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venerdì 5 novembre 2010

SOSPETTI MARGINALI di Michela e Alessia Orlando Nicoletti (Edizioni Scudo). Un'anteprima














Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare; ma il silenzio rimase intatto, e l'oscurità non diede nessun segno di vita; e l'unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!» Soltanto questo, e nulla più.

Da: Il corvo, Edgar Allan Poe

Un uomo che medita la vendetta mantiene le sue ferite sempre sanguinanti.

Bacone, esergo al nostro Sospetti Marginali, Edizioni Scudo

Edgar Allan Poe, LENORE, l’amore e il nostro SOSPETTI MARGINALI

Altri tempi! Ben altri amori? Boh! C’è il sospetto che in un paio di secoli, o giù di lì, l’umanità non cambi poi così tanto, perlomeno tra le lenzuola, malgrado l’intervento del silicone che arrotonda allo spasimo i corpi umani. Certo, la scienza sembrerebbe suggerire il contrario: di internet ancora neppure l’ombra, nell’Ottocento, e le notizie circolavano farraginosamente di bocca in bocca o grazie a messi incolpevoli, si muovessero a piedi, a cavalcioni di quadrupedi o, addomesticati, piccionescamente, sfruttando le ali; l’odore sulfureo che si diffondeva nei vicoli di mezzo mondo era dovuto alla illuminazione, non al demonio; non c’erano tubi di scappamento, ma non mancavano essenze da minzione e defecazione, finanche nelle corti principesche e nelle mura domestiche dei reali di Francia, di Prussia, delle città che avrebbero fatto parte della Italia cosiddetta unita e così via. Non parliamo, poi, dell’inquinamento: pare sia dimostrato che quello da carbone non fosse meno gravoso di quello da petrolio-benzina.

Non è cambiato molto tra le lenzuola…ma c’era chi si riteneva peccatore (adesso mai), forse anche per le sue scorribande o evoluzioni circensi, Kamasutra in mani; ed Edgar Allan Poe in Lenore poteva scrivere:

Infami! Amaste di lei sol il soldo e la odiaste assai per l’orgoglio e quando il suo spirito fu flebile e assorto, la veneraste – fu oltre la soglia! E come faremo il rituale? Come farà il vostro Requiem nel canto, uomini dall’occhio malvagio, con lingua grondante calunnia nel pianto che ha fatto morire la donna innocente, che ha avuto la morte sì giovane tanto? “Siam peccatori “; ma niente delirio! Inno del Sabbath sia il canto che vada al Signore, sì morte, solenne, non senta rimpianto! La dolce Lenore ben già è dipartita, Speranza al suo fianco le vola e furioso ti lascia, per lei, la cara fanciulla, che esser doveva tua sposa, per lei, la bella, l’affabile, che adesso sì umile giace, con vita sui biondi capelli ma non dentro agli occhi. La vita è ancor lì, sopra i capelli – la morte sugli occhi.

