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lunedì 18 maggio 2009

La musica delle pianure di Robert James Waller (Frassinelli). Rec. di Vito Antonio Conte

S'alza un vento freddo che spira forte da Nord-Est. I vetri della mia porta-finestra che guarda sull'hotel di tanti scritti tintinnano, quasi tremano. Come quella mosca, che preannuncia primavera, ch'è rimasta dentro e zampetta verso la luce. “Aspetta Primavera, Bandini”, direbbe il buon caro John Fante... Charlie Parker, col suo “Parker's Mood”, ha amplificato lo struggimento delle ultime sedici pagine del libro che ho appena finito di leggere. In particolare, “Funky Blues” (Hodges, una Jam Session di minuti 13 e secondi 27) ha carezzato un momento che poi vi dirò. Adesso, mentre scrivo, bevo un drink che mi sono preparato con dry gin, acqua, limone e zucchero. Di per sé non è granché, ma le giuste dosi fanno sì che sia quel che serve al mio stomaco e alla mia testa. Aggiungo vizio a vizio, accendendomi un'altra sigaretta, nel mentre le note ora sono quelle di “A Night In Tunisa” di Dizzy Gillespie, ché di jazz ho bisogno ancora. E d'altro, a dio piacendo. Di poc'altro, invero. Un pick-up e una lunga strada sterrata che scollina tra orizzonti perduti. Punti di vista. Lui, l'autore del libro di cui sopra, intanto, di già vive in un ranch sperduto tra le montagne del Texas... Anni fa ho letto “I ponti di Madison County” (e, tempo dopo, visto l'omonimo film con Clint Eastwood e Meryl Streep), poi “Valzer lento a Cedar Bend” e “L'ultima notte a Puerto Vallarta”. Altre strade sterrate, lo stesso pick-up. L'avrete capito, parlo di Robert James Waller, che stavolta mi ha rubato qualche settimana con “La musica delle pianure” (titolo originale “High Plains Tango”, pagg. 366, Frassinelli Edizioni, Collana I Blu, trad. di Alessandra Petrelli, € 19,50). La storia si presta a un'altra trasposizione cinematografica, non tanto per i dialoghi (scarni e essenziali), che necessiterebbero di una buona sceneggiatura (e, per questo, quelli del libro sono di ottima fattura, restando fedeli alla scrittura propria di un romanzo), quanto per la singolarità del protagonista, anzi dei personaggi che questa storia fanno vivere e pulsare, ognuno con la sua personalità alquanto ai margini di quel che quotidianamente si vede in giro per le frenetiche strade del falso vivere: di quello reale e di quello virtuale della televisione. La forza dei personaggi, infatti, è tale che l'avvertenza circa l'opera di fantasia vale soltanto per chi non sa vedere oltre quello stupido vivere. E non mi ripeterò dicendo che la fantasia -spesso- supera la realtà e -a volte- l'anticipa. C'è che, in questa gran confusione generata tra commistione insulsa di quotidianità (fatta sempre più di passi pesanti e sguardi spenti) e reality “dituttitipi” (che mal-educano al tutto e subito, dove tutto sta per niente e subito sta per in culo al resto), poco spazio resta alla fantasia, quella ch'è sogno coltivato con progettualità rinunce pazienza entusiasmo sacrificio competenza gioia e sudore e che -piacendo a qualcuno- puoi -in fine- toccare e far toccare. E ch'è destinato a restare nel Tempo. Questo libro inizia (vedi un po' il caso) con un