniche.
Spilli che reggono il gioco della prossima estate.


IRENE LEO - Classe 1980. Ha esordito "ufficialmente" nel 2006 con "Canto Blues alla deriva", Besa editrice. È presente su "Tabula rasa 05", rivista di letteratura invisibile nella sezione Poesia e su alcune antologie, tra cui "Verba Agrestia" 2008 e 2009 e "Il segreto delle fragole" 2009 , entrambe LietoColle edizioni.
Nel 2007 ha ricevuto dal Teatro di Musica e Poesia "L'Arciliuto"di Roma il riconoscimento in "Kagolokatia".
Sue liriche sono state recentemente inserite nella rivista letteraria "Incroci" diretta da Lino Angiuli e Raffaele Nigro, giugno 2009, Mario Adda Editore.
Collabora con il quotidiano" Il Paese Nuovo" per la pagina culturale.
Ha pubblicato "Sudapest" (Besa editrice, 2009).

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