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sabato 26 ottobre 2013

IL LIBRO DELL’AMORE PROIBITO DI MARIO DESIATI (MONDADORI). In libreria!



Francesco, detto Veleno, timido e solitario, fino ai quattordici anni è vissuto immaginando vite eroiche e ammirando i coetanei più intraprendenti. Il suo universo quotidiano, nel paese pugliese dove vive, è quello della scuola, con regole e muri che sembrano fatti per essere invalicabili, non certo per nascondere gioie proibite. Fino all’incontro con Donatella Telesca, professoressa di Educazione tecnica. Lei ha il doppio degli anni di Veleno, eppure veste in modo più simile a lui e ai suoi amici Mimmo e Nappi che alle altre insegnanti. Ha la pelle candida, ma nasconde un’ombra che agisce come una calamita sui suoi giovani allievi, siede tra i banchi, ascolta i ragazzi, li guarda come nessuno ha mai fatto prima. Nasce un’attrazione irresistibile, destinata a essere scoperta nel clamore dello scandalo. Veleno scopre allora una solitudine più profonda, l’isolamento di chi supera la linea d’ombra dei sentimenti leciti, e contro la famiglia, contro la norma che gli impedisce di amare, costruisce il suo onore, il futuro, la sua legge che non umilia né separa. Veleno saprà aspettare, costruirà tutto intorno al silenzio dell’attesa, e con gli occhi rinnovati dal desiderio si accorgerà di essere circondato da amori che sono tali proprio perché proibiti... Scritto per frammenti affilati come gli spigoli d’ombra che si stagliano nel sole del Sud, rapsodico ed emozionante come la memoria di una stagione perduta, Il libro dell’amore proibito è un romanzo sul desiderio, sugli amori impossibili e la cieca, folle fedeltà a un sentimento che non ha barriere


MARIO DESIATI (1977), è cresciuto a Martina Franca e vive a Roma. Ha pubblicato la raccolta di poesie Le luci gialle della contraerea (Lietocolle 2004, Premio Viareggio per l'opera prima). Come narratore ha esordito nel 2003 con Neppure quando è notte (peQuod) e ha pubblicato in seguito, con Mondadori, Vita precaria e amore eterno (2006), Il paese delle spose infelici (2008) e Ternitti (2011, finalista Premio Strega).

