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martedì 22 gennaio 2008
La ragazza sordomuta. Racconto di Dora Albanese
Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira - con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
- Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta - quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia - mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole - ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone - come fosse una cicatrice - e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre - Caterina, italiana d’origine - era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo - erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali - frequentati di nascosto - che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo - quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia - si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac - la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno - memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio - per scegliere quale giovane orfano prendere con sé - quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio - e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire - gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti - quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento - sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera - iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta - per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa - era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni - un ragazzo, ormai - che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così - finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.
fonte Musicaos.it
fonte iconografica www.nicolalalli.it
nell'immagine opera di J. Fussli
domenica 20 gennaio 2008
... e di nuovo verrai di niente vestita
Forse sei arrivata davvero
Sono entrato nel settimo sogno
L’aria a lungo sperata e immaginata
Nella polvere che si colora
Prende forma
Comincio a toccarla
Si lascia attraversare
Poi si scompone
Come di respiri mischiati
In un nuovo vivere
Fresco tra le dita
Ancora mistero
E d’intorno senso pieno
Vito Antonio Conte, … e di nuovo verrai di niente vestita
Luca Pensa editore
fonte iconografica www.repubblica.it
nella foto Victoria Silverstedt
giovedì 17 gennaio 2008
La sveglia elettrica di Icaro Ravasi
mercoledì 16 gennaio 2008
Amoà Fatuiva. Orizzonti Impazziti
Ho steso un tappeto come una sposa dell'Est
ricamato con i miti di regioni sconosciute
per festeggiare il ritorno del tuo destriero.
Ho vegliato tutta la notte pregando i xhin
affinchè il maestrale non ti portasse via.
Giungerai con passi silenziosi come la tua Ombra
e vi imporrai l'orma duratura
della tua Storia
da Orizzonti impazziti di Amoà Fatuiva (Besa editrice)
lunedì 14 gennaio 2008
Io sono leggenda di Richard Matheson
fonte Musicaos.it
Io sono Leggenda, di Richard Matheson, Fanucci, pp.224, euro 13
domenica 13 gennaio 2008
John Titor. Nessuna delle cose che ho detto ...
Nessuna delle cose che ho detto saranno una sorpresa. Esse sono state messe in moto dieci, venti, perfino trenta anni fa. Ora vi sorprenderebbe di più scoprire che l'Iraq ha delle armi nucleari o che era solo una stronzata perché tutti accettassero la guerra?
John Titor
fonte iconografica www.heavyplace.com
fonte testuale www.wikipedia.com
sabato 12 gennaio 2008
John Titor. Nel 2008 ...
Il 2008 è l'anno entro il quale chiunque si renderà conto che il mondo in cui pensavano di vivere è ormai finito (o non è mai esistito)
John Titor
fonte testuale www.wikipedia.it
fonte iconografica www.ciai-s.net
mercoledì 9 gennaio 2008
John Titor. Nel 2036...
(John Titor )
fonte www.wikipedia.it
lunedì 7 gennaio 2008
In Padania...sognando Mutu. Di Mihai Mircea Butcovan
Povero io sono
e solo i miei sogni posseggo
Cammina in punta di piedi
perché cammini sui miei sogni.
William Butler Yeats
«Effettivamente, se bruciassero le tende degli zingari, stasera, domani potremmo vincere la partita di calcio… Se brucia anche la casa di Andrei, che è fortissimo, domani non verrà a scuola».
Questo pensavo ieri sera, dopo aver origliato le discussioni da grandi che mio padre faceva nella tavernetta con i suoi amici. Mi aveva detto: «Andrea, vai in camera tua che dobbiamo fare discorsi da grandi!» Ero già molto agitato perché oggi si doveva giocare ancora, a scuola, una partita del torneo di calcetto.
Ieri pomeriggio mio padre aveva occupato il telefono per più di due ore. Appena metteva giù la cornetta, il telefono squillava di nuovo e papà urlava: «Adünansa… ci troviamo da me, prima di cena, vedi di trovare anche Giuanin il Viscunt e il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent, tucc!».
Tra tutti i sopranomi che avevano gli amici di papà Esercent era quello che mi piaceva di più. Sembrava il nome di un rapper d’oltreoceano. Gli amici chiamavano mio padre Parabula, forse perché ogni volta che iniziava un discorso diceva: «Par esempi…». Invece la mamma diceva che lo chiamavano così perché era un po’ la sua storia di impegno politico. E mia madre chiamava Parabula anche lo zio, il fratello del papà, che è nel sindacato.
Ieri sera erano tutti lì, tranne lo zio, nella tavernetta di sotto, e Giuanin diceva: «Dobbiamo mandarli via quei baluba. Quelli che rubano nelle case e rubano i bambini e ammazzano la gente… zingari comunisti mangiabambini…»
Il mio sogno è quello di fare il calciatore. E sogno di fare gol come Mutu. Lo avevo visto quando ero andato allo stadio con il nonno, a San Siro. Il nonno m’aveva detto: «Si va allo stadio, Andrea. Per vedere il bel calcio e fare festa».
Oggi invece, a scuola, si doveva giocare contro quelli della sezione B, fortissimi. E sono diventati ancor più forti da quando è arrivato Andrei, “il rom”. Io invidio Sergio, non mi vergogno e gliel’ho detto in faccia. Sergio è il mio amico d’infanzia, il mio vicino di casa e compagno di classe fino all’anno scorso. Poi ha cambiato sezione da quando mio padre aveva detto, alla riunione coi genitori, che la sezione A doveva rimanere degli italiani e non si dovevano inserire ragazzi stranieri. «E nemmeno terroni…» aveva aggiunto papà a denti stretti mentre si sedeva. Ma ormai gli altri genitori l’avevano sentito ed il padre di Sergio ha deciso di spostare suo figlio in un’altra classe.
