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giovedì 1 luglio 2010

Cronache precarie, di Greta Rosso, Aìsara (Cagliari). Intervento di Nunzio Festa








“Strepito, grida, sussurri ed immagini. La scrittura alterna verso libero e prosa poetica con cinismo e rabbia, carne e cuore. Una scrittura al femminile indelicata ed estrema”. Il lancio d'una delle opere più belle della riuscitissima collana poetica della sarda Aìsara, yakamoz, brillantemente diretta da Daniele Pinna, narra perfettamente d'una parte del contenuto o dei contenuti di “Cronache precarie” di Greta Rosso. La Rosso, classe '82, il resto lo spiega lei stessa con punture in forma di parole. Usando la misura del non aver misure. Stordendo, ed è la bravura maggiormente espressa dall'autrice, la fugacità dell'intimistico. Con accenti dettati, appunto, da uno straniamento vissuto con la forza del servirsi della ragione. Ma, si deve ricordare, “Cronache precarie”, è anche, o in special modo, l'esordio d'un'autrice. E la Rosso, poetessa piemontese d'indubbie capacità, parte davvero molto bene. La prova letteraria è frammentata da tre sezioni. Greta Rosso comincia da e con il corpo, chiaramente, senza dimenticare che si deve essere disposti a trovare nell'incanto del cercare. L'autrice, con questa prima opera, entra nel finire d'un certo sperimentalismo. Affrontato la non semplice sfida di confrontarsi, però, con linguaggi e, persino, modalità espressive che virano facilmente appena nate. Greta Rosso, comunque, grazie al suo “Cronache precarie”, afferma il principio che è nata un'altra penna pronta a spingersi nell'impresa d'accettare e svincolarsi della e dalla propria lingua, anche solamente per puro sfizio d'incamminarsi verso altro ancora. Molti autori e tante autrice della generazione nata negli anni '80 sta scrivendo questo tipo di testamento vitale.

2 commenti:

  1. Uscire dalla lingua comune, dalla lingua come strumento abituale per le faccende quotidiane, e magari per eludere, mascherare anziché rivelere sentimenti, depistare anziché guidare o indicare la strada al viandante smarrito; uscire dalla lingua come inganno e menzogna, sarà mai possibile? E attraverso quale altra lingua, con quale altra morfologia, sintassi e lessico? Sarà forse la lingua intesa come pura forma libera da qualsiasi contenuto? E' forse questa la lingua solamente espressiva e non denotativa della poesia? Ma il contenuto della lingua di un poeta (o di una poetessa) è il poeta medesimo, o,se si preferisce, la poesia stessa. "Voi, ch'ascoltate in rime spare il suono...." Noi, che leggiamo i versi del poeta, chi e che cosa ascoltiamo? E se leggiamo la prosa lirica e i versi liberi con cui ci parla parlando di sé la poetessa Greta, chi e che cosa ascoltiamo se non la voce della poetessa Greta? Voce in senso musicale, ovviamente, ma anche "umana" nel senso di Cocteau, o meglio nel senso di Greta Rosso: Cronache precarie, sussurri e grida, schegge lucenti e taglienti di maiolica, imperfetta ellissi di una forma vivente oltre il testo, oltre il verso che non può dire quel che lingua mortal non dice.

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