COLLANA     Omnibus italiani
PAGINE         200
PREZZO         17,50 euro



Un estratto - “Se voi della giuria non ritenete le vostre passioni al di sopra di ogni divieto, vuol dire che non avete mai amato. Non avevo l’età per simili certezze quando, il primo giorno di terza media, fui invitato dal professore di Storia e Geografia a sedermi nel primo banco assieme al pluriripetente e scapestrato Cosimo Nappi. Da tale trascurabile azione sarebbe poi scaturita una serie di eventi conflagrati nello scandalo cittadino di tutti gli anni a seguire. Per raccontarvelo sono venuto nel luogo delle mie preghiere, laddove mi arrovello su bellezza e desiderio. Quando sono in imbarazzo faccio un gioco d’immaginazione e penso di stare tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui m’inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste agli occhi di voi giurati, uomini retti immuni da ogni scandalo, e forse passione. In questo rifugio torna incessante un insegnamento che serbo come un gioiello antico tramandato dai miei antenati. Quando ero bambino restavo a lungo da solo. Una volta, eravamo nei nostri trulli, mia nonna Comasia, dopo avermi condotto innanzi a un muro, mi confidò che se volevo conoscere fino in fondo cos’era la gioia avrei dovuto trovare un ostacolo da scavalcare. Ero cresciuto circondato da mura, chiuso in casa o nel recinto di pietre a secco della campagna in cui vivevamo durante l’estate. Avevo imparato a farmele amiche. Amavo i muri che dividevano la vigna dalla strada. Costruiti pietra su pietra senza malta o stucco, erano mondi a parte perché tra gli interstizi vivevano bisce, lucertole, scoiattoli, porcospini, colonie di formiche che disegnavano percorsi insondabili, rovi di more e cespugli di corbezzoli. E così quel muretto a secco alto un metro e mezzo era la vita. Il segreto più importante che mia nonna rivelò indicando l’erba rampicante che da terra risaliva lungo la pariete era proprio lì davanti ai miei occhi. E, con l’autenticità di certi insegnamenti che arrivano a segno quando sono impartiti senza piena consapevolezza, disse: «Prendi la gioia più grande, l’amore. L’amore è come l’edera, ha bisogno di un muro per crescere». La via nera di pietra lavica sale verso il porticato, sulla sinistra uno spigolo di calce bianca sorvegliato da un lampione di ferro battuto. La porticina somiglia a una bocca e la facciata a un tetragono monolite dell’Isola di Pasqua. Varcato l’ingresso della chiesa, nella navata spicca la sobria solennità dei semplici: stucchi, noce e incenso. I banchi smaltati scintillano, l’altare di pietra d’Apricena acceca, un pulpito di legno nasconde una scaletta. Percorrendola si arriva alla postazione dell’organo elettrico. La chiesa è dedicata all’Addolorata. Cercatela pure con lo sguardo, ma non troverete nessuna statua della Madonna. È il tesoro, e come tutti i forzieri preziosi viene tenuto lontano da occhi indiscreti e soprattutto infedeli. L’Addolorata è una cappella di identiche dimensioni della chiesa, un perfetto doppione costruito pietra su pietra, sedile su sedile, altare su altare, e addirittura tabernacolo su tabernacolo. Vi si accede da una scala segreta dietro una parete mobile, con gradini così ripidi da doversi aiutare con le mani. Chi mi precede assume la posizione di un alpinista o uno scimmione, non di un fedele. Il corrimano pare una pertica, il soffitto basso incombe con la gravità delle caverne. La cappella al piano superiore è azzurra, forse chi l’ha dipinta ha pensato che fosse meno distante dal cielo. I banchi sono verni ciati d’azzurro e anche il soffitto è azzurro, come il mozzetto – il copricapo che indossano i confratelli nelle lunghe, estenuanti processioni. L’altare è bianco, una lastra di superficie candida, effetto ghiaccio, posata su un tronco di legno glitterato. Accanto all’altare, una grande teca di legno, ancora azzurra, e lì Maria Addolorata. È una donna sui venticinque anni, non sembra addolorata, ma altera, una smorfia sulle labbra, lo sguardo avanti, l’acconciatura del velo nero che si articola in una dozzina di pieghe, i pizzi e i broccati che avvolgono le spalle e scendono sul busto e sulle gambe con l’esuberanza di una colata d’oro fuso. Indossa il mantello viola che richiama il tempo ordinario dell’anno ecclesiastico. Ogni mese due uomini salgono nella chiesa azzurra, preparano la celebrazione della domenica successiva, che si svolgerà a piano terra. La messa qui è un rito speciale, partecipano soltanto i maschi più vigorosi della congrega, gli stessi dotati della forza e resistenza necessarie per trasportare la statua della Madonna lungo la processione al termine della Quaresima, che dura due giorni. Sono votati ai Dolori di Maria, come dichiara il decreto istitutivo dell’oratorio. I due uomini che si stanno per occupare della manutenzione della statua sono entrambi volontari di un’associazione di genieri. Hanno con sé una valigia, da lì estraggono robe che profumano di sapone e pulito, le depongono sulla prima panca sotto l’altare. Aprono il chiavistello di ferro della teca e, mentre la portafinestra si spalanca con un cigolio, trascinano fuori Maria Addolorata per spogliarla. Compiono i gesti con lentezza, immettono in ogni movimento una precisione che per loro è devozione. Il mantello, i broccati d’oro, i pizzi, l’abito cadono giù, la statua resta nuda, sembra il manichino di un supermercato, ha perduto il fascino e lo sguardo altero. Il miracolo della statua è nei vestiti che indossa. Il sacerdote ha fatto irruzione, «No» li rimprovera. «Vestitela abbasc’» comanda ai confratelli senza rivolgere uno sguardo alla Regina, intimorito di poterla vedere senza abiti. I due uomini sono tarchiati, rubizzi. Stavano al radiocomando dell’Italsider, guidavano il carroponte, sovrintendevano agli spostamenti all’interno della fabbrica, hanno visto alcuni loro amici tranciati dalle lame d’acciaio nella notte. Si sono votati in tempo all’amore mariano, prima che calasse la lama della sorte. Affidarsi all’Addolorata per loro è una religione, dedicarsi alla cura di una statua di legno e dei suoi vestiti. La pregano, si segnano e portano quei vestiti impregnati di umido, incenso, polvere alla moglie o alla madre. Se la messa è abbasc’, a loro spetta un compito che pochissimi uomini riescono a portare a termine. Produce inquietudine e un piccolo, segreto piacere da non condividere: il senso di responsabilità, compiere un gesto che nessuno deve conoscere. La Madonna è troppo alta per passare per le scale, e i genieri la spostano al centro della chiesa azzurra, nello spazio tra l’altare e i banchi, uno le tiene ferme le gambe, l’altro l’avvolge con le braccia, come volesse danzare con lei. Il geniere più anziano vive da solo, si è consacrato a Maria, l’unica donna della sua vita. La sua dedizione sfocia quasi nella mania che hanno i solitari, i puri di cuore, i pazzi. Le dà un bacio alle ginocchia, poi l’altro spinge il corpo. S’avverte un colpo secco, il giro in senso antiorario, la statua che stride. L’uomo che tiene in basso le gambe suda, abbracciato al mistero che nei giorni della settimana santa percorre la città e fa segnare migliaia di uomini e donne. L’uomo consacrato a Maria sta facendo girare il busto dal bacino, che ruota fino a svitarsi. I respiri dei due maschi si fanno concitati e pesanti, il fiato caldo della fatica è come se arrivasse sotto forma di vapore alle mie narici, mi scalda i capillari del viso. Maria Addolorata è divisa in due, smontata, il meccanismo carrucolare in mostra, un dente di legno che spunta dal grembo aperto. L’uomo in ginocchio, innanzi alle gambe di Maria, non è consacrato alla Madonna come l’altro confratello anziano, ha una moglie, una sorella e dei nipoti. Uno sono io, assisto alla vestizione e alla scomposizione della Maria Vergine Addolorata da anni. Sin dalla prima volta, quando ero un bambino, ho imparato che esistono amori impossibili, ma talmente grandi e innominabili che non si possono spiegare. L’uomo tremante davanti a Maria Vergine Addolorata, che ogni anno nelle feste di devozione si veste con un sacco bianco e la mozzetta azzurra, la corda stretta in vita, è innamorato di una statua, ma non potrà mai raccontarlo a nessuno. Deve accontentarsi di metterlo in scena durante la settimana santa.”

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