Sergio fa le vacanze estive dai nonni a Palermo. Ha in classe un cinese, un marocchino, due filippini, un romeno e due zingari “rom”. «I rom non sono romeni», dice Sergio. Glielo ha spiegato Gabriel, il compagno romeno. Ma Andrei e Sergiu, i due rom, vengono dalla Romania. Giocano benissimo a pallone. Arrivano ogni giorno a scuola con un pulmino. Vivono in un campo nomadi in delle “tende provvisorie”. Li hanno mandati via dalle baracche di un altro campo. «Sono un po’ vivaci, come noi» dice Sergio. E sono fortissimi nella corsa e nel calcio.
Sotto, nella tavernetta, mio padre stava urlando parolacce, ieri sera.
Domenica gioca il Milan, si va allo stadio… Anche lì papà dice le parolacce… Ieri sera papà ha tirato fuori la maglietta con la scritta: Tegn dur contro il sud magrebino. «Non si sa mai», ha detto alla mamma.
Quella maglietta papà l’ha comprata qualche anno fa, ad una festa dove erano tutti vestiti di verde, come dei marziani o come la squadra dell’Irlanda. C’era un rito dell’acqua e tutti che gridavano: «Fuori l’Italia dalla Padania, fuori
Ricordo che c’era quella volta un uomo col fazzoletto verde che urlava al microfono: «Noi quella gente non la vogliamo, padroni a casa nostra, stiamo bene da soli…». Io pensavo che è triste vivere da soli. Si era agitato per un’ora quel signore col microfono. E tutti si agitavano con le bandiere quando lui alzava la voce, diciamo ogni due minuti circa. Aveva sbagliato qualche congiuntivo il signore col fazzoletto, ma ho capito che non era il momento per farglielo notare a mio padre.
Papà era impegnato a urlare, con bandiera verde legata al collo e con il volto rosso carminio: «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne».
C’erano tutti a urlare e agitare bandiere: Giuanin il Viscunt, il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent. Col ritmo un po’ rap. «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne». Il via alle urla l’aveva dato ancora l’uomo col microfono. Quello con la voce rauca, quello che poi mio padre aveva messo sul desktop del computer, a casa. La foto di quell’uomo vestito da Zio Sam con la scritta: «Mì te voeuri!»
Ogni volta che accendevo il pc mi ritrovavo la faccia di quell’uomo, con il cilindretto, il frac e il dito puntato minaccioso: «Mì te voeuri!». Altro che uomo nero. L’uomo verde ad ogni accensione del computer: «Mì te voeuri… mì te voeuri!» Era diventato l’incubo dello schermo, il tormento del monitor. «Mì te voeuri…?» In qualche modo l’uomo verde se l’era preso, mio padre. Infatti papà ogni tanto tornava la sera in garage vestito di salopette, come un imbianchino, sporco di vernice bianca e verde. E sentivo che diceva alla mamma che lo aspettava con il vin brulé: «Che ciulada sul cavalcavia!».
Scriveva sui muri di cemento cose tipo «Padania libera, Padania ai padani» e altri slogan sentiti al rito dell’acqua. Lo zio sindacalista, prendendolo in giro, le chiamava «installazioni artistiche».
Non penso che lo chiameranno mai alla Biennale di Venezia per una scritta da cavalcavia tipo «romaladrona, padaniastato»…
Per il compleanno il papà aveva regalato alla mamma, tempo fa, un «elegante set cucina sale pepe serigrafato con sole delle alpi», ordinato su Internet. La mamma aveva detto: «Adesso anche i miei regali sono diventati sovvenzioni per il partito». E ha messo il suo regalo nella tavernetta, per le riunioni degli amici di papà. Che a volte giocano al Risik Padan. E bevono grappa «Va’ Pensiero».
Papà dice che il comunismo ha fatto tante vittime e che non bisogna falsificare la storia. Lo zio gli risponde che forse è vero ma neanche bisogna dimenticare quando noi andavamo in America.
Il papà dice che lo zio andrà all’inferno per quel «forse» e che noi però non eravamo «con le toppe al culo». Lo zio risponde: «Allora per chi fate la toppa Sole delle Alpi?». Mio padre sotto la doccia canta: «Va’ pensierooo…». Che poi lo zio gli dice: «A furia di lavà el penser… ghe n’è pù… l’è andaa…». La mamma a volte fa dei lunghi sospiri e dice che quei due, fratelli, prima o poi si prenderanno a botte.
Lo zio ha sposato una pugliese. Papà chiama anche lei, quando non c’è la zia, baluba. «Maschile o femminile, sempre baluba è» mi disse papà quando gli chiesi se anche mio cugino fosse un balubo. Il papà dice: «Ognuno a casa sua». Che tristezza, ognuno a casa sua! E ieri sera dicevano, nella tavernetta, gli amici di papà: «Organizziamoci, difendiamo il nostro… fratelli sul libero suol, meniamo i baluba… contro i baluba… uniamoci!». E poi sono usciti tutti insieme, ringraziando mia madre per la torta. E mia madre scuoteva la testa, preoccupata.
Allora se Andrei non si fosse presentato a scuola per il torneo noi avremmo sicuramente vinto…
Andrei gioca scalzo ed è fortissimo. Sogna di fare gol come Inzaghi. Un giorno, all’intervallo, quando Sergio me lo ha presentato, gli ho detto: «Ciao, sono Andrea, quasi come Andrei. Ma tu, se giocasse Italia contro
Ma oggi non si è giocata la partita del torneo, a scuola. Andrei è arrivato tardi a scuola, lo hanno portato, col solito pulmino, delle persone grandi, preoccupate. Anche le prof erano preoccupate.
All’intervallo Andrei raccontava a Sergio: «Oggi tenevo stretto per mano mio papà… hanno bruciato le nostre tende… non si sa chi è stato. Papà dice che è gente razzista… “razzista” sembra cattivo… se brucia le tende in cui dovevamo abitare… forse lo è… era arrabbiato mio padre, voleva dire tante cose ai giornalisti ma secondo me sbagliava qualche parola. Io imparo l’italiano, non è facile ma papà dice di studiare che così avrò più fortuna di lui nella vita e saprò anche difendermi con le parole e parlare bene coi giornalisti».