pick-up, il cui conducente lascia il nastro d'asfalto di una statale del cazzo degli Stati Uniti d'America e imbocca una strada sterrata in cerca di un luogo possibile, di un posto dove sia ancora possibile, di un angolo dove sia possibile... VIVERE. Senza i rumori della vita imposta dal consumismo. Senza i rumori della vita imposta dalla televisione. Senza i rumori della vita che non è vita. Carlisle è uomo del nostro tempo che vuole uscirne. È mastro carpentiere, con una laurea presa per far piacere a sua madre, che ha vissuto l'assenza di un padre e che ha lasciato qualche ricordo in qualche donna che l'ha lasciato o che lui ha lasciato, ché così doveva andare. Deve tutto (o quasi) a Cody Marx, dal quale ha appreso l'arte di costruire una casa con la lentezza ch'è madre dell'attenzione e prossima congiunta del sempiterno. Ch'è poi l'arte di vivere una vita assaporandone in pieno il gusto. Nel bene, come nel male. Il luogo è quello che non esiste. “È qui, in una città chiamata Salamander, che approda Carlisle McMillan... alla ricerca di un luogo di pace in mezzo all'implacabile ruggito del progresso. E, stregato dai mille suoni che il vento porta con sé, voci antiche di flauti e tamburi, di fantasmi di popoli, decide di fermarsi”. E qui, tra leggende pellirosse che ancora si muovono di notte tra le fiamme di un fuoco acceso sull'altura del Wolf Butte nella danza di una donna come se ne può incontrare (se va bene!) una in tutta un'esistenza e negli occhi di un vecchio indiano (di quelli che nemmeno se va bene puoi incontrarne ancora) e bieca ignoranza del passato che non ti fa stare nel presente e ti fa vedere nel futuro quel che altri vuole che tu veda, accade che incontri un universo di uomini e donne che camminano senza lasciare impronte e poc'altri uomini e donne che delle tracce del cammino continuano a fare motivo di lotta per affermare quella possibilità di cui dicevo sopra: quella che ti fa sentire ogni respiro: proprio e altrui. Quella che porta alla condivisione di sé con l'altro e con lo spirito della Terra. Quella che è difficile fuori da un romanzo, ma che un romanzo può ricordarti che da qualche parte c'è se hai ancora voglia di trovarla. E non vi dirò della polvere che bisogna ingollare per cercarla. Né vi dirò d'altro. Né, soprattutto, di tutti i veleni che ci uccidono e uccidono questa Terra. E di chi li sparge sotto, intorno e sopra le nostre teste. E, fuor di metafora, basta guardarsi intorno... e non cado nello scazzo che tali pensieri mi danno, ché sennò ci vado pesante un'altra volta e poi non mi pubblicano... che le invettive bisogna calibrarle... In questo libro c'è anche questo. E altro. Ora, io non so se Waller è un gran paraculo che ha capito come fare i soldi per starsene nel suo ranch nel Texas alla faccia di chi, come me, compra e legge i suoi libri, ma so che, una volta ancora, ha toccato quella corda che allenta ogni controllo fino a liberare le mie lacrime: è successo a pagina 355, intanto che il vento batteva forte sulla mia porta-finestra e una mosca preannunciava la primavera. Sarà anche colpa sua? Della primavera, intendo. Non lo so. Provate a leggere questo libro. Adesso posso fare altro: tipo: cercare il mio pick-up.
