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domenica 16 agosto 2009

Fortune e miserie del counseling filosofico. Di Mimmo Pesare (seconda parte)

















Scomposizione, ricomposizione, disamina e indagine. Attraverso questi quattro step, dunque, sarebbe possibile cristallizzare l’interpretazione di tutti i possibili casi umani e portare una soluzione ai relativi dilemmi. In questo modo, continua Lahav, sentimenti quali la mancanza di fiducia, il senso di melanconia, il pudore eccessivo e la sensazione di non farcela, lungi da una visione come quella di Hillman, secondo il quale tali passioni deboli sono altrettanto ricche e costituiscono chiavi di lettura privilegiate della propria anima, possono essere modificate in direzione cognitivista, armeggiando, cioè, all’interno della propria visione del mondo!
Al contrario della più condivisibile lezione di Achenbach, secondo il quale il counselling consisterebbe in una continua reinterpretazione di se stessi e del mondo, dunque in un’ottica ermeneutica, Lahav ritiene invece che la meta di tale pratica sia la formazione di un’immagine stabile di sé (cfr. p. 32), della propria vita, da adottare come visione del mondo nuova di zecca e che sostituisca la propria originale visione del mondo malandata. La consulenza filosofica, pertanto, costituirebbe una soluzione umanistica a chi “chiede un senso alla propria esistenza”. Questo, nell’opinione di chi scrive, rappresenta l’elemento di maggiore problematicità: un senso. Secondo Lahav la phronesis, la saggezza pratica che il counselling dovrebbe dispensare, sarebbe equivalente del senso, di “un” senso, ossia dell’unica chiave d’accesso a una normale razionalizzazione del proprio vissuto. Il’y a du sense, amavano ripetere negli anni Cinquanta gli esistenzialisti di matrice fenomenologica: c’è del senso, c’è un senso per ogni cosa e trovandolo si accede alla verità.
Probabilmente, però, la fluidità contemporanea di cui si diceva all’inizio, mal si presta a un tipo di rassicurante contenitore come quello suggerito da Lahav; pare difficilmente proponibile, oggi, una visione della saggezza come struttura soterica. Una salvezza preconfezionata e, in qualche modo, “impartita” appare né più né meno che una pallida versione laica dei catechismi elargiti negli oratori del boom economico italiano...poco cambia il fatto che tale approccio alla propria vita sia nobilitato dai contenuti alti del pensiero filosofico, poiché il messaggio di fondo è che esiste un senso come risposta alle cose, e questo senso viene dall’esterno. Tale concezione soterica del counselling mina alla base i processi dinamici di costruzione del Sé, che, invece che arroccarsi dietro i baluardi di una legittimazione di senso unitaria e salvifica, crescono e si strutturano attorno a una visione della propria vita quale racconto e costruzione graduale e continua, come nella lezione di Kohut (1978).
Risulta molto pericoloso, infatti, barattare un periodo di crisi personale con una soluzione cognitiva alle vicissitudini interne che il processo di crescita individuale impone come stepping-stone psico-emotiva. Questo perché se nella visione del mondo del consultante, la saggezza del consulente viene avvertita come antidoto ai propri malesseri, si va a colludere con la mancanza di senso del primo. Un esercizio come quello del counselling, pertanto, non dovrebbe rappresentare la nostalgia unificatoria in una presunta normotipia da “maestro di vita”; al contrario – e prendendo umilmente il contributo dell’epistemologia psicoanalitica – il counselling dovrebbe educare, servendosi dei concetti (e non di altri strumenti che non possiede) a un abbandono al pluralismo evenemenziale insito naturalmente nella casualità della vita umana. Quest’ultima, in senso profondo, è fondamentalmente una costruzione interminabile (Freud 1937).
Per questa ragione il pericolo più concreto che viene da una razionalizzazione del vissuto, come auspica il contributo di Lahav, è quello di creare un gap per il quale nei momenti di assenza di razionalità (e la vita quotidiana ne è piena!) la reazione emotiva del consultante sarebbe di burn-out, ossia caratterizzata da una impossibilità di contenere la situazione traumatica. Allo stato del discorso, dunque, si sarebbe di fronte a una dicotomia tra la tentazione di una saggezza soterica e sistematrice, da una parte, e una educazione all’abbandono nei confronti della multiformità della vita, dall’altra. Quest’ultima, nell’opinione di chi scrive, e seguendo la lezione di Kohut, costituisce una possibilità più concreta di contenere ed elaborare il proprio vissuto problematico; un atteggiamento, insomma, più che una “soluzione” (apparentemente) decisiva come quella di assumere una visione del mondo diversa dalla propria. Del resto, come riteneva lo stesso Jaspers (1919), ogni visione del mondo, non importa se espressa in forma mitologica o concettuale, inerisce all’intima esistenza di chi la professa e nell’esistenza di ognuno di noi coesistono le cosiddette situazioni-limite, cioè ossia quei “luoghi” in cui l’esistenza sperimenta lo scacco della ragione cartesiana, il naufragio verso il nulla ma insieme anche la possibilità di una esperienza di vita “autentica”:
Situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere irrimediabilmente la propria scelta, di dover morire (...) Esse non mutano in sé ma solo nel loro apparire; nei confronti del nostro essere hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a guardarle in faccia con coraggiosa chiarezza, senza poterle spiegare o giustificare in base a qualcosa. Esse sussistono con l’esserci stesso. (Jaspers 1932, p. 678)