Questo pensava Andrei oggi, nel giorno della partita del torneo a scuola. È venuto lo stesso a scuola e ci ha detto che gli dispiaceva per la partita ma anche perché ora sentiva dire che si doveva traslocare di nuovo, proprio sotto Natale, come un anno fa, perché si diceva che la gente qui non li vuole. Proprio ora che suo padre aveva trovato un lavoro e sua madre era contenta perché non si doveva più andare in giro a chiedere la carità, come qualche mese fa.
E ci ha detto che ieri sera erano pure felici, era il compleanno di sua sorella Adela, era venuto il Don, Massimone, Maria Grazia e tanti amici a portare una torta ed una bambola. Per Adela era il primo vero compleanno. Ma forse, diceva lei, non avrebbe potuto mai collezionare bambole. Traslocavano troppo spesso.
Mi dispiaceva vedere Andrei così triste. Poi lui mi ha detto: «Se vuoi possiamo giocare a pallone insieme qualche volta, se troviamo un luogo dove giocare…».
Avvertenze per i lettori:
In quella scuola andavano anche Adela, Elena, Elisabeta, Georgia ed erano compagne di Adele, Elena, Elisabetta, Giorgia.
La faccia di quel signore vestito da Zio Sam che punta il dito: «Mì te voeuri!» esiste. E pure il Risik Padan. E se volete sapere di più delle ciulade padane fatevi un giro in rete.
Avete fato un po’ fatica a districarvi tra Andrea e Andrei, tra Sergio e Sergiu? Affari vostri. Quella piccola differenza nei nomi vi ha disturbato nella lettura? Affari vostri.
Quella piccola differenza nei nomi racconta molte altre differenze nelle loro vite. Ma non nei loro sogni da bambini. Che sono affari nostri, di tutti. Anzi, ci riguardano.
Dedica:
Ai ragazzi che menano il balòn sul campo di calcetto in un parco di Milano.
Ai sognatori che hanno regalato loro il campo per giocare, i palloni e qualche sogno in più.
A coloro che rendono i sogni dei bambini realtà.
Il racconto è stato pubblicato su il manifesto del 3 gennaio 2008
Mihai Mircea Butcovan
E' nato nel
(mihai@fastwebnet.it)
fonte iconografica www.fiorentina.it
giovedì 3 gennaio 2008
Salento's Movida di Armando Tango
fonte da www.musicaos.wordpress.com
domenica 30 dicembre 2007
Il Trapasso di Marcello Sacco (Besa editrice) visto da Mauro Marino
In memoria di Sorriso, innamorato dell’impossibile! (2)
di Mauro Marino
“Siamo cresciuti tutti insieme nello slargo di piazzale Vercelli dove, finchè è rimasto uno sterrato incolto, si poteva giocare a calcetto. Poi vennero gli anni ’90 e le aiuole comunali. Ci siamo sparpagliati. La maggior parte di noi s’era stufata di prendere le birre alla salumeria Spalluto fra il primo, secondo, terzo, quarto tempo di interminabili partite sotto il sole o sotto la luna, davanti a fidanzate platoniche che dopo una certa ora ci guardavano dal balcone”.
Il muscoloso Salvatore Castelluccio detto Sorriso, “pessimo artificere, irruente centravanti della Juvenilia e temibile tamburino della curva sud”, residente storico delle case Gescal di via Torino, è il protagonista de “Il trapasso”, esordio narrativo di Marcello Sacco.
L’eterno immusonito Sorriso - “O perdo o vinco, io sempre sorriso”, (e quel sostantivo nelle sue intenzioni, doveva essere un verbo) disse una volta dopo una batosta con tre reti di scarto in cui però aveva giocato da eroe” - fu uno di quelli che ad un certo punto iniziarono a dare appuntamento in Via Oberdan, migranti dalla periferia a bordo di usurate Px, con in tasca i pacchettini di erba da vendere per finire a tirar su col naso travagliati dall’impossibilità e dalla fatalità di un ‘destino’ mai veramente scelto.
In verità i protagonisti di questa storia sono tanti, raccontati da una voce, un testimone, “fuori campo”, capace di sagacia e di ironica compassione.
Personaggi comunemente rintracciabili in una città di provincia come la nostra Lecce. Tutti abilitati al ruolo, primi attori e comprimari, bestiario naturale della beata e molle solarità di questo meridiano, “cresciuto lontano dalle terre di partigiani e repubblichini”, non uso a cocciutaggini ideologiche, pronto al transumar con i riti e l’indicibile che porta la sopravvivenza e quando Dio vuole il “successo”.
C’è la professoressa Valeria Baragli, moglie dell’avvocato Umberto detto, nelle consuetudini del Foro, ‘melina’, termine noto a chi ha abitudine con il calcio e con le perdite di tempo giudiziarie. Lei, gran donna con tailleur coloratissimi, ne risalta uno rosa confetto, “consumata attrice del varietà accademico”, tra un tè e un Alka Seltzer, consigliata dal fido Licci, “un buon fascista, di quelli che si innamorarono a suo tempo della retorica compassata di Giorgio Almirante”, dà l’assalto alla politica cittadina. “Il potere quello vero, va condiviso. Il piccolo feudo missino non esiste più, il Movimento Sociale ha i giorni contati” e… “ Valeria, se l’operazione riesce, nel partito ci sarà posto per tutti. L’importante è smetterla di raccimolare voti solo fra quattro teppistelli e i loro avvocaticchi”. “Ci vorrà molto olio, Valeria”. E così si fece, forte di 35mila preferenze, in questo (ormai ex) feudo democristiano, la professoressa ottenne un incarico governativo, era il 1994, anno dell’avvento di Berlusconi.