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lunedì 4 maggio 2009

Su John Fante. Intervento di Vito Antonio Conte

E... poi me ne sto in letargo per lunghi momenti. Mai quanto vorrei. Davvero. Come l'orso nella tana intanto che fuori l'inclemenza del tempo fa il suo. Così vorrei. Mi accontento di lunghi momenti. E faccio cose indicibili. E bellissime. Qualche tempo fa (questa posso dirla) ho rispolverato la mia (scarna) collezione di LP, vecchi vinili 33 giri, e tra questi: Teddy Pendergrass, Tiny Bradshaw, Randy Crawford, Count Basie, Jim Croce, Teddy Wilson, Paolo Conte, George Thorogood, Led Zeppelin e... King Crimson: “The Compact King Crimson”: un album doppio che raccoglie il meglio di questo gruppo e che allora non ho potuto ri-ascoltare perché il mio piatto-stereo l'avevo portato da tempo in campagna e, comunque, è (tutt'ora) privo di “puntina”... ho ordinato il CD dove ci sono i pezzi che amo di più: “In The Court Of The Crimson King”; adesso lo ascolto a go-go. Un'altra volta ho tirato giù tutti i libri della mia biblioteca: migliaia... In fine, ho ridisposto (secondo un ordine diverso da quello precedente) volume dopo volume nelle librerie fin quasi all'alba... Ogni tanto penso di liberarmi di ogni cosa. Talvolta l'ho fatto. Quella volta dei libri, pensavo: e se vendessi l'intera biblioteca al tizio romano di Ponte Milvio? Poi me ne sto in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Alla lettera “effe” c'è ancora Fante, John Fante... Ho letto i libri di John ché me l'ha consigliato Charles. Posso leggere mille e mille poesie di altrettanti poeti, ma quando rileggo un solo verso di Bukowski, ogni volta, mi dico: questa è la poesia che amo di più. Il resto è tale. Residuo. Capite perché quando Bukowski dice che tra i pochi che val la pena di leggere c'è Fante, gli credo. Se Fante “circola” ancora è soprattutto merito di Hank (tra l'altro, lo ha citato in “Donne” e gli ha dedicato una raccolta di poesie). Di “Dago Red” (Einaudi, Stile Libero) ricordo (chissà perché) l'ultimo racconto, “Ave Maria”, e sul libro non c'è traccia del passaggio dei miei occhi e delle mie dita. D'altro sì. A pagina 231 di “Chiedi alla polvere” (Einaudi, Stile Libero) c'è scritto: “7 giugno '05, ore 13:59, se / qualcuno / parla / male / della / mia / poesia / c'è...”, che non so più perché l'ho scritto. A pagina 238 di “Aspetta primavera, Bandini” (Einaudi, Stile Libero) è annotata una data e un'ora: “23 agosto 2005, ore 10:50”. A pagina 228 di “La confraternita dell'uva” (Einaudi, Stile Libero), secondo altri “La confraternita del Chianti”, c'è soltanto una data annotata a matita: “2.9.2005”. A pagina 154 di “Sogni di Bunker Hill” (Einaudi, Stile Libero), con una biro a inchiostro azzurro, ho annotato, tutto a lettere: “è il quattro settembre duemilacinque, c'è un cielo nuvolo e triste, neppure un alito di vento, alle diciotto e trentasei il fumo della mia sigaretta ruba l'aria residua, la mia bmw ha problemi di carburazione (forse il ciclere di minimo?), il sudore appiccicato sul viso, più tardi a Sud (ancora), verso le Centopietre...”. Pagina 152 di “Full of Life” della Collana Tascabili di Fazi Editore era bianca: sopra c'ho scritto: “16.9.2005, John bella storia, sei (non eri) forte... davvero (...)”. A pagina 206 di “A Ovest di Roma” (Fazi Editore, Collana Tascabili), dopo l'ultimo rigo del romanzo (“Era l'alba quando tornammo a casa”), è scritto (sempre di mio pugno) “24.X.2006”. Nient'altro. Appena dopo l'inizio di questa primavera ho finito di leggere “Un Anno Terribile” (Fazi Editore, Collana Tascabili, pagine 142, € 7,74) e in nessuna pagina è annotato alcunché: dirò qualcosa adesso. Qualcosa in più delle -a dir poco- lapidarie notazioni sui libri su citati. Sempre meno di quanto hanno già notato Gianni Amelio, Emanuele Trevi, Vinicio Capossela, Niccolò Ammaniti, Domenico Starnone, Fernanda Pivano, Alessandro Baricco, Sandro Veronesi e altri ancora. Sempre meno. Ché, lo sapete, a parte tutto, mi piace sottrarre. Non vi dirò, quindi, che Fante