Se, allora, la consulenza filosofica si deve rivolgere all’esistenza del consultante, questa deve essere interpretata in senso ermeneutico e secondo la sua chiave etimologica più profonda: e-sistenza come “posto eccentrico”, dove cioè, convivono situazioni “normali” e situazioni-limite. E siccome la filosofia “lavora” coi concetti e non con strumenti terapeutici che appartengono ad altre scienze, l’unico vantaggio che può venire da un approccio filosofico ai dilemmi umani è esclusivamente il riconoscimento di tali situazioni limite e la possibilità di “nominarle” attraverso i concetti. Come scrivono, infatti, Deleuze e Guattari (1991), “il filosofo non è chi dispensa saggezza, ma chi forma concetti” (p. 25).
I concetti, al massimo, possono essere elementi mediatori di come ci rappresentiamo il mondo e di come percepiamo il nostro vissuto, non certo produttori di Weltanschaungeen a domicilio. Per questa ragione, probabilmente, il ruolo del consulente filosofico come dispensatore di visioni del mondo, non solo mal si presta a una cura animi che deve necessariamente fare i conti con altri saperi e altre competenze (per non creare più danni di quanti ne voglia lenire), ma oltretutto cozza con lo stesso spirito originario della filosofia socratica, che tendeva a trarre fuori dal soggetto la propria personalissima saggezza e non, al contrario, a instillarne una, per così dire, “esogena”.
Del resto già Freud, nella lezione 35 dell’Introduzione alla psicoanalisi (1917), non mancava di esplicitare tutto il suo sospetto e il suo sarcasmo per un’accezione di Weltanschaung come sinonimo di “determinismo”; questo perché, secondo lo psicoanalista viennese, il lato più pernicioso di una visione del mondo intesa come antidoto alle insicurezze e alla sofferenza, è quello di presentarsi alla mente come una “macchina erogatrice di verità e norme” (p. 218). E la verità, secondo Freud, ha come suo contrario non la menzogna o la non-verità, ma la ricerca, cioè il nucleo stesso dello spirito filosofico. Se allora l’errore metodologico della filosofia è quello di sopravvalutare la portata conoscitiva delle operazioni logiche, un’esperienza quale quella jaspersiana delle situazioni-limite dovrebbe essere non solo “non risolta”, ma esperita quale sorgente di auto-chiarificazione e auto-interpretazione senza soluzione di continuità a vantaggio della propria peculiarissima costruzione interiore.
In questo senso, la consulenza filosofica non può sostituirsi alla psicoanalisi come sua versione light, né potrebbe probabilmente ritagliarsi un suo campo d’azione autonomo basato sulla “produzione e vendita” di visioni del mondo take-away o di “immagini stabili di sé”: la costruzione di sé è un processo fondamentalmente emotivo e non esclusivamente cognitivo – come si tende a pensare – , pertanto se la filosofia lavora coi concetti, un consulente filosofico che voglia rispondere coerentemente allo statuto epistemologico della disciplina che ha deciso di abbracciare, potrebbe essere più utile ai dilemmi di chi decide di affidarsi alle sue foucaultiane cure trattando i concetti come alleati (Deleuze, Guattari 1991) delle emozioni, cioè come catalizzatori e chiarificatori di esse, e non, al contrario, come strumenti di stabilizzazione e di correzione del vissuto personale della gente.


