giovedì 11 marzo 2010

Lovesickness di Michele Caccamo (Gradiva Publications)

Ormai posso dire non solo di conoscere la poesia di Michele Caccamo, ma anche di reputarmi un forte sostenitore della modalità espressiva che trasmette in quel suo fare versi singolarissimo. Finalmente ho tra le mani l’ultimo suo lavoro edito da Gradiva Publications in New York (di cui ho apprezzato da tempo il percorso editoriale) dal titolo “Lovesickness”. La cura editoriale e traduttiva è di Irene Marchegiani, e l’intervento post-fattivo di Maria Grazia Calandrone. Questo poeta, perché di poeta originale e “dulcissimo” si tratta, continua a stupire per alcuni aspetti che ora dimostrerò e legati soprattutto a quest’ultima raccolta poetica. La precedente produzione (penso a “Chi mi spazierà il mare” per i tipi di Zona e “La stessa vertigine, la stessa bocca” per i tipi di Manni) manifesta da subito un gioco ritmico dove le giustapposizioni di senso, gli accostamenti, le cesure, le metafore crude e ardite, risultano dense di un forte imprinting novecentesco. Sono poesie quelle della precedente produzione sature non solo di una insopprimibile malinconia e melancolia, ma manifestanti una tensione metafisica che fa sentire il poeta ora succube della terra ora padrone del cielo. Non insegue più dunque il vorace desiderio di corpi e pelle che si muovono nel suo ideale spazio lirico, non desidera più trasformare la sua poesia in una specie di bilancia che tenta di porre nel giusto equilibrio eros e amore, non vuole solo abbeverarsi del silenzio di una forte introspezione. Questa raccolta di versi invece è un inno alla speranza, un inno alla ricontestualizzazione del proprio slancio vitale nell’hic et nunc, un desiderio dialogante immenso e prepotente con il Divino, il Sacro, che è Donna, che è Maria, che è trans/gender, che è polifronte, che è Mistica. In questo dialogo sovrannaturale, Caccamo è cieco, come lo era Omero, e canta dell’eterna lotta tra angeli e demoni, tra sacro e profano, tra miseria e morte, tra infero e superno. Ma sa il nostro poeta che “come in alto, così in basso” e dunque in questo gioco di eterne finzioni, la fiducia nella parola deve essere massima, e in grado di creare paesaggi meravigliosi, chiari, tangibili dove i comandamenti dell’Amore creano una scienza esatta fatta di lirismo e trasfigurazione. Ma la vera legge, a mio avviso, che governa l’universo per versi di Michele Caccamo, è l’interrogarsi sulla finalità ultima e sulla plausibilità ultima del nostro esistere, quasi che questo domandare senza posa, imponga una indomita inquietudine che neanche l’Amore più alto potrà sedare. “Amore/noi viviamo in avvenire/come superstiti linee di gesso/ come fossimo un vento/fermato indurito/un tempo a due teste/ come ci fosse una distanza/tra stagni e stagni/ non ci fosse alcun fenomeno.” (pag. 94)


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