Non è cambiato molto tra le lenzuola…ma noi possiamo rappresentare, con la fotografia e con le parole, un mondo in cui altre cose appaiono normali. E questo va benissimo, giacché se si tratta di norme, di voci deputate a dire cosa sia normale e cosa no, ci pare corretto concludere che tutto ciò che accade è normale. O naturale, se si preferisce, malgrado si debba spesso rilevare come l’uomo, interferendo con la natura, tenti di sviarne il corso. E lei-essa si vendica. È solo questione di tempo. Edgar Allan Poe in Lenore ci narra la morte e quattro voci in quattro stanze diverse. Con il suo componimento intesse un dibattito a tensione altissima. Tutto accade a un funerale, quello di Lenore, appunto, fra un personaggio anonimo, forse un congiunto, e l’amante della defunta, un certo Guy de Vere. La morte…la vita e la morte. Tutto ciò che accade è normale…anche la vendetta? È questa la domanda intorno alla quale si sviluppano le vicende che narriamo in Sospetti marginali. Forse è inutile dirlo: a noi sono servite molte più parole di quelle impiegate da Poe per rendere il clima drammatico. E sono servite molte più stanze; oltretutto collocate in varie città: Roma; Torino e la sua cintura; Palermo; Bologna; Nizza… Sono serviti anche altri luoghi: quelli mentali e, così come accade ne Il corvo, sempre del maestro Poe, abbiamo dovuto inoltrarci nei sogni, nel subconscio, nel mistero degli omicidi seriali perpetrati al di là della porta. Inevitabilmente chiusa dall’interno. Non è una novità, ovviamente, eppure è stato richiesto l’intervento di due prestigiatori, utilizzati come consulenti tecnici da chi indaga, per poter risolvere un problema investigativo. Sono figure essenziali, i due prestigiatori, che apparentemente intervengono in maniera quasi casuale (non è così, giacché anche situazioni spazio-temporali lo hanno imposto). E sono figure davvero esistenti: Il Mago Massimo e Gianni Loria, che ha tenuto spettacoli anche da noi, alla Carnale, entrambi operanti a Bologna: la città dove, grazie alle intuizioni e al lavoro del Maestro Chun Chin Fu, al secolo prof. Alberto Sitta, il mondo della prestidigitazione italiana ha potuto creare profili organizzativi davvero rilevanti.

giovedì 4 novembre 2010

Il libro del giorno: Il nostro traditore tipo di John Le Carrè (Mondadori)















Perry e Gail, lui insegnante idealista a Oxford, lei avvocato rampante: una coppia di fidanzati inglesi in vacanza nello scenario da sogno di Antigua, nei Caraibi. E un russo di nome Dima, rozzo eppure magnetico, che possiede una tenuta sull'isola. Un incontro destinato ad avere conseguenze inimmaginabili per i due giovani, quando il russo chiede a Perry di giocare a tennis con lui è solo una normale partita quella che si svolge alle sette di mattina davanti agli occhi stralunati di Gail e alla più strana accozzaglia di persone che le si sia mai parata davanti? Chi è veramente questo russo carismatico che ostenta amicizia e giovialità nei confronti della giovane coppia? E, soprattutto, cosa vuole da loro? L'esito della partita di tennis andrà ben oltre il risultato. Ha inizio un'avventura che vede i due fidanzati coinvolti dai servizi segreti inglesi e dal "riciclatore numero uno al mondo" di denaro, dapprima chiusi in un asfissiante seminterrato, poi spettatori della finale del Torneo del Roland Garros a Parigi e infine catapultati in uno chalet sulle Alpi svizzere. La posta in gioco è alta: volti nuovi della mafia russa cercano una propria "rispettabilità ufficiale" nei mercati di tutto il mondo, intrecciando i loro affari con quelli delle multinazionali e inevitabilmente con le politiche degli Stati sovrani. John le Carré reinventa il romanzo di spionaggio, strappandolo alle sue definizioni classiche.