Bibliografia:

Achenbach, G, 2005, Il libro della quiete interiore, Milano, Apogeo.
Achenbach, G., 1984, Philosophische Praxis, Köln, Dinter.
Achenbach, G., 2001, Lebenskönnerschaft, Freiburg - Basel - Wien, Herder.
Achenbach, G., 204, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo.
Birnbacher, D.; Krohn, D., 2002, Das socratische Gespräch, Stuttgart, Reclam.
Contesini S., Frega R., Ruffini C., Tomelleri S., 2005, Fare cose con la filosofia, Milano, Apogeo, 2005
Deleuze G., Guattari F., 1991, Qu’est ce que la philosophie?, Paris, Minuit; tr. it., 1996, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi.
Dill, A., 1990, Philosophische Praxis, Fischer, Frankfurt.
Freud S., 1917, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, in ID., 1968, Gesammelte Werke, 18 vol., Frankfurt a.M., Fischer; tr. it., Introduzione alla psicoanalisi, in Id., 1969, Opere, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri.
Freud S., 1937, Konstruktionen in der Analyse, in ID., 1968, Gesammelte Werke, 18 vol., Frankfurt a.M., Fischer; tr. it., Costruzioni nell’analisi, in Id., 1969, Opere, vol. XI, Torino, Bollati Boringhieri.
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Jaspers K., 1919, Psychologie der Weltanschauungen; tr. it., 1950, Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio.
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Kohut H., 1978, The search for the Self, Madison, Conn., International Universities Press; tr. it., 1982, La ricerca del Sé, Torino, Bollati Boringhieri.
Lahav, R., 2004, Comprendere la vita, Milano, Apogeo.
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Màdera, R.; Tarca, L., 2003, La filosofia come stile di vita, Milano, Bruno Mondadori.
Marinoff, L., 1999, Plato, not Prozac!, Harper Collins, New York; tr. it., 2000, Platone è meglio del Prozac, Casale Monferrato, Piemme.
Marinoff, L., 2002, Philosophical Practice, San Diego, California, Academic Press.
Pollastri, N., 2004, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano, Apogeo.
Raabe, P. B., 2000, Philosophical Counseling. Theory and Practice, Westport, Praeger.
Raabe, P. B., 2002, Issues in Philosophical Counseling, Westport, Praeger.
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Rovatti, P. A., 2006, La filosofia può curare?, Milano, Raffaello Cortina.
Ruschmann, E., 2004, La consulenza filosofica, Messina, Armando Siciliano.
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Schuster, S., 1999, Philosophy Practice, Westport, Praeger.

venerdì 14 agosto 2009

Umberto Galimberti, La casa di psiche, Milano, (Feltrinelli). Intervento di Mimmo Pesare

Non è facile descrivere in poche righe questo lavoro di Umberto Galimberti, anzitutto perché se dovessi definirne la tipologia scientifica non saprei se indicarlo come saggio critico o come manuale.
In realtà quest’ultima definizione è difficilmente utilizzabile in quanto l’oggetto del libro, ossia la pratica (o consulenza) filosofica, non possiede ancora i caratteri di disciplina scientifica, per quanto da una decina d’anni in Europa, e da un po’ meno in Italia, si stia cercando di delinearne lo statuto teorico e di organizzarne la struttura. Probabilmente, il fatto che la consulenza filosofica stia diventando una issue, un argomento di discussione – a volte anche feroce – tra sostenitori e detrattori di una pratica che ancora stenta a percorrere un sentiero organico e unitario, è indice, quantomeno, di un interesse nei confronti di un modo alternativo di immaginare la speculazione filosofica. Nel senso che, al di là delle palinodie tra scuole, vulgate e lobby, sarebbe opportuno partire dal dato di fatto che un numero sempre più consistente di individui che hanno studiato filosofia, avverte l’urgenza di un indebolimento della sua aura di disciplina esoterica e intra-accademica, per provare a “far qualcosa” con essa. A questo proposito, il fatto che negli ultimi anni si stia consolidando una letteratura in merito (quasi tutti i titoli appartengono all’editore Apogeo di Milano), attraverso i libri di Achenbach, di Lahav, di Lindseth, e in Italia di Pollastri e di Poma, e la constatazione che in un universo ancora non disciplinato da albi professionali, esista più di una associazione che difende il titolo di detentore della formazione per quanto riguarda la nuova figura del consulente filosofico, rappresentano il sintomo di una costruzione concettuale progressiva e non senza dissidi interni. Il primo tassello per capire cosa dovrebbe – o vorrebbe – essere il counselling filosofico potrebbe essere fornito da una spiegazione per differenza.