Con lei, sua figlia Elena, imbronciata ed eterna insoddisfatta, “una bellezza così bianca, quasi diafana, che da vicino faceva impressione”, “corpo forgiato a modiche quantità di anoressia nervosa oltre che nei migliori fitness club” non ha dubbi, “ai banchi (dell’Università) preferisce gli spalti dello stadio. Non li scalda, la scaladano”. Sorella di Ettore, fidanzata di Arturo e amante svogliata del nostro Sorriso che per amor suo, sì per amor suo…. ci fa ‘visitare’ anche il Costa Rica, approdo di molti salentini che lì trovano rifugio ed esilio per ‘marachelle’ più o meno grandi o per trasporto naturale all’esotismo.
Il resto della scena, rocambolesca, esilarante ma mai inverosimile, è occupato da camerati più o meno integristi: Gianni Burzo servant d’Ettore, macellaio e “collante di mondi distanti”; il giornalista Calamari e il medico legale Cazzato; Lenticchia, l’americano titolare di Fondazione omonima e Rosaria Villani.
Inconsapevoli e disarmanti nella loro scioccheria troviamo Sabrina, vera fidanzata di Sorriso, Gaetano e lo spacciatore Scarpia che nasconde la cocaina nelle teste delle bambole delle ‘sacre figliole’.
Dall’altro lato, diciamo così…, il sindaco Gargiulo, democristiano poi di “sinistra” leader della lista “Idee in Comune”, imparentato con la lady missina e suo nipote Ettore, che si fa assessore e “volto nuovo” della programmazione culturale con una “folla di idee” che covava la novità nel “vecchio”, nella tradizione insomma, chiave di volta del ‘rilancio’… Cose che sappiamo!
Fili di una storia in cui è facile darsi al gioco del “chi è?”. Buona lettura!
fonte Paese Nuovo del 29/12/2007sabato 29 dicembre 2007
Giorgio Scianna ... Fai di te la notte, Einaudi, 2007
Partiamo da una domanda che possa aiutare il lettore a comprendere il “back-stage” del processo creazionale relativo al tuo romanzo d’esordio Fai di te la notte. Qual è stato il tuo progetto iniziale circa il contenuto, la struttura, le vicende da raccontare? Come sei arrivato poi alla redazione finale del tuo lavoro?
Volevo scrivere la storia di un segreto in una famiglia, in una coppia. Di questo segreto, nascosto da un marito dietro una porta, sapevo solo due cose: che si sarebbe aperto nella vita della moglie come una crepa che non si può fermare, e che doveva essere un segreto degno. Un segreto che non svilisse di per sé il loro rapporto. Mi interessava capire come il non detto, le zone franche di ognuno di noi possano esplodere anche se innocui. Lavoravo su questo, su tradimenti e nascondimenti. Più in là ho capito quale dovesse essere il segreto, l’unico possibile. Poi il resto. La fatica più grossa che ho incontrato nella costruzione della struttura e anche nella redazione finale di questo libro, è stata il perfezionare gli incastri, gli snodi e i linguaggi delle tante parti del romanzo.
In copertina c’è una frase che fa riflettere molto: “Non c’è fedeltà che nel tradimento”. E’ una scelta casuale, o una piccola chiave che volutamente consegni al lettore per farlo entrare da subito nel mondo della tua scrittura?
Quella frase è mia. Adam Kasev non esiste. Avevo bisogno di lui solo per quella traccia. Mi piacciono gli ex-ergo ma devono essere precisi e non svelare al tempo stesso. Una chiave, una rotta possibile che il lettore può seguire nel romanzo.
Il tuo romanzo, scritto davvero bene (mi ha ricordato Rami secchi di Mario Soldati), parla di segreti, piccole menzogne in un universo familiare (quello di Sergio, Clara, papà Giò) dove il silenzio, le assenze, la fanno da padroni. Certamente nella vita coniugale, zone d’ombra talvolta ce ne sono più del dovuto e spesso sfociano in amarezze insostenibili. Ma alla fine sembra che tu propenda più ( tra le righe scrivi che la famiglia è un organismo che divora tutto,anche le ferite e che tutto poi digerisce normalizzando e stabilizzando ogni turbamento) verso un elogio del matrimonio. Cosa ne pensi?
Si è parlato di noir per questo libro. Penso che sia qualcosa che riguardi l’atmosfera che c’è in quella piccola casa. E più ancora la costruzione della tensione e della suspense. C’è anche un senso di “incombente”, un’indagine per scoprire la verità di quei segreti, di quei tradimenti. Non è però un noir in senso pieno, anche se il centro del racconto è un mistero il tessuto più profondo del romanzo va alla ricerca di altre strade.
Vivi per una vita accanto a una persona che credi di conoscere e poi scopri, quasi per caso, un suo lato, che mai e poi mai avresti potuto immaginare: Sergio, ha un segreto, vecchio di centinaia e centinaia di anni, che lo rende diverso, tanto da non potersi rivelare alla luce del sole. Ed ecco che inserisci nel plot del tuo romanzo, una specie di giallo, con delle nuances da noir … ce ne potresti parlare?
Tra Clara e Sergio c’è un rapporto profondo: affetto e complicità sono rimasti negli anni. Ma ci sono anche i tanti tradimenti, le tante fughe. In qualche modo ci sarà un superamento, ci sarà un nuovo equilibrio, ma ho qualche dubbio che tutte le ombre si allontanino.
Scendiamo un po’ più nel personale… Ci sono stati autori nell’ambito della letteratura italiana o internazionale, che, diciamo, ti hanno influenzato, o che ti hanno dato qualcosa, ti hanno entusiasmato, fatto crescere?