Lo sposo impaziente, di Grazia Livi (Garzanti). Intervento di Nunzio Festa




















A quattro anni di distanza dalla prima uscita, datata 2006, e a due da “Il vento e la moto” (sempre Garzanti, 2008), l'editore di Vitali e tante altre firme indispensabili, ha deciso di far tornare in libreria “Lo sposo impaziente”; scelta più che giusta: azzeccata. Perché, questo soave romanzo, che, comunque, nulla concede alla tranquillità sorniona e addomesticante della fiction, tratta un pezzo del rapporto fra lo scrittore, ufficiale, insegnante e proprietario terriero Lev Tolstoj con quella che diventò la sua giovane moglie Sof'ja Bers. I due si presero in matrimonio, in virtù delle spinte delleo scrittore, nel 1862; quando lei era ancora una diciottenne e lui un, soprattutto navigato, trentaquattrenne. La coppia si ritirò, dovremmo dire, nella tenuta tolstojana di Jasnaia Polyana. E il loro viaggio di nozze, ricorda la gentile scrittrice Grazia Livi, che con tono leggero ma ugualmente urticante ci porta nella storia, fu il tragitto in carrozza destinato a chiudersi nella tenuta pronta a divenire fuoco domestico, focolare famigliare. Tolstoj, dice il vero immesso nella trama dalla Livi, prese quale predestinazione il suo incontro proprio fatale con la giovane. Tanto da lì a poco, appunto, chiedere – al padre di lei – la mano sua. Il romanzo anticipa l'atmosfera di vita che i due innamorati vivranno per decenni. Ma soprattutto 'accenna' alle divergenze ideali che corrono tra lei e lui. Che la ragazza, oltre a essere molto giovane e ancora vergine secondo tante aspetti, per Lev Tolstoj non sarà solamente una testolina piena di sogni e incertezze. Come, è da capire, Sof'ja sarà piena di comprensione. In primo luogo per un marito così diverso dal resto del mondo. Tanto antico e antiquato, quanto innovatore e animato da buoni propositi. La penna di Grazia Livi, con garbo e senza smontare le proprietà d'intimità del materiale utilizzato, spiega la psicologia della coppia e, allo stesso tempo, spiega la psicologia d'un dato momento storico. Altrimenti tutto varrebbe alla maniera delle soap opera. Punto che naturalmente la scrittura e ogni scelta della Livi scongiura. Il fascino del romanzo è altissimo, grandioso. Seppure ci si fermi a un momento preciso della vicenda. Lasciando aperta la restante parte della Storia. I presupposti di questa impenitente storia d'amore e i protagonisti della trama-storia incantano. “Lo sposo impaziente” è pregno di bellezze e sentimenti da rivivere. Gli incroci e gli assalti di lui, a notte fatta, non sono che un'ulteriore nota concepita per spiegarci questa vita tutta romanzata. Queste vite in romanzo. E un romanzo, sappiamo, deve pulsare per grazia di ciò.

mercoledì 3 novembre 2010

Il libro del giorno: Diciotto secondi prima dell'alba di Giorgio Scianna (Einaudi)





















«Lei era lì sul marciapiede ad aspettare me: troppo fuori mano per un incontro casuale, troppo vicino a casa mia, troppo bionda, troppo bella, troppo straniera perché non fosse niente». Cinquanta scalini separano la casa di Edoardo Gregotti dallo studio in cui lavora. Marta lo ama. La sua famiglia l'ha sempre supportato. Forse è per questo che lui non ha mai dovuto scegliere: nei momenti difficili c'è sempre stato qualcuno che l'ha fatto al posto suo.
La sera in cui incontra Ksenja non sa ancora quale dramma gli sta scoppiando tra le mani, non sa che sta per mandare all'aria tutto quello che la vita gli ha regalato, per conquistarsi - quasi suo malgrado - qualcosa che finalmente gli appartiene.
Un romanzo intenso, sottile e spietato: il ritratto di una generazione che prima o poi sarà costretta a crescere.
A Edoardo Gregotti la vita non costa fatica. Ha trent'anni, un bell'aspetto, ed è appena diventato avvocato, anche se in fondo non gliene importa poi molto. Il mondo accogliente che lo circonda gli basta per non farsi troppe domande: ama Marta, che «vede quello che gli altri non vedono, la rotta che c'è dentro di lui», suo padre è uno dei soci dello studio in cui lavora, il collega Mauro è un buon amico. Le sere nei locali sono un'abitudine, come la musica del suo iPod e i saluti notturni su Facebook prima di prendere sonno.
Edoardo ha imparato a riempire lo spazio e il tempo come se a guidarlo per le strade di Milano ci fosse un pilota automatico, ma quando incontra Ksenja - che adora passeggiare nel parco e la sera si esibisce nei locali «stringendosi al violoncello come se volesse aggrapparsi» - niente gli sembra più naturale che passare la notte con lei. È una storia qualsiasi, clandestina e casuale, che metterà sottosopra le certezze di Edo. Lo attende un risveglio tragico, un viaggio che lo porterà fino a Novgorod, sulle tracce di un destino che - anche se non lo riguarda - stava aspettando proprio lui.
Giorgio Scianna costruisce un meccanismo narrativo di forte tensione: una storia fatta di direzioni stabilite e scarti imprevisti, dove i continui ribaltamenti di prospettiva - anche i più drammatici - si trasformano in un'occasione per conoscere se stessi. I giovani personaggi di questo romanzo si comportano come se «il mondo potesse bussare ed entrare da un momento all'altro»: hanno a disposizione tutte le carte che la vita può offrire - l'amicizia e il tradimento, l'amore e la morte - e stanno per scoprire che scegliere significa sempre dover anche rinunciare.