Se infatti l’auspicato profilo del consulente filosofico costituirebbe una figura con provate competenze filosofiche e psico-pedagogiche teoriche (non cliniche!) che siano d’aiuto a singoli e a enti nell’affrontare problemi quotidiani (etici e non patologici), il rapporto deontologico con la psicoanalisi e con le psicoterapie in generale ne dovrebbe costituire il primo strumento di identificazione. Il counsellor filosofico non cura alcunché, non provenendo da una formazione medico-clinica, ma può diventare una figura di riferimento per tutta una serie di situazioni sociali o individuali in cui sia utile la capacità di interpretare nodi quali difficoltà di scelta, elaborazione di delusioni o dolori legati al mondo del lavoro o delle relazioni sociali, e, in generale, una abilità ermeneutica nei confronti delle situazioni quotidiane e dei nostri modi di affrontarne le difficoltà. Pur essendo chiaro come una figura del genere non possa curare individui nevrotici o psicotici, è importante definire in maniera netta entro quali campi e attraverso quali procedure epistemologiche questa nuova praxis possa trovare posto nell’empireo delle discipline, ancor prima che nel mondo del lavoro. Ebbene, Galimberti parte dalla premessa che il nostro tempo, l’età della tecnica, risulta caratterizzato fondamentalmente da una “insensatezza”, da una caduta della domanda sul senso dell’esistenza, che si esplicita in una percezione del dolore, della miseria, della malattia e dell’infelicità, radicalmente diversa da quella che era possibile avvertire nell’età pre-tecnologica. La domanda sul senso della vita che da millenni l’uomo si pone, oggi è diversa perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita ma dal fatto che “la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati”, al cui interno l’individuo si sente un mezzo in un universo di mezzi.



Insomma la tecnica, che filosofi come Heidegger, Jaspers, Anders identificavano come il destino della metafisica occidentale, sembra non avere altro scopo che il proprio impersonale autopotenziamento, tanto che “se nell’età pretecnologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica appaiono miserevoli perché privi di senso”. Per questa insensatezza, sostiene Galimberti, la psicoanalisi risulta impotente in quanto gli strumenti di cui dispone scandagliano il non-senso quotidiano di una vita malata di sofferenza; qui invece è la sofferenza a essere determinata da un non senso che non appartiene all’individuo, ma a uno scenario antropologico globale che ha determinato un disagio della civiltà contemporanea e che, dunque, necessita di comprensione, più che di cura. Gli strumenti filosofici, allora, possono restituire una riappropriazione del senso dell’esistenza nella sua accezione più allargata, quella cioè di un destino comune che l’umanità si gioca contro una sofferenza non più solo individuale, ma fondamentalmente collettiva, dalla cui morsa non si esce con una cura ma con una riconciliazione nei confronti dell’esperienza del dolore. Questo è non solo costitutivo della vita, ma rappresenta la condizione che ci mette di fronte al nostro limite mortale, ovvero l’impossibilità di scelta, l’ineludibilità della sofferenza e della morte, di cui l’angoscia è l’avvisaglia.



Ma se le pratiche psicoterapeutiche colgono l’angoscia nevrotica nell’eziologia del passato del paziente, la pratica filosofica coglie l’angoscia esistenziale non attraverso l’analisi di una sintomatologia, bensì in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell’esistenza percepita come assoluta precarietà. “Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire” scrive Galimberti. E la dice attraverso il discorso della grecità classica e della sua antropologia filosofica basata su un rapporto con gli dei dell’Olimpo che non rappresentava una vera e propria fede religiosa, ma un monito continuo a vivere “secondo misura” (katà métron) e all’insegna di quella virtù (areté) che è in primo luogo eccellenza, ovvero realizzazione della propria natura e atteggiamento indomito verso di essa. Galimberti contrappone a una tradizione etica giudaico-cristiana, un’etica propria della cultura greca.



