E, alla fine, alla fine della
storia, alla fine dei ringraziamenti, alla fine di tutto, a pagina
quattrocentonovantasei, i brividi si sommano ai brividi. Alla fine, è un unico,
pervasivo, interminabile, brivido. Alla fine, è un brivido che parte da fuori, dalle
ultime righe. L’ultima cosa detta che dà senso pieno alle altre, le raccoglie
tutte, le tiene strette, le evidenzia una a una. E ne rimarca ogni parola, le
scuote una volta ancora, ognuna col suo peso, ognuna con la sua levità,
shakerando un’immane fatica a una ancor più grande felicità. Ne annusa l’odore.
Le frange al vento, poi, e le lascia deflagrare, sì che –sparse, sperse e
sospese lassù- coriandolano giù (come di gravità mutata) e –nel contatto-
rizzano peli e pelledocano carne e capelli che s’erano obliati anticipatamente
ricrescono e… prima di trasformarmi in un lupo mannaro, prima che il brivido
penetri nel ventre, prima che un’altra sola cazzata esca dalla mia bocca e
diventi parola, devo cancellare un predicato verbale inopportuno, scorretto e
sgradevole: “trasformare”. Se non lo facessi e –per assurdo- Andre leggesse
questo pezzo, direbbe: “Non ho speso la mia vita fin qui e, per la mia storia
fatta libro, due anni di fatica, perché un emerito coglione leggesse senza
comprendere un cazzo della mia vita e della fatica di scrivere”. Già c’è stato
Bud Collins che “ha sacrificato la verità sull’altare dell’allitterazione”. Io
non lo farò. E, allora, cancello “trasformare” e lo sostituisco con
“diventare”. Adesso posso continuare: prima di diventare un licantropo, lascio
che quel brivido s’insinui dentro di me e mi percorra tutto e lui… No, lei!
Chiamerò quel brivido emozione. Chiamerò quel che mi attraversa dal cuoio
capelluto sino alla punta dei piedi emozione: una gran bella imprevista emozione.
Ché l’emozione è donna! Così va meglio. Posso andare avanti. Sto giocando. E
faticando. Ché non è affare che si possa risolvere con una “battuta” scrivere
di questo libro. Potrei “palleggiare” il lemma “battuta” con l’ironia. Ma mi
ritroverei a dover disquisire con un linguaggio tecnico che non m’appartiene.
Ché il tennis non l’ho mai praticato. Nel defunto Circolo Tennis di San Pietro
in Lama (sarà stata l’adiacenza al Cimitero? In quella zona ci sono tutti i
Campi, compreso quello di calcio. Morto anche quello! Come il mio agone
sportivo!) ci sono stato qualche volta. Ci ho giocato una sola volta con una
racchetta prestatami da Giò. E questo, se togliamo la TV, poca TV, chiude il mio
rapporto con quello sport. Potrei dire. Ma dire è altra cosa. Posso provare a
scrivere facendo finta di dire. Ma anche così facendo tradirei la sostanza del
libro. Potrei provare a fottermene dei pensieri che mi vengono per inchiostrare
parole su “OPEN”. Passare al fare. Sì, questo è qualcosa in armonia con lo
spirito di “OPEN”. Un libro il cui titolo bene sarebbe potuto essere: “THANKS”.
Ché Andre Agassi, dopo aver sputato tutto l’odio verso tutto (prima di tutto
verso il tennis) e tutti coloro (prima di tutti verso il padre boxeur) che
costantemente gli hanno fatto chiedere: “Apro gli occhi e non so dove sono o
chi sono. Non è una novità: ho passato metà della mia vita senza saperlo”, e
dopo aver, per questo, odiato anche se stesso, non ha lesinato gratitudine al
mondo intero. Ché il suo odio era effetto del suo malessere. Ché il suo odio
era conseguenza delle gabbie dov’era ricacciato perché diventasse quel che non
aveva scelto di diventare. Ché il suo odio era corollario di un imperativo
categorico dettato da chi sapeva sempre dov’era e cos’era. Un imperativo che si
coniugava col dover essere il numero uno. Che faceva il paio con “vincere” a
ogni costo. Ma l’ebbrezza delle vittorie porta fama e soldi, non dà la chiave
per comprendere chi sei e che cosa sei. Quella chiave, spesso, la si trova in
un luogo chiamato solitudine. E, in quel luogo, bisogna fare i conti con la
tristezza, con la disperazione, col nulla, finché non trovi una ragione, un
motivo, una causa per vivere davvero. Finché non trovi il piacere d’esistere.
