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mercoledì 9 giugno 2010

La mala ora di Gabriel Garcìa Marquez (Mondadori). Intervento di Vito Antonio Conte















Primi anni Ottanta, alloggio universitario di Borgo Pietro Cocconi, in quel di Parma, interno 3, tendine della finestra -che dà sulla passerella che collega i due corpi dell'edificio- aperte sul meriggio d'altra luce, pausa studio: vado in cucina a preparare il caffè (il Quarta, portato da Lecce, ché il Segafredo di zona non è un granchè!), intanto Lucia e Danio continuano a parlare, entrambi studiano veterinaria. Ora, però, i libri di testo dell'ultimo esame (nonsocosadegliequini) sono in stand-by. C'è musica diffusa dal registratore. Danio ha un'anima hevy metal che porta anche addosso. Lucia è pazza (anche) di David Bowie: canta le sue canzoni (in perfetto inglese, mi sembra, cioè in inglese di sicuro, perfetto sembra a me, che non conosco quella lingua...) a memoria e le balla con una forza da lucida allucinata e con una grazia che sa d'antica danza. Io (a parte “giurisprudere”, essere fedele... e fare il caffè) leggo d'altro, scrivo improbabili poesie... e spedisco lettere e cartoline in lungo e in largo per lo Stivale. Quel pomeriggio sentii -per la prima volta- il nome di Gabriel Garcìa Màrquez (lo so, i segni paragrafematici non sono esatti, ma il mio PC non conosce altro... o forse dipende da me... senza forse...). Lucia stava leggendo “La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata”. Quel titolo colpì la mia fantasia e stuzzicò la mia curiosità. Poco tempo dopo avrei letto Màrquez e, tra gli altri romanzi, sarei rimasto folgorato da “Cent'anni di solitudine”, dai Buendìa (col colonnello in testa e le tristezze per la sorte dei lavoratori delle compagnie di banane) all'alchimia, dal dagherrotipo (prima forma di riproduzione delle immagini scoperta dal francese Daguerre -da cui il nome- nel 1839, che dà vieppiù fascino all'invenzione letteraria) ai ritmi sudamericani svogliati e stanchi eppur carichi d'altra vitalità (oltre ogni memoria), dai paesaggi madidi di pioggia e sudore di Macondo e dintorni... Oggi, a distanza di qualche lustro, ho letto “La mala ora” (Oscar Mondadori, pagine 199, € 8,00) e, una volta ancora, ho capito perché Màrquez è uno scrittore da Nobel. Ché Màrquez è riuscito, unico tra pochi, in quel deicidio ch'è l'atto della creazione letteraria, ossia (come ha notato -in proposito- Vargas Llosa) una ribellione contro Dio e il Creato, contro la realtà. Nella fittizietà letteraria delle sue opere Màrquez riesce splendidamente a fornire un mondo fantastico in antitesi a quello quotidiano, nevrotico e patologicamente folle. Vita reale e viaggio favoloso. Realtà rinvenibile in tutti i personaggi, così autentici e veri, perfetti (e, dunque, lontani dalla Terra) in ogni loro azione da apparire traslazione della fantasia. Favola che si coglie in ogni loro movimento all'interno di un luogo inventato, un villaggio tanto fantastico che sembra costruito pietra su pietra. Nell'immaginario dello scrittore questo ribaltamento delle due sfere vitali diventa confuso nelle trame, sudore e sangue si commistionano alle nuvole che sfiorano passioni e desideri, si sovrappongono in un flumen narrativo liberatorio che consente di vedere l'esatta espressione di quel che è e di quel che dovrebbe essere. Ché non si può cogliere il Bene senza la sua negazione... Una volta ancora, ho notato la costante nelle narrazioni di Màrquez ch'è metaforicamente possibile assimilare alla tessitura d'un tappetto: c'è la scelta delle fibre, e il disegno, e la trama, e l'ordito e si procede nodo dopo nodo, in una serie d'intrecci e di passaggi e di pause e di riprese, senza -però- definirlo mai... Così sono i testi di Marquez e smetto di mettere accenti a cappella... Ché le regole (tutte!) sono importanti, importante è osservarle, comprenderle è importante, importante è capire perché le regole tendono a scongiurare il caos... ma violarle (in questo caso!) non importa sanzioni e può consentire di vederlo il caos e penetrare un'altra possibilità e, da lì, muovere verso altre comprensioni... La mia visione disvela l'unica essenza sepolta sotto infiniti strati d'inutili costruzioni... Quelle che hanno avvelenato l'aria che respiriamo ogni momento. Quelle che hanno allontanato dalle nostre menti le pulsioni di tutto quel ch'è corpo. Quelle che hanno imbarbarito i nostri corpi rendendoli schiavi delle reiterazioni del così-è-e-per-essere-così-devi-impegnarti-il-culo-finché-vivi. Quelle di chi si erge a modello e predica l'emulazione impossibile per ammucchiare ricchezze e lasciarti mosche sugli occhi, sulla bocca, sulle orecchie, dentro gli occhi, dentro la bocca, dentro le orecchie, e in ogni cavità, senza reazione, senza forza, senza più lacrime, ché sei morto anche se respiri, e di questo hanno bisogno, di morti che si credono vivi, che respirano fino all'ultimo centesimo da spendere. Quelle che hanno fatto della spiritualità bussines per dimenticare il corpo e fottendoci se la godono qui e adesso, tanto noi siamo in pace con le nostre interiorità e non ci chiediamo più quale pace e quale interiorità, tanto abbiamo l'illusione