La prima – la cui laicizzazione è rappresentata dalla stessa psicoanalisi – interpreta il senso dell’esistenza come un’espiazione di una colpa e quindi vede nella sofferenza un passaggio temporaneo e identifica la stessa vita terrena come malata, patologica, mentre la seconda iscrive la sofferenza umana in un orizzonte liberato da quella pedagogia del dolore di Francesco di Sales, in cui elementi quali l’abnegazione di sé, il portare la croce, l’attesa della salvezza, siano il viatico di una presunta liberazione futura, ma, al contrario, all’interno di una condizione di consapevolezza per la quale il dolore è sentito come l’ineluttabilità di una legge di natura. Per corroborare questa tesi, Galimberti delinea, nella parte centrale del libro, una intelligente storia analitica della psicoanalisi e dell’ermeneutica filosofica attraverso un ricchissimo excursus che parte da Nietzsche e Freud, passa per Lacan e Jung e attraverso la trattazione dell’analisi esistenziale di Binswanger e di Jaspers, arriva alla costruzione di un discorso sulla cura del sé e sull’etica del viandante. In questo senso il libro può essere considerato quasi un manuale ante litteram per una disciplina che necessita di sistemazioni teoretiche, e la ricchezza storiografica con la quale si dà atto del cammino che la psicoanalisi ha compiuto fino a oggi, rende un valore aggiunto a un testo che vale quanto pesano le sue 460 pagine.

Strano, che proprio uno studioso che, oltre che filosofo, è anche psicoanalista junghiano, abbia realizzato questa amorevole invettiva nei confronti di una pratica come quella psicoanalitica che, probabilmente, dopo più di un secolo dalla sua nascita, pare richiedere una sdrammatizzazione e un addolcimento umanistico.

sabato 18 aprile 2009

I vizi capitali e i nuovi vizi: analisi di Umberto Galimberti (Feltrinelli). Di Maria Beatrice Protino

Il filosofo riprende una tematica già affrontata in alcuni articoli usciti su Repubblica e descrive il mondo contemporaneo attraverso i suoi vizi con un messaggio sociale che consegna ai lettori.


Il vizio ha sempre goduto di maggior interesse rispetto alla morale: è più interessante scoprire quale sia la perversione di una persona piuttosto che la sua morigeratezza: , scrive Galimberti nel suo saggio pubblicato da Feltrinelli.
Identificati come da Aristotele, come nel Medioevo, come espressione della tipologia umana nell’Età dei lumi, appaiono infine come manifestazione psicopatologica nel Novecento. .
Ma l'autore distingue anche tra le due . La prima è quella del soddisfacimento dei bisogni e quindi dei vizi, perché per soddisfare l'esigenza del vizio l'individuo deve consumare; la seconda è la morale della mortificazione di questi bisogni. Per questo motivo non può esistere un’economia cristiana. Come conciliare le due cose? . Se le due morali, quindi, sono incompatibili - si tratta di due etiche diverse e contrapposte, per cui la morale cristiana ha esaurito la sua storia nel momento in cui la società è passata dallo stato del bisogno allo stato della soddisfazione del bisogno - è anche vero che si è creato nella coscienza collettiva contemporanea un .
Se si evitano i trucchi, invece, si possono analizzare i sette vizi capitali - ira, accidia, invidia, superbia, avarizia, gola e lussuria – e a questi aggiungere anche nuovi vizi che nascono solo nella società contemporanea perchè sono il frutto delle mutate condizioni economiche in cui viviamo: se si possono rileggere i vizi capitali alla luce della contemporaneità come devianze della personalità individuale, i cd nuovi vizi coincidono con "tendenze collettive" a cui l’individuo riesce a opporre solo una debole resistenza, pena l’esclusione sociale.
E allora Galimberti individua il consumismo, frutto del benessere economico, il conformismo o omologazione ad un modo di vivere comune, la spudoratezza e la sessomania - -, la sociopatia, il diniego o l’indifferenza (velata la polemica all’indifferenza verso alcune scelte politiche attuali) e il vuoto, il vizio per eccellenza dei giovani.

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