Andiamoci piano. Perché il
pregiato libro che abbiamo sotto le mani va ‘descritto’ con meticolosità;
almeno nella dose usata da chi l’ha fatto: dagli autori dei racconti che lo
compongono, all’autore della prefazione ai professionisti tutti dell’editrice che
l’ha portato in stampa. Intanto – appunto - la copertina, di “Zoo a due”,
firmato da Marino Magliani e Giacomo Sartori. Perché è sviluppata su un disegno
d’Andrea Pazienza. Dove due volatili in bianco e nero si coccolano appoggiati a
un ramo. Evidentemente a simboleggiare l’amore. Ma potremmo (pure) allargarci
indicando, quale emozione e sentimento, insomma un (po’) valore, persino
l’amicizia. Mentre la prefazione dello scrittore Beppe Sebaste, competente e
impeccabile come un riuscito saggio breve – a presentare la voglia di vivere
del volume. E Sebaste, sia chiaro, indugia soprattutto su un elemento. Insomma
ci tiene a spiegarci, precisare che il motivo del libro appartiene al catalogo
delle forze storiche della letteratura. L’animale non è che uomo in sedicesimi.
Oppure il contrario. O, detto in maniera più rozza, ogni vicissitudine che gli
animali dimostrano di sopportare e portare a noi la conosciam bene in quanto fa
parte delle nostre stesse vite. Non per niente, lo scrittore Beppe Sebaste
parte citando scrittori che non sono “classici” per vezzo delle critica, ma
sono considerati tali da chiunque apra un loro romanzo. Da Tolstoj a Kafka.
L’antologia è formata da sedici racconti; quattordici brevi di Sartori e due
più lunghi di Marino Magliani. Il libro è aperto da “Pipì”, di Giacomo Sartori,
storia d’un cane che racconta il suo legame col padrone, un barbone che gli
vuole tanto bene. Ma sono le due novelle di Magliani a fare da controcanto a
tutti i personaggi, sempre del mondo animale, che passano nello scorrere della
raccolta di voci. Dopo aver lasciato il canarino nella sua sicurissima gabbia,
incontriamo, per fare solamente qualche esempio delle micro-storie di G.
Sartori, una formica che un giorno esula dal compito di seguire tutte le
indicazioni del collettivismo formichista. Per una volta si sposta dalla massa
che esegue militarmente. Raccontandoci in prima persona che si prova
nell’impresa. “Se fosse durata sarebbe stata la quinta estate sotto le palme.
Ma il padrone teneva le bestie solo per un periodo e poi le abbandonava. E un
giorno toccò anche a Cobre”, è l’incipit del primo dei racconti di Magliani.
Quello del cane che tenta di tornare dal suo padrone, lungo la costa ligure
madre dell’autore. Che troverà quello dell’altro cane, il figlio, in cammino
nella risalita contraria. La penna è quella del Magliani in stato di grazia,
che con “Quella notte a Dolcedo” aveva incantato. La scrittura di Giacomo
Sartori deve invece fare i conti, giustamente, con la difficoltà di non cedere
alla barzelletta: traguardo raggiunto grazie all’invenzione d’un orso polare
freddoloso della stessa squadra dell’unicorno abitante d’un libro eccetera. Un
libro, insomma, su paure, desideri e ambizioni tutte umane. Nel manifestarsi di
sentimenti certamente animali.
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