è considerato tra i maggiori scrittori del Novecento americano, né che di lui e della sua scrittura si sono occupati, a diverso titolo, critici, artisti, scrittori e laureandi, i quali ultimi hanno speso la loro passione per le sue opere trasfondendola nelle loro tesi di laurea. Vi dirò, invece, di questo romanzo breve, inedito finché Fante è vissuto e pubblicato postumo per volere di sua moglie Joyce. Intanto c'è una bella copertina: “New Kids in the Neighborhood” (1967) di Norman Rockwell: tre ragazzi, due maschi e una femmina, davanti alla grossa ruota posteriore sinistra di un grande furgone (postale?) color avorio e, con loro, un cane seduto che rievoca un altro titolo fantiano: “Il mio cane Stupido”. Uno dei tre ragazzi è abbigliato da giocatore di baseball. E non è un caso. Tutta la storia di “Un anno terribile”, infatti, ruota intorno al diciassettenne Dom Molise e al suo Braccio mancino. Un ragazzo di umilissime origini che sogna di diventare un giocatore professionista di baseball, nonostante tutto il mondo, dal microcosmo in cui vive a quello che ancora ignora e che un giorno (sogna) non potrà fare a meno di parlare di lui tanto diventerà famoso, gli giri contro. Lo si comprende subito dall'incipit del romanzo: “Era duro, l'inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi” (mi ricorda qualcosa che non dirò per non citarmi addosso). Dom Molise è un lanciatore e non c'è avversità che possa distoglierlo dal sogno del baseball, non v'è umiliazione che possa ferirlo fino a far annichilire quel desiderio, non esiste condizione -per quanto miserrima- che possa far naufragare quell'illusione. Non il padre muratore disoccupato da mesi, non la madre ferita dall'assenza del marito, non la nonna e il suo dialetto abbruzzese sputato contro ogni cosa di quella giovane America, non i fratelli molto più concreti di lui, non la povertà amplificata dal tenore di vita del suo ricco miglior amico, non l'amore non corrisposto e irriso per Dorothy, non l'apparizione della Vergine Maria... “Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze. Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga”. Questo libro (che Fante non volle pubblicare perché pur ritenendo il “materiale attraente” non stimava la storia “importante”), come tutti i libri di Fante, disvela un'altra parte della sua vita e, una volta ancora, l'odio-rancore-amore verso il padre e la sua famiglia d'origine. Questo libro è l'ennesima ricerca della storia di una saga famigliare, cui non è celata nessuna sfumatura, ma nel quale -anzi- si rinvengono pezzi che s'inseriscono perfettamente nel grande puzzle della scrittura di Fante e ne completano un'epopea. Chi vuol saperne di più della vita e della leggenda di John Fante legga (anche) la particolareggiata biografia scritta da Stephen Cooper “Una vita piena” (per i tipi di Marcos y Marcos, 2001, pagine 327, € 18,08). Adesso lascerei scorrere “I talk to the wind” ...poi me ne starei in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Ma voglio dirvi un altro paio di cose: la prima: “e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell'epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela”. La seconda: mi accade, da un po' di tempo, di associare l'aggettivo “terrìbile” alle cose più importanti e più belle di questa esistenza e... non so cos'è (o, forse, sì); e chissà perché mi viene in mente che un giorno del 1980 Hank (Bukowski) andò a trovare John in ospedale (già minato dalla malattia che lo avrebbe progressivamente reso cieco, privato -per amputazione- delle gambe e portato altrove...) e (riferendosi a Camilla Lopez, splendido personaggio di “Chiedi alla polvere”) gli chiese: , Fante gli rispose: . Li vedo ancora ridere di gusto insieme. Circa tre anni dopo, l'otto maggio millenovecentottantatre, alle tre del meriggio, John si confuse con le rondini nel cielo che odorava di primavera. Qui, la primavera (ormai, mi dicono) porta soltanto rondoni. Io continuo a vedere le rondini.

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