Ho sempre avuto frequentazioni letterarie molto eterogenee: la letteratura americana contemporanea (Roth, McCarthy Fox per citarne alcuni), alcuni autori mitteleuropei (Bernhard, Kundera, Svevo), tutto l’ottocento (i Karamazov sono la lettura che mi segnato più di ogni altra) e la folla di scrittori israeliani. Spesso faccio sortite nel mondo noir (Bunker e Manchette sono stati compagni di viaggio). L’ultimo vero entusiasmo di fronte a una lettura risale a qualche anno fa: Franzen con le sue Correzioni ha lasciato il segno.
Dove pensi che stia andando il mondo delle lettere oggi? Possiamo archiviare ormai come archeo-semiotica, la parola impegno?
In Italia è difficile trovare una mappa per orientarsi. Gli autori importanti sono monadi, isole distanti per età e mondi. Forse è meglio così. Quanto all’impegno, è ancora difficile capire se ci sarà un effetto Saviano. Quello che è certo è che in giro la richiesta di una letteratura che parli anche di quello che ci sta intorno, anche con forme ibride di narrazione, è più forte che mai.
fonte www.musicaos.wordpress.com
venerdì 28 dicembre 2007
Nicolau Eymerich, Francisco Pena, Il Manuale dell'Inquisitore, Fanucci
lunedì 24 dicembre 2007
La navigazione del Po di Andrea Di Consoli
Dalla sua raccolta:
Exit Sud
(Salutate il padre,
salutate la madre.
Andate via questa notte. Lasciate la terra chiamata Sud.
E non tornate,
non tornate quando muore il padre e la madre)
fonte iconografica
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/files/photos/uncategorized/2007/07/15/foto_andrea.jpg
domenica 23 dicembre 2007
Merry X-Mas
Auguri di buone feste a tutti quelli che conosco e che non conosco, a quelli che non vedo da anni o che ho conosciuto di sfuggita, che ho recensito o che mi hanno colpito in qualche modo, a quelli che mi hannno lasciato ferite profonde nel cuore, che mi hanno regalato gioie incredibili, per come sono fatti o per quello che hanno scritto o detto ... magari mi sono scordato di mandare il mio sms di buoni auspici a qualcuno, ma comunque auguroni a tutti ... io intanto vi sto preparando una bella sorpresa ...
fonte iconografica
http://members.iinet.net.au/~michaelbolger/mp3/evil%20santa.jpg
venerdì 21 dicembre 2007
Tabula Rasa 06 - La rivista letteraria tutt'altro che invisibile
martedì 18 dicembre 2007
Diana Chuli a Nardò
INCONTRI AD ARTE
CAFFE’ LETTERARIO … A TEATRO
NARDO’ INCONTRA
LA SCRITTRICE ALBANESE
DIANA CHULI
A cura di BESA EDITRICE
TEATRO COMUNALE C.so VITTORIO EMANUELE II – NARDO’ (LECCE)
GIOVEDI’ 20 DICEMBRE 2007
h.17,30
Dialogheranno con l’autrice ANTONIO ERRICO e SILVIA FAMULARO
Torna in Puglia la scrittrice albanese Diana Chuli autrice del volume edito da Besa “Scrivere sull’acqua”, un romanzo ambientato tra Tirana, Bari, Otranto e Valencia, e che racconta l’Albania stritolata dal comunismo. Ne racconta le fughe, la tragedia, l’angoscia del traffico degli esseri umani attraverso gli occhi dei protagonisti Pablo, Carlo e Cristina. A breve uscirà in Italia sempre per Besa editrice, l’ultimo lavoro della Chuli dal titolo “Angeli Armati”. Diana Chuli ha vinto proprio alla fine dello scorso novembre il prestigioso premio letterario “Scrittore dell’ anno in Albania 2007" che viene consegnato dall’associazione degli editori albanesi nel cui comitato scientifico ci sono 18 membri, tutti rigorosamente esperti di letteratura e editoria. Un premio difficile, che lo hanno ricevuto fino adesso Kongoli e Koreshi. Un premio che per una donna, in Albania, ancora oggi non é facile ricevere. L’incontro con l’autrice a cura della Besa editrice, e che prevederà tra l’altro l’esposizione di opere letterarie italo-albanesi, previsto per il 20 dicembre 2007 alle ore 17,30 presso il Teatro Comunale di Nardò in Corso Vittorio Emanuele II è stato promosso dal Comune di Nardò, Unione Europea, Città di Mesagne, Città di Noci, Repubblica di Albania, Interreg Italia Albania
DIANA CHULI (Tirana 1951), giornalista, ha scritto i romanzi Eëri i largët (La voce lontana), 1981; Rrethi i kujtosës (Il circolo della memoria), 1984; Dreri i trotuarëve (Il cervo dei marciapiedi), 1990; Reguiem, 1991. Per Besa ha pubblicato “Scrivere sull’acqua” del 2002.
Da alcuni suoi testi sono state tratte sceneggiature teatrali. Collabora a diverse testate culturali, ha tradotto diverse opere di Jean Paul Sartre, Andre Jide, Simone de Beauvoir ed è stata premiata come “Scrittrice dell’anno 2007” dall’associazione degli editori albanesi.