In quel luogo ci arrivi dopo ogni “sconfitta” e, allora, sembra scontato dirlo,
le sconfitte rendono possibile comprendere la vita molto più di qualsiasi
vittoria. E la comprensione della vita fa amare le cose della vita. E fa dire:
grazie! E altro fa dire e altro potrei dire… Il mio grazie, per intanto, va a Lù.
Ché del libro mi ha fatto dono. Un libro che mai avrei acquistato. Per uno
stupido pregiudizio articolato in tre punti: 1) cosa cazzo potrà mai dirmi un
tennista famoso e ricco che, pure, le rare volte che l’ho visto giocare alla
TV, mi è stato… simpatico? 2) Per un altro motivo: non amo le biografie! 3) E,
poi, perché il lettore ch’è in me, in questi casi, pensa: chissà chi gliel’ha
scritto... Conseguenza di questo pensiero: è un’operazione editoriale e come
(sono costretto a mettere il “quasi”, ma in questo caso lo faccio più che
volentieri, ché quando si commette un errore riconoscerlo amplia lo spettro
visivo dell’anima) tutte le operazioni editoriali (di questo tipo, ma non
solo), anche a prescindere dalla finalità, mi urtano i coglioni! In altri termini:
solitamente scelgo le mie letture, non me le faccio imporre! Mi sembravano tre
buoni motivi per non leggere “OPEN”, della cui esistenza già avevo contezza. E
mi bastava. Poi, il caso. E la
Lù. Le sue parole. Che hanno peso e sostanza. Mi sono
ritrovato il libro tra le mani. E quando i miei occhi gli si sono posati sopra,
mi ha rapito tutti i sensi. Non solo ho colmato il vuoto di conoscenza intorno
a Andre Agassi tennista, ma –soprattutto- ho conosciuto (…) un uomo che mi ha
trasmesso una parte consistente di sé. Ché questo libro è una narrazione
vorticosa e strabiliante che dà ragione a una mia radicata convinzione: la fine
di qualcosa segna sempre l’inizio di altro. Ho amato la passione che trasuda da
ogni pagina di questo libro. Ne ho amato le contraddizioni. E i paradossi ho
amato. Mi sono ritrovato nell’unica certezza giornalmente custodita e praticata
da Andre Agassi: l’incertezza! Ho condiviso il senso del dovere e del lavoro,
quantunque imposto o scelto (ma, comunque, parte del proprio essere in movimento).
Ne ho ammirato la rivolta. Ne ho apprezzato il senso. Mi ha insegnato, una
volta ancora, che l’equivoco sta nelle cose e non in chi le fa o le guarda.
Ch’è facile fraintendere. Se si vuol essere fraintesi. Se chi sta dall’altra
parte non vuole la verità. Se c’è un sistema che della menzogna ne fa il
business perché il business è mezzo e frutto del sistema e il sistema esiste
perché è artificio esso stesso. Devo gratitudine a Andre Agassi per le pagine
di questa storia, della sua storia, per come l’ha raccontata, per quella prima
persona che fa dell’io narrante qualcuno che (nel mentre leggi e in fine) sta
compiendo un viaggio insieme a te, qualcuno che (in fine) ha deciso di
viaggiare insieme a te, qualcuno che (in fine) ha scelto di stare un po’ con
te. E quando questo accade per quasi cinquecento pagine di vita, con tutto quel
che in tante pagine d’esistenza c’è, non c’è scampo, non c’è nascondiglio
possibile, non c’è maschera che tenga, non c’è nulla che possa dividerti da
quel che sei, da quel che sei stato, da quel che sei diventato. Né lo vuoi.
Anzi, vai in giro nudo perché sai, finalmente sai che così sei nato… “OPEN”, ho
compreso dopo la lettura, è il giusto titolo per questo libro. Ché open ha
molti significati. Come verbo. Allargare. Aprire. Dischiudere. Disserrare.
Esordire. Iniziare. Pulire. Rivelare. Schiudere. Spiegarsi. Come sostantivo.
Aperto. Franto. Incerto. Libero. Pubblico. Non me ne volete se sbaglio
qualcosa. L’inglese mi manca. Mi son fatto aiutare da google. Ma trovo che tutti
quei significati si attagliano bene al contenuto del libro e, prima ancora, a
quel che Andre Agassi desiderava che il libro fosse: dire finalmente quel che
dentro continuava a essere da sempre un sussurro, dargli voce, far coincidere
quel sussurrare con le parole espresse. Questo pezzo è quasi concluso. La mia
lettura no. C’è un altro libro che mi aspetta: “Il bar delle grandi speranze”
di J. R. Moehringer. Perché “voglio giocare soltanto un altro po’”.
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