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domenica 13 settembre 2009

Frammenti di un interno - romanzo anomalo di Vito Antonio Conte (Luca Pensa editore). Rec. di Silla Hicks



















Quando ti riesce di scrivere qualcosa di buono, non è perché la gente ne parla o vinci un fottutissimo premio. È perché quando lo leggono indovinano chi sei, o almeno ci provano: per questo, a parte Marcel, non credo ci siano persone che possano raccontare chiuse nella propria stanza di cose che non hanno mai visto, perché non le posseggono, e allora tutto suona stonato e falso, per quanto apparecchiato bene. Mi spiego: chi prova a scrivere, e lo fa seriamente – che ci riesca o no, è un discorso a parte – apre una finestra su di sé, prima che sulla storia. Se hai il tempo e la voglia di guardarci dentro, in controluce vedi l’autore com’è veramente, impietosamente, magari, come un cadavere livido sotto il neon dell’anatomopatologo. Vedi un gigante goffo e miope con la maglietta dei Red Sox, nelle pagine più riuscite di IT. Un signore straniero con una buffa barbetta a punta innamorato degli Uffizi, tra quelle dell’Incantatrice di Firenze. Una donna magra e disperata che vorrebbe un’altra vita e un altro corpo che non le siano entrambi prigione, straziata dietro l’ineffabile sorriso di fenice di Orlando.
In alcuni casi è più facile. Ci sono quelli come Hemingway, che raccontano la propria vita e le proprie storie – la guerra civile spagnola, la Parigi di Picasso e della regina Stein - per quelle che sono. Altri, come Roth, che ne prendono spunto e basta. Ma dietro c’è sempre qualcuno che scrive in quel modo e dice quelle cose perché sa di che sta parlando.
Altrimenti, è aria fritta. Non c’è immaginazione che tenga, se manca l’esperienza, se non si hanno i calli sulle dita. L’ immaginazione è solo un velo, e non può separarci dal nulla.
Per questo, questi frammenti di un romanzo mi restano impigliati, anche adesso che il libro l’ho chiuso.
Non è tanto la storia – a metà tra indagine e diario – ma il modo in cui è scritta, tra Herzog e Gadda, visionaria ma intrisa di tecnica esperienza, insieme Fitzcarraldo e la Meccanica, in cui il quotidiano si mescola inconsapevolmente alla storia che racconta, e ci sono canti in latino dentro cattedrali di pietra e termini come “anatocismo”, che sarebbe un sistema illegale di calcolo d’interesse, m’ha detto Luca, che fa il direttore di banca.
Non si leggono alla leggera, queste 114 pagine in pitch 12, come i racconti dell’Adalgisa che devi seguire il rigo per non perderti la parola chiave, non è il cut off di Burroughs – non ancora? - ma questo signore l’ha letto eccome, Burroughs, e si vede, come si vede che si suda ogni frase, che se la gira e rigira prima di lasciarla com’è.
Premetto: non è un giallo, non so se voleva esserlo, ma non è questo, questo libro, quanto piuttosto un train de vie, immaginifico e insieme concreto, perché questo signore non è uno che può permettersi di scrivere e basta, e se lo porta dietro, si porta dietro il suo lavoro normale, le sue giornate normali, e senza di questo non ci sarebbe storia.
E così vaffanculo se non tutto è credibile, vaffanculo se non si resta col fiato sospeso sulle tracce del serial killer e persino se l’impaginazione tirchia ha ridotto a sbarre gli a capo di pagina 90 e 91 ché la prosa poetica avrebbe meritato, perché io non capisco un cazzo di metrica, ho fatto 4 anni all’Istituto d’arte e mi guadagno da vivere con la patente, ma dentro queste righe c’è il ritmo di Capossela.
Può darsi che il 13 febbraio 2005 non sia successo niente, ma non ci credo, o forse è successo ma non in quella data, non lo so, in fondo uno scrittore s’inventa anche le cose che vive. Come so che “quella donna” c’è stata davvero, non avevi bisogno di precisarlo, c’è stata davvero e ci sarà a vita, ovunque andrai, perché nessuno che l’abbia incontrata può riuscire a scordarsela: al massimo, può sperare che l’ignori, e stare lontano dalle luci di Samarcanda.
Io, che non ho il tuo né nessun altro dio che mi abbracci, che l’ho incontrata a 17 anni e dopo cercata tante volte senza che si facesse trovare, ho smesso di crederci fino a degradarla ad interruttore, ma io sono un amante tradito che per sopravvivere deve smontare pezzo per pezzo lo sguardo in cui vorrebbe annegare, e anche se con una donna – per me, l’unica –non ci sono riuscito, con “quella donna” ho fatto un buon lavoro.
Ma questa è un’altra storia.
Quello che so, è che anche tu l’hai vista, e che ci sono cose che solo chi l’ha viste le può raccontare. Prima che vadano perdute, come lacrime, nella pioggia.

Quella donna e altre cose. FRAMMENTI DI UN INTERNO – ROMANZO ANOMALO DI VITO ANTONIO CONTE. Letto da Silla Hicks)

fonte iconografica: www.lucioangelini.splinder.com/archive/2007-11

lunedì 7 settembre 2009

IL PASTO DI BAD TRIP (Shake) di Angela Leucci*

La trasposizione a fumetti del romanzo di Burroghs non è solo un viaggio acido fedele all'originale, ma un classico straordinario da conservare in libreria. Tra “Tropico del cancro” e “Pubblicità per me stesso” magari.William S. Burroghs doveva aver visto “La zona morta” e “Videodrome”, quando decise di affidare a Cronenberg il proprio romanzo più celebre e controverso, “Il pasto nudo”. Qualche anno prima della sua scomparsa, un italiano, il prof. Bad Trip, al secolo Gianluca Lerici, rese la storia di “el hombre invisible” una graphic novel visionaria e surreale, pubblicata nel 1992 da Shake, con una straordinaria prefazione di Fernanda Pivano, scrittrice recentemente scomparsa e traduttrice di quelli che poi sarebbero diventati i classici della Beat Generation. “Quando in Italia è uscito The Naked Lunch è stata una burla – scrive – andavano tutti a ricercare i contenuti pruriginosi, possibilmente col cazzo in mano. In fondo, discendiamo dai canti Fescemnini”. Nel volume di Bad Trip, ciò che manca quasi totalmente sono proprio i contenuti pruriginosi: il disegnatore ha voluto insistere sulla spirale della violenza, sulle contraddizioni della società che sfruttano le debolezze della tossicodipendenza terminale. Il tutto condito con fantastici testi, di un’incredibile pregnanza di significato, ricalcati sui monologhi originali, accentuati da immagini particolareggiatissime, che rendono unico e individuabile lo stile di Bad Trip. Il disegnatore, scomparso nel novembre di tre anni fa, è ancora presente, anacronisticamente e forse in modo incoerente dal punto di vista contenutistico e concettuale, sulle copertine dei libri Mondadori, come quel “Ti prendo e ti porto via” di Niccolò Ammaniti. Leggendo la versione a fumetti de “Il pasto nudo” si ha l'impressione di compiere un viaggio lungo le strane e tortuose pieghe dell'animo umano, all'interno di un incubo atavico che racconta le nostre paure, la nostra solitudine; un libero arbitrio che a volte non porta libertà ma schiavitù. Il libro di Bad Trip è degno di stare tra i classici della letteratura, quelli da cui molti scrittori hanno preso senza restituire nulla in cambio e che, secondo i nostri umori, ci appaiono geniali oppure odiosi.

*redazione Talkink

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