domenica 16 dicembre 2007
Quel qualcosa in più
Il mio nome è Ertrit Omeri. Dieci anni di carcere a partire dal
Avevo scontato tutto ciò che c’era da scontare. Ero un uomo libero, finalmente, e l’indomani sarei uscito. Mi aspettava una nuova vita. Ma a che prezzo… Sapevo solo una cosa: Nereida era con me, nella buona e nella cattiva sorte, finchè morte … e il resto lo porto tutti i giorni con me da quando ci siamo sposati. Al tasso del 70%, mi feci prestare dieci milioni pur di andarmene. Non appena fossi stato in grado di lavorare, ogni mese avrei dovuto restituirne circa il 18%. Partimmo alle 23,00 di una meravigliosa notte di settembre. La luna che si stagliava alta nel cielo, aveva il viso di mia moglie. Sarei riuscito a regalarle un giorno, un pezzo di paradiso! Nel cuore avevo un cielo in tempesta. Ora sono qui. Gioco a scacchi con il mio compagno di stanza Gelal, e a volte con lui parliamo del comunismo in Albania negli anni ’80. Si stava meglio quando si stava peggio? Mi importa soltanto strappare dalle braccia della solitudine, la mia donna, che per ogni istante lontana da me ha versato una lacrima di sangue sul suo cuore. Non mi resta che aspettare il permesso di soggiorno. Guardo un po’ di Tv. I Quiz Show di Mike Bongiorno, o quelli di Iva Zanicchi. Su di me hanno l’effetto di un buon sonnifero! Immagino di partecipare a uno di questi giochi, e vincere milioni e milioni, così da poter pagare tutti i debiti, e ritornare in patria a fare il pascià! Ma soprattutto quello che mi interessa più della stessa vita, è avere la speranza di riabbracciare lei. Qui, ogni giorno faccio la stessa vita. Stesse persone che si aggirano come fantasmi per quei pochi metri quadrati, in silenzio, pensando a quando ritorneranno con qualcosa in più tra le mani, dai loro cari. In silenzio fanno la fila allo spaccio per delle sigarette, in silenzio bevono i loro caffè, in silenzio aspettano qualcosa che gli dia un po’ di speranza in più, una lettera, un pacco, una telefonata. In silenzio… perché il vuoto che senti dentro, ti fa sentire freddo, tanto da volerti prendere un po’ più cura di te. Gelal dice che il popolo albanese n’è uscito sempre a testa alta, e che i suoi progenitori erano forti guerrieri. Io non ho più voglia di niente. Non ti danno da leggere nemmeno un giornale. D’accordo, pensano che tu non sappia l’italiano, ma il cervello ha bisogno di distrarsi, non possono recidere completamente il tuo cordone ombelicale con il mondo. Io, per parte mia, non ho più voglia di niente. Vorrei solo scapparmene, fuggire da questo manicomio… voglio solo il permesso di soggiorno, datemi questo cazzo di permesso di soggiorno e la faccio finita. Me ne sto subito buono buonino! Poi mi trovo un lavoro, e faccio venire la mia Nereida… mi manchi tanto…
Non ce la faccio più…
Non ce la faccio più…
Ertrit Omeri si è suicidato, impiccandosi, nella notte tra il 13 e il 14 novembre
Fonte iconografica http://www.kaiserjaeger.com
Fonte testuale di Stefano Donno da www.opifice.it
venerdì 14 dicembre 2007
Alessandro De Santis, Il cielo interrato
Alessandro De Santis, Il cielo interrato, Joker (Novi Ligure, 2006)
Poesia fatta d’urgenza spontanea. L’autore della silloge poetica Il cielo interrato, Alessandro De Santis, apre le porte dell’haiku senza farsi schiacciare dalla ripetizione dell’accesso. Non esiste conformità con quanto è stato già visto, nella maggior parte dei casi. Si legge nuovo, e del nuovo. Dove la freschezza del verso immerso in un’urgenza che alza a valore predominante il carattere sott’inteso della spontaneità coglie le mani di tutto il mondo – lettore. Testi brevi, dunque. Essenziali quanto netti. Il linguaggio è permeato da letture, certamente; eppure è libero da schemi. Gli spazi nudi si sono tolti vestiti, anzi i vesti mai li hanno avuti. Ripercorrendo il filo del volume, si potrebbe scegliere una prova che meno somiglia al resto del corpo testuale. Che, per esempio, Quaderno di riflessi, una poesia apparentemente piana, versi simbolicamente facili, non è fatta di un solo momento. Anche se non conosce “paragrafi”. “I sensi bruciano il sangue / Sospiri tumultuano tra le dita / l’inquietudine è un corallo sotto il ghiaccio / onde spietate sotto i portici / scarpe spaiate senza nome / Una qualche gioia del pensiero / nulla denudato in insonne attesa…”. In un intervallo dove le musiche preferite di De Santis evidentemente stanno tacendo, è possibile carpire il senso del dentro che muove la forza – volontà di scrivere. L’irrequietezza agita la mente di chi scrive. La poesia si fa largo dove è stretto passare. Sotto il freddo c’è tanto altro da conoscere e percepire, dopo aver sentito e ingurgitato. Alessandro De Santis ha davanti a sé altre creazioni a venire, sicuramente. Nella pubblicazione si legge che la gioia di esprimersi senza ridere per forza per il momento non è affatto pronta ad arrestarsi. I riferimenti dell’autore romano sono lontani geograficamente e vicini idealmente. Tutto in favore di altre creazioni da destinare a un futuro prossimo e dolcemente scalpitante.
fonte iconografica www.recsando.it
mercoledì 12 dicembre 2007
Stefano Cristante e Simone Giorgino alla libreria Icaro di Lecce
Presenta
Sabato 15 dicembre 2007
Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30
Stefano Cristante
Visite Inattese (Besa editrice)
Presenta l'autore Luciano Pagano
Le composizioni poetiche di Stefano Cristante, in questo suo Visite Inattese hanno una modalità di struttura compositiva piuttosto varia, dove vengono a trovarsi diverse situazioni redazionali in bilico tra il Diario Poetico e il Poemetto. Il corpus poetico complessivo si articola comunque in quattro sezioni Tipi di cose, Anatomie, Atti di dolore, Amenità. Rientranti nella nuova tendenza della modern american poetry, dove i canoni della metrica si desemantizzano, per creare una prosa poetica più adatta all’attività orale performativa. E di fatti Cristante lo fa a esempio nel componimento And for what a teatro. Il retroterra contenutistico dei componimenti di Cristante sa di Fiori del Male, anche se la capacità descrittiva dei passaggi interiori, si trasforma in un modus poetico incentrato sulla tensione tra il desiderio di comunicare con e per l’altro, e le paranoie esistenziali da solitudini quasi auto-imposte, come se l’altro sia creatura atroce da cui scappare.