che ce la godremo altrove, ché ci hanno talmente tante volte detto che c'è un'latra vita che abbiamo finito per crederci... giocandoci anche l'anima. Quelle che ogni vita che non è più aumenta la loro. Quelle... Costruzioni e costruzioni. Regole e regole. L'unica essenza è quella che risiede alla radice di ogni regola. L'unica regola, l'ho già scritto, è quella madre... Quella che potrebbe farci vivere, vivere, vivere davvero, vivere davvero meglio, vivere davvero meglio tutti... Ma per comprenderla ognuno deve avere consapevolezza che -senza il rischio di sanzioni- non cambierà mai questo mondo di merda... Ogni riferimento a pozzi di petrolio con falle e perdite incontrollabili, a terremoti che fanno ridere per gli affari che si possono fare sopra i lutti, a manovre economiche che stritolano i coglioni, a IOR otto per mille e cinque per mille, a prelati pedofili che dovrebbero essere inculati da chi so io, e ancora e ancora e ancora, ogni riferimento è assolutamente voluto! Non predico rivoluzioni fatte di sangue, non esorto a cambiamenti con le strade piene di morti, non sono in viaggio con borsoni colmi dell'armamentario della guerra decisiva, dico soltanto che perché tutti i morti che si credono vivi possano assaporare qui e adesso la VITA VERA devono lavare con acqua gelata e pura i propri occhi spenti per riuscire a vedere, e la faccia intera devono lavare con acqua gelata e pura, col naso che serve per sentire l'olezzo della merda d'intorno ma anche il profumo della vita, anzi delle vite, con le orecchie che servono per udire le stronzate ripetute a ogni spot ma anche i suoni della melodia della vita, anzi delle vite, con la bocca che serve per alimentarsi e non per ingollare frammenti dell'altro ma anche per parlare dicendo parole sensate all'altro e per sussurrare e per baciare e per sfiorare ogni centimetro di pelle d'amore... devono lavare con acqua gelata e pura le mani e le braccia e il torace e le gambe e i piedi e il sesso e la pancia e ogni centimetro di pelle... serve acqua gelata e pura per farsi baciare ogni centimetro di pelle... serve acqua gelata e pura per togliersi da questo torpore senza fine, per svegliare i propri sensi alla vita, per dire a quelli che si credono vivi che sono morti da tempo, che sono morti da sempre, che sono i veri morti e che non ci sono cimiteri né cieli per loro... E, forse, “La mala ora” diventerà una gran bella occasione per amare il tempo... E, forse, queste mie digressioni non sembreranno soltanto elucubrazioni incazzate... E, forse, si comprenderà meglio la ragione dei continui rinvii da un testo all'altro ch'é (come dicevo a proposito della metafora del tappeto...) nota precipua caratterizzante la scrittura di Marquez... E, forse, si capirà sino in fondo quel che lo stesso Marquez ebbe a dire in un'intervista a Plinio Mendoza (poi diventata un libro: “Odor di guayaba”, 1982) a proposito dei suoi romanzi e cioè della sua convinzione che “ogni buon romanzo dev'essere una trasposizione poetica della realtà” (e, in quanto tale, “le possibilità del romanzo sono illimitate”). E, forse, chi leggerà questo pezzo comprenderà cosa c'è dietro le parole o forse almeno proverà a chiederselo... Anche se non ho detto nulla dell'alcalde col mal di denti e il coprifuoco, del prete che censurava i film con i rintocchi della campana, del mercante siriano con bottega sul fango, del barbiere cospiratore, del dentista rivoluzionario, del giudice disoccupato tra birre ghiacciate, del segretario che spennava galline, del circo che dovette andar via, del fiume e della carogna putrida di mucca che portava con sè, della pioggia che non lavava nulla, degli assassini assoldati dalla polizia, delle zanzare, dei muli e di altri animali e di umani sciacalli, dei pettegolezzi e delle pasquinate e della veggente (pitonessa del circo itinerante) che -a proposito delle pasquinate- disse l'unica cosa sensata: “È tutto il paese e non è nessuno”, e di tutta la storia che ruota intorno a tutto questo e a altro ancora, di tutta questa storia ch'è tanto inventata da essere più vera di qualunque storia scritta, ché c'è sesso e sangue e nessuna speranza segnata perché la speranza non si può scrivere. La speranza si coltiva. La speranza è atto fattivo. E ognuno deve poterla nutrire ogni giorno, facendola diventare concretezza. Perché la nostra storia non rimanga senza significato. Perché ogni storia può e deve lasciare qualcosa. Ché non sia ancora oggi quel ch'è stata “La mala ora”, ossia, parafrasando quanto ebbe a dire l'Autore (sempre all'amico Plinio Mendoza), “La storia dell'America Latina è anche una somma di sforzi smisurati e inutili e di drammi condannati, a priori, alla dimenticanza. La peste dell'oblio esiste anche tra noi...”. La speranza è questo romanzo. La speranza è la fine di questo romanzo, che termina così: “Anche Mina si fermò, con la scatola vuota sotto il braccio, e abbozzò un sorriso nervoso prima di terminare la frase”. Senza una fine. Con tante pagine bianche ancora da scrivere... Colonna sonora: “Congo to Cuba” (Putumayo World Music, 2002) e, in particolare, “Yiri Yiri Boum” di Gnonnas Pedro (dal Benin).


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