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mercoledì 21 ottobre 2009

Sotto padrone? Mai più! Intervista a Marco Philopat di Simone Rollo

È il simbolo della controcultura italiana degli ultimi trent’anni. Tra i primi punk in Italia è stato uno dei fondatori del Virus, mitico centro sociale. Anni cruciali per la scena underground italiana, raccontati da Marco Philopat in Costretti a sanguinare pubblicato nel 1997. Libro che inizia una trilogia che prosegue con La Banda Bellini nel 2002 e si chiude con i Viaggi di Mel nel 2004. Nel 2006 esce Punx - creatività e rabbia, un dvd/libro che tratta della scena punk in Italia. Sempre nel 2006 pubblica per Agenzia X Lumi di punk, la scena italiana raccontata dai protagonisti. Nel 2008 esce Roma KO (Agenzia X) scritto insieme al Duka, che intreccia fiction e realtà ripercorrendo trent’anni di underground romano, dagli anni settanta al G8 di Genova 2001. Agitatore e animatore della scena “indipendente” italiana (anche se la parola non gli piace, ndr) Marco Philopat è oggi nel gruppo di Agenzia X, casa editrice che unisce cultura “alta” e cultura di “strada”. Uno dei più grandi conoscitori di tutto quello che si muove all’ombra, delle culture “altre”, un personaggio fuori dagli schemi capace di offrirci una prospettiva nuova sulla nostra storia e il nostro presente.

Indie sta a significare che l’essere indipendenti sia il motivo per cui siamo su questo pianeta. Che cos’è oggi, secondo te, essere indipendenti e che senso aveva 20, 30 anni fa?

Diciamo che la parola indipendente non mi è mai piaciuta molto, indipendenti da che cosa? È un po’ riduttivo. Per quel che mi riguarda essere indipendenti vuol dire non esssere sotto un padrone. Sono convinto che il fatto di essere indipendenti, autonomi, nel caso della mia gioventù da militante nella scena punk, delle autoproduzioni, coincide con il do it yourself. Quello che ci permetteva di fare una rivista, un disco, facendo tutto da noi, senza dover andare a bottega da nessuno, senza dover dipendere dal più infinitesimale dente dell’ingranaggio della produzione culturale che c’era. Chi faceva il do it yourself ai tempi del punk faceva di tutto: era musicista, pubblicista, promotore, grafico, rilegatore, venditore e distributore del proprio prodotto. Aveva a disposizione, se pur con numeri limitatissimi tutto quanto era necessario per il meccanismo della produzione e, bene o male, avendo un’ idea, una visione complessiva del processo di produzione culturale imparava in fretta i modi i punti in cui si vendeva meglio.

Essere lontani dal mercato, a volte, è una scelta, quale messaggio “politico” si riferisce a questa scelta?

In questo senso io credo che, per la situazione del mercato oggi, e lo dico soprattutto per i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro così frastagliato e devastato, così privo di umanità in cui la competizione è tutto, può essere una scelta. Magari uno fa uno stage per imparare una piccola parte del proprio lavoro sottoposto a ritmi allucinanti in cui predomina l’arrivismo, la competizione, lo sgomitare contro i propri simili.
Con il do it yourself invece collabori con le altre persone, non c’è questo clima di competizione che c’è adesso. Una volta c’era il praticantato, l’inserimento nel mondo del lavoro tramite i corsi di formazione che al tempo funzionavano. Poi con l’avvento del post fordismo questo è decaduto completamente. Diciamo che il do it yourself e anche l’essere indipendente aiuta molto i giovani per la scelta del loro ruolo nel mercato del lavoro. Poi per quanto riguarda la scelta di essere indipendenti, è sicuramente una scelta che ha dei costi.

Le controculture hanno bisogno di essere documentate, di diventare testimonianza, forse in questo senso l’essere indipendenti è in qualche modo un’esigenza, cosa ne pensi?

Si, perché l’ambiente contro culturale, quello underground è proprio uno stile di vita, che non prevede, tra l’altro, meccanismi gerarchici. Tutto ciò che è dipendente vuol dire dipendenza soprattutto da questi meccanismi: capo, sotto capo, capoufficio e quant’altro. Quindi la cultura underground rifiuta gli schemi gerarchici, figurati stare dentro una grande azienda. Non esiste la possibilità di dividersi in due lavorando da una parte per un padrone e dall’altra per te stesso, perché le pratiche contro culturali dell’underground non prevedono la separatezza tra questo mondo e quell’altro mondo, non siamo divisi in cassetti (questa è la mia professione, questo è il mio hobby, questa è la mia convinzione politica)… si vive alla luce del giorno… o meglio, nel buio dell’underground ci si riconosce in una maniera orizzontale. Non esiste una proposta culturale all’interno di grandi corporations o addirittura aziende che pretendono di essere capostipite di qualcosa. Per quanto mi riguarda non riesco a concepire, questo è un mio grosso problema, di stampare i miei nuovi libri in una casa editrice, preferisco ancora lavorare nel mio piccolo laboratorio dove la resa, anche dal punto di vista economico, è inferiore ma la qualità migliore di dieci volte. Questa scelta ha però dei costi, a cui facevo riferimento prima, che equivalgono a una mancanza di organizzazione, interminabili riunioni dove si tenta di trovare una via comune perché si lavora in equipe e quindi un libro rischia di uscire con quattro, cinque mesi di ritardo. È un principio di crescita, una scelta di vita anche dura però, per quella che è stata la mia vita, non riuscirei a fare altro.