Un’opera soprattutto ironica, sarcastica, sardonica come lo potrebbe essere il risus di un Max Stirner, dove la Poesia si prende in giro e prende per i fondelli, maggiormente chi la reputa monoliticamente sacrale.
STEFANO CRISTANTE, è docente di Sociologia dei fenomeni politici e direttore dell’Osservatorio di comunicazione politica (Ocp) presso l’Università del Salento. Nel catalogo Besa ha pubblicato Da Vendola a Prodi,in cui vengono analizzati i media nazionali e locali nel corso delle elezioni regionali del 2005 e delle politiche del 2006
Domenica 16 Dicembre 2007
Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30
Simone Giorgino
Asilo di Mendicità (Besa editrice)
Presenta l'autore Antonio Errico
Conquistare uno spazio del genere – uno spazio per l’odore dei sedili dei treni locali, per il rumore sordo di uno sbotto di tosse, per il colore del muro sbrecciato e livido dell’ “Asilo di Mendicità” o di Santa Maria del pane – conquistare questo era tutto ciò che volevamo, e che chiedevamo a una poesia viva. Essere vivi anche noi: per gioco, per scherzo, per una volta, per provare.Questo, allora, abbiamo fatto.
SIMONE GIORGINO (1975) è uno dei tre autori di Venenum.
lunedì 10 dicembre 2007
Maurizio Leo. Del Gatto delle Fusa e del suo strusciamento (Lupo editore)
L’idea di una antologia avente come oggetto una selezione quanto più completa ed esauriente del percorso poetico di Maurizio Leo, mi solleticava da tempo, anche perché abbiamo dinanzi un autore davvero singolare, i cui versi sino adesso hanno procurato non pochi problemi a quanti hanno tentato una sistemazione analitica organica e puntuale. Maurizio Leo, che oggi vive e opera a Copertino in provincia di Lecce, nasce nel 1959, e da più di quindici anni porta avanti con encomiabile impegno una piccola casa editrice I Quaderni del Bardo, paragonabile per qualità editoriale alle pubblicazioni di Vanni Scheiwiller. Non possiede una distribuzione, né un catalogo, non ha un ufficio stampa, non ha un correttore di bozze, spesso la sua casa diviene un piccolo magazzino per i libri che lui realizza, costruisce, accudisce: eppure questa preziosa realtà che si muove nell’instabile e multiforme mondo dei libri (basterebbe leggere Il Controllo della parola di Andrè Schiffrin per i tipi di Bollati Boringhieri per farsene un’idea), nei suoi sedici titoli annovera nomi come Paolo Valesio (sino al 2004 resposabile del Dipartimento di Italianistica della Yale University, oggi nella prestigiosa Columbia University negli U.S.A.),un inedito di Vittore Fiore che ha impegnato e ha fatto ruotare attorno a questo volume, energie intellettuali come Massimo Melillo, Domenico Fazio, Rina Durante e ancora Maurizio Nocera e Elio Coriano. Sempre rigorosamente con le sue forze cura Il Bardo, una rivista a distribuzione gratuita (militante ad onor del vero), con un inserto dedicato alla poesia dal titolo “Allestimento” che ha ospitato un inedito del poeta cileno Arturo Morales, di chiara fama internazionale. Di lui hanno scritto pubblicamente Antonio Errico, Paolo Valesio, Mario Cazzato, Antonio Tarsi, Ennio Bonea. Privatamente, numerose le lettere di stima poetica di Francesco Saverio Dodaro. Maurizio Leo è stato tra i primi a ricevere una scheda critica e a essere ospitato con alcuni suoi inediti poetici sul sito web di letteratura e poesia diretto da Luciano Pagano, e di cui sono redattore www.musicaos.it. Grazie a questa operazione editoriale, posso permettermi la piccola presunzione di poter dichiarare di avere una conoscenza completa di Maurizio Leo e la sua opera. Leggendo L’Uac, il suo primo lavoro del 1981, già si intravede chiaramente da alcuni titoli quali saranno le coordinate poetiche che daranno poi vita alla sua identità (Pre-morte, Post-mortem, Luce e Morte, Diversità, Disperazione, Danza di Morte, Il Vino Maledetto, Per i Sobborghi, LSD, Nel Buio, Inutilità) . Un canto di disperazione quello di Leo nel suo L’Uac, che si perde in un abissale eterno ritorno. Scrive lucidamente Antonio Tarsi: “ (…) Allora poi cosa resta ai piedi del monte? Nulla forse nulla e ricominciare sia pure confusamente e surrealmente non sembra neppure più possibile da tre, ma da chissà dove…”. Un discorso poetico comunque ancora incerto, mai immaturo, però come di chi non ha trovato il modo di stare in punta di piedi sul baratro. Poi da Dogmaginazione, del 1992, comincia la svolta, chiamiamola formale, sperimentativa, lessicale di questo autore. Un libro che è volontà di bottino, di raccolta, in cui i versi sono incarnazione dodecafonica della meraviglia presente nell’Attendere, non importa cosa … fosse solo anche l’attesa della Fine, a costo di pagare un prezzo altissimo. Successivo all’Albergo di Latta del 1994, raccolta di transito immaginativo in un universo altro della poesia, vede la luce un vero e proprio capolavoro: Fobia. Per definirlo occorrerebbe parlare di un vero e proprio saggio per versi sull’Empietà, in cui si assiste ad una scrittura slegata da qualsiasi legame alla realtà, agli oggetti, ai volti, alle storie, perché il corpo poetico si incarna in un’Apocalisse il cui fuoco brucia, disintegra e scioglie qualsiasi cosa vi si trova dinanzi, lasciandovi solo cenere: sublimazione del nichilismo par excellence. Riportiamone un brano per chiarire le idee: “Ho masticato i capelli dell’universo, saziandomi fino a scoppiarne moralmente. Non mi hanno fatto schifo! Questo lo dovevo pur dire. Quanto di più schifoso esiste che noi non sfioriamo? I cadaveri sprofondati nei sensi