Leggo pagine fatte di carta e ho, vivo
negli occhi, il viso paonazzo di una bimba che strilla per la mancanza della
sua mamma. Mi lascio andare in un
andirivieni per la stanza e percepisco sotto i piedi scalzi la sabbia di
un’isola lontana. Torno alla realtà rimpiangendo l’immaginazione. Mi avvinghio
all’inchiostro come fosse linfa vitale. Tutto questo mi porta a dire che il
romanzo dell’australiana esordiente M. L. Stedman è l’opera di una donna dotata
di sensibilità estrema. La Luce sugli oceani (Garzanti 2012) è una
storia degli anni venti, di tutto ciò che ne consegue e del carico storico che
si porta con sé. Tuttavia, parla
d’amore: un sentimento provato e nutrito nel profondo dell’anima. Un amore tra uomo e donna, madre e figlia. Un
palpito ingannato dal senso di colpa. Ma è anche la storia di un sentimento
privato – nel senso che non viene, deliberatamente, concesso – ad una madre
naturale senza colpa. Rimando di giorno in giorno il mio appuntamento con
l’ultima pagina di questo libro, che inevitabilmente ne segnerà la fine, perché
ho ancora necessità di nutrirmi di quell’amore. Voglio riuscire a consolare quella bambina
innocente, desidero parlare a quella madre. Pretendo da me stessa di salvare quel padre.
Voglio carezzare il viso smunto di quella giovane donna che ha perso tanto,
troppo, per essere ritenuta colpevole. La
luce sugli oceani è uno dei più bei romanzi che io abbia mai avuto il
piacere di leggere. Semplicemente magnifico. Quell’isola potrà anche essere
immaginaria (“non poi tanto”, come ha affermato la stessa autrice), ma le
emozioni superano di gran lunga i luoghi: esse sì, sono autentiche. E qualcuno
provi a sollevare il benché minimo dubbio.
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