Roland Barthes chi era costui? Riferimento
per decine, anzi in certi casi flotte d'intellettuali, il francese Roland
Barthes pare non ispiri come una volta. Ma l'opera del critico e semiotico e
filosofo, almeno, interessa ancora al "critico militante" Filippo La Porta. Che in
"Barhes, Roland" ci mette una densa e articolata introduzione, per
dare il via a un'antologia che porta pensieri al pensiero estemporaneo. E per
tornare sulle "mitologie del contemporaneo", La Porta ha chiesto parole di
giovani penne del valore di Gallerani e Marchesini, d'esperti alla Mandosio e
Marrone, e così via. Per fare una raccolta disomogenea ma che parla d'una certa
omogeneità. Passeggiando, appunto, nelle preferenze degli studiosi e
'appassionati' (vedi Doninelli - Luca - ): per esempio: autore del breve
intervento titolato "Madri": righe che mettono in parallelo il
francese a Testori. Quindi se per il filosofo Marrone due Barthes non esistono,
è proprio La Porta
a spiegare, invece, quale dei due 'preferisce' - che per lui ne estino proprio
due, diciamo. Senza entrare nei particolari degli scritti, però, possiamo già
dire che questo libro va nella direzione recentemente e nuovamente auspicata da
Berardinelli, cioé fa discutere su intellettuali che da decenni parevano essere
stati messi fuori dall'interesse generale. E rivediamo, dunque, quel Barthes
che diventò proprio il massimo rappresentante dello Strutturalismo. Ma lui,
spiega sempre A. Berardinelli in un'interessantissima recensione al piccolo lavoro
collettivo "né voleva essere un filosofo, neppure un filosofo
esistenzialista. Era più sfuggente, aborriva e temeva i concetti nitidi,
scriveva in una prosa dominata da un enigmatico, ossessivo istinto a sottrarsi,
a retrocedere dalla chiarezza e distinzione delle idee preferendo gli
indefiniti territori prelinguistici, l’esperienza incondizionata, non
verbalizzata, allo stato puro, un’esperienza singolare eppure (eccola la
novità) senza soggetto e fuori contesto". Il quale, naturalmente,
sottolinea l'intuizione di Mandosio che, con questa riproposizione d'un saggio
già pubblicato su rivista, spiega quanto il concetto che il semiotico
raccontava della "lingua fascista" è un punto d'arrivo d'una lunga
elaborazione e non un incidente da ripulire. Un'antologia che può far almeno
discutere, per fortuna. Lo si faccia o non lo si faccia più sulle prime pagine.
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