Musica e scrittura, il punk cosa significa oggi?

Il punk… Quando ho cominciato a scrivere Costretti a sanguinare, nei primi anni ’90, l’avevo scritto soprattutto perché mi sembrava che l’esperienza del punk, del Virus (storico centro sociale milanese) a cui avevo partecipato quando ero giovane, erano cose che stavano andando perdute. Agli inizio degli anni ’90, con la caduta del muro di Berlino, il punk sapeva di muffa, allora mi è sembrato giusto scriverne per dare memoria storica di quello che avevo vissuto. Però, allo stesso tempo, proprio quando ho cominciato a scrivere il libro è scoppiata la guerra, prima in Slovenia, poi in Croazia, il mondo non era più tanto pacificato e quindi le nuove generazioni hanno trovato nel punk ancora un preciso riferimento per contestare, per opporsi alla logica della guerra e di un sistema che stava diventando peggio del precedente. Un sistema che si è rivelato man mano sempre più pazzesco. Pensa che quando è uscito, nel ’97, Costretti a sanguinare ha iniziato ad andare subito bene “inaspettatamente” e avevamo stampato solo 1000 copie. Poi è scoppiata la guerra anche in Serbia con il bombardamento di Belgrado nel ’99 e anche qui le nuove generazioni hanno trovato nel punk nuova linfa vitale per poter ribellarsi alle proprie condizioni di vita partendo dalla condizione della guerra in senso stretto. Negli anni 2000 poi la situazione è ulteriormente peggiorata e quindi i gruppi punk, che agli inizi degli anni ’80 erano cinque o sei a Milano, sono esplosi. C’è stato un grandissimo proliferare di band e di riviste agli inizi degli anni zero, non solo a Milano ma in tutte le città italiane e le provincie. È un fenomeno europeo e più in generale occidentale. Di conseguenza sono andato a rivedere perché il punk non morisse e ancora qui nella filosofia Do it yourself ho trovato una risposta. I ragazzi che oggi escono dalle scuole, magari da istituti professionali di quartieri popolari o zone depresse italiane, si buttano nel mondo del lavoro e lo vedono organizzato in maniera assolutamente assurda… beh forse gli conviene mettere su una band oppure una piccola redazione di una rivista ed entrare in meccanismi di collaborazione reciproca. Do it your self è quindi una chiave di volta importante che ha portato il punk a resistere così tanto nel tempo.

Ancora, la tua attività editoriale come scrittore e non solo è un percorso unico in Italia. Ci racconti l’esperienza di Agenzia X?

A noi piace chiamarlo un laboratorio di scrittura, che lavora in stretto contatto con gli autori. Tutti gli autori dei nostri libri sono qui a lavorare con noi per la realizzazione dei vari volumi. Abbiamo un rapporto di amicizia reale, vero e anche tutta la parte che riguarda le presentazioni e la promozione in genere la portiamo avanti insieme. X è una sorta di crocevia di una serie di personaggi che individuano nelle idee per la condivisone dei saperi il terreno comune. Condivisione di saperi che significa mischiare i saperi alti, elevati, quelli dell’accademia a quelli della cultura del ghetto, la gente che arriva dalla strada, l’urgenza di scrivere, di esprimersi attraverso la carta stampata… una scrittura che noi abbiamo definito “teppista”. In realtà quasi tutti i nostri libri sono indirizzati sul rapporto tra fonti orali e una trasposizione storica in chiave narrativa, nel senso che molti nostri libri partono proprio da registrazioni orali di persone che sanno raccontare bene. Noi mettiamo insieme queste storie, le elaboriamo e cerchiamo di metterle in forma narrativa come una sorta di racconto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Questo per far si che la memoria, la memoria storica del nostro presente sia una sorta di veicolo in movimento verso una migliore comprensione di ciò che ci circonda e di quello che può essere un orizzonte futuro. Abbiamo anche una collana dedicata al cinema, una che si occupa di odio e opposizioni e anche alcune riviste e saggi che esplorano dal punto di vista storico e sociologico.

Quali sono, secondo te, le realtà indipendenti italiane più interessanti?

Mi piacciono le case editrici che lavorano su un limitato campo di azione. Mi piace Derive e Approdi, una casa editrice che lavora tanto su un immaginario che è nato durante gli anni ’70 e che in qualche modo dà strumenti di lettura per un possibile rapporto tra letteratura e impegno politico. Sensibili alle foglie è un’altra casa editrice che mi piace seguire. Ci sono cose interessanti anche dal punto di vista musicale e teatrale. Vorrei citare il sito carmillaonline: un progetto collettivo in cui c’è dentro tanta gente. È portato avanti dal fondatore Valerio Evangelisti ed è l’esempio di un sito che ha più di un milione di contatti, che ha creato un dibattito forte e si è creato anche una forte identità attraverso tutti quelli che vi partecipano.

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1 commento:

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