dell’essere,nei domini dell’irreale, certo non provano un forte sgomento, tra i nefasti miasmi di un’impresa comune. FINORA MI SONO SOLO INGANNATO. Ho bestemmiato fuggendo, con una ferita alla testa ela rabbia del linguaggio mi affrettava il passo; sono caduto in una pozzanghera, l’acqua era sangue, sangue vergine, sangue d’innocenti; fredda è la brutalità del cacciatore, che nell’inverno bianco, insegue l’uccello ai piedi di un castagno. Volgare terra, un giorno sarai sballottata tra le mura dell’universo,e quel giorno VOI, vi romperete la testa, e saranno sventure e maledizioni le corruzioni delle vostre moralità”. Ma Maurizio Leo, nella sua carriera di poeta, sembra seguire il desiderio di sorprendere i suoi lettori e non solo. Nel 1998 c’è un vero e proprio cambio di point of view, nell’orizzonte del Nostro, tanto che ontologicamente ed esistenzialmente rivoluziona i codici, i versi diventano sincopati, spezzati, quasi a voler rendere violenza alla Poesia, ma alla maniera di un coitus infinitus, come fece gia Allen Ginsberg o William Burroughs nel suo Nova Express . Già perché dal 1998 la dimora che Maurizio Leo sceglie per farsi vivere poeticamente, è la stessa di Hemigway, Faulkner, Kerouac, Bukowski, un tratto della storia della poesia internazionale, raccontata magistralmente nel 2005 da Fernanda Pivano nel suo The Beat Goes On , per i tipi di Mondadori. “ la macchina si è rotta/ mi hanno rubato il fegato/questa salita infinita/ senza una strada/ tristezza che si scioglierà in un sorriso/ queste scogliere/ come una camera da letto/ho consumato fiammiferi e sigarette/ sui tetti scorre l’acqua dei critici/ musica posa le mani/ ehi! Charles mi devi 40 dollari” (non suona più il jukebox nell’appartamento di Allen, 1998). Esiste però una strana coincidenza, forse metastorica, fortemente astratta, tra una svolta di tal sorta, a questo punto anche timbrico-ritmica, proprio a cavallo tra il 1998 e il 1999: la nascita dell’Hip Hop, che guardacaso, viene fatta coincidere convenzionalmente con la pubblicazione nel 1999 del singolo Rapper’s Delight da parte del gruppo newyorkese Sugar Hill Gang. Una sintesi, forse ai più potrebbe sembrare azzardata, assolutamente riuscita tra la cultura beat e quella della nuova cultura (in quegli anni ovviamente) afro-americana. Il risultato sarà Il Bazar delle parole scomposte (2002). Per la cronaca, nel 2000, Maurizio Leo, pubblica, continuando instancabilmente la sua attività editoriale, alcuni suoi versi nell’antologia dal titolo Absentia , la prima antologia di militanza scritturale, che ha pubblicato gli interventi di quei poeti che in quello stesso anno, hanno dato luogo a performances nei pub salentini come L’Old Crown di Copertino, il Sirtaki di Porto Cesareo, gli Addams di Lecce. Ma ritornando al Bazar delle parole Scomposte non a caso Paolo Valesio scrive nella prefazione: “E’ interessante per esempio vedere come in questi testi i lacerti di una certa retorica modernistica del Mediterraneo (…) si inseriscano in una prosaicità contemporanea post-industriale (dentro una sola immensa periferia del mondo), e vengano poi smistati a uno sfondo nordico-gotico tutt’altro che mediterraneo (…) Analogamente è molto beat-vagabondante”. Ma facciamo parlare i versi : “ ci siamo fermati nei gabinetti/ di un autogrill/ ermetici/ ci porteranno sulle nubi dell’inquietudine/ chissà se per domenica arriveremo/ all’hotel plaza/ nello spazio del silenzio/ nell’assurdo che ci spinge ad avanzare/ poi un cartello: accendete le sirene”. Nel suo ultimo lavoro dal titolo Il cimitero di memoria, Maurizio Leo sembra mantenere il suo trend di ricerca sintagmatica lavorando su di un’espressività poetica lacerante del dubbio, dell’angoscia, del lutto, della separazione. Recupera toni iperastrattamente poetici ma di una polarità negativa, producendo versi come se fosse un novello Aleister Crowley che scrive sotto la dettatura del demone Aiwass il grimorio maledetto “The Book of Law”. Il paragone non è inappropriato perché qualcosa di infernale si cela nei versi di Maurizio Leo, che riesce a costruire architetture poetiche dall’umbratilità goticheggiante di un Blake nel celeberrimo “Matrimonio del cielo e dell’inferno”. Maurizio Leo fa sua l’esperienza beat, pulp, assorbendone la matrice codificata nell’ambito dell’espressività letteraria quando scrive la gioia non è scomparsa/ non è scuro il mattone/ grondante di sudore/ non può erigerlo/ ma sono vere le lacrime dell’indiano alto due metri/ che nell’estasi scompare ma la supera creando un suo percorso dove il corpo poetico si sbriciola in abissi dove i ricordi, la memoria divengono abominii che scarnificano, lacerano una demografia perversa che annuncia il viaggio: “ Ci ritrovammo, fermi, innanzi alle croci del piccolo cimitero di Memoria. Pietre e croci. Legno e fiori. Polverosi viali e poi qualche filo d’erba. Attendemmo l’arrivo per poi ripartire. Attendemmo, in questa minuscola parte di mondo, in questo lembo di terra di nessuno. Qui di Memoria “. Al di là di una possibile ragione decodificativa sulla produzione poetica di Leo, esiste la metà oscura di tutta questa faccenda. Ebbene se dovessimo spiegare il perchè di un poeta beat, o post-beat, in un territorio come il Salento, lontano dai miasmi dei sobborghi delle grandi metropoli americane, o comunque distante da quelle città italiane che hanno avuto l’opportunità di ospitare mostri sacri della beat - come Genova che nel maggio del
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