Imperial bedrooms di Bret Easton Ellis (Einaudi)












Partiamo dal soundtrack. Per il libro di cui parlerò consiglio vivamente “Black Rain” dei SoundGarden, ovvero il brano tratto dal loro ultimo spettacolare lavoro dal titolo “Telephantasm”. Riavvolgiamo per un attimo il nastro. C’era un prima. Il prima di Bret Easton Ellis è per questa occasione “Meno di zero”. Romanzo video/paranoico, “slangale”, depresso, assente, intriso di sesso facile, spinelli, cocaina, feste sempre più hot, in una sinfonia totale di amoralità e devastazione interiore che sconfina presto nell'orrore. Bret Easton Ellis è di sicuro uno tra i migliori scrittori in circolazione oggi, uno che fa delle situazioni paradossali di cui scrive, veri e propri manifesti di lucida critica alla società americana contemporanea. Il qui e ora ha un titolo: “Imperial bedrooms”. Casa editrice Einaudi. Questo è un libro che non lascia scampo. Non serve a nulla tentare di capire dove la storia vuole andare a parare, perché Ellis esagera, va giù pesante, gioca sporco lavorando molto sulla costruzione di più livelli semantici che addirittura rendono difficoltosa la lettura dell’opera che dunque richiede una/due/tre/quattro/cinque letture. E vi posso assicurare che sto parlando di un vero e proprio lavoro di trincea a cui il lettore viene sottoposto. Clay torna a Los Angeles sono passati venticinque anni. Clay è uno sceneggiatore (mediocre ma pur sempre uno sceneggiatore …) che deve organizzare il cast per il suo nuovo film: ma Blair, Trent, Julian, sue vecchie conoscenze di “perdizione”, sono affamati d’inferno e vogliono trascinare il loro vecchio amico sempre più in basso. Costi quel che costi. La “ciliegina sulla torta” per Clay è l’incontro con la meravigliosa quanto inquietante Rain che lo rinchiuderà in un labirinto di terrore e paranoia. Il cocktail narrativo è ben riuscito: disperazione, violenza, paranoia, autoindulgenza, e degradazione sono gli atomi costitutivi del mondo di dannati che popolano le pagine di “Imperial bedrooms”, dove Ellis diventa il nostro Virgilio. A mio avviso, con questo “Imperial Bedrooms” Ellis si conferma uno scrittore di proporzioni stratosferiche, dimostrando come un’attenta sorveglianza sul linguaggio, può generare un multiforme e pulsante groviglio di immagini, sensazioni, stati d'animo, vicini alla granulosità dell’onirico e del surreale. Ellis passa in rassegna i disperati del mondo del cinema, fatto di festini, attricette disposte a tutto per ottenere dei ruoli, produttori dallo spessore morale di uno sciacallo Insomma una meravigliosa perla letteraria, con una sola controindicazione.: andrebbe letto dopo aver deglutito tutte le precedenti opere di Ellis.

martedì 2 novembre 2010

Il libro del giorno: XY di Sandro Veronesi (Fandango Libri)



















Un albero ghiacciato, di un rosso vivo, pulsante, intriso di sangue. È la prima immagine che appare a don Erme-te, Zeno e Sauro. Una strage indicibile si è consumata ai piedi di quell’albero, e solo una prodigiosa nevicata ha lenito l’orrore di quegli undici corpi straziati da undici cause di morte diverse, avvenute contemporaneamente, in un lampo. I quarantadue abitanti di Borgo San Giuda, travolti dall’onda d’urto di quel mas-sacro, si ritrovano al centro del mondo mediatico. Semplici testimoni del male, diventano i protagonisti dimenti-cati di questa storia, e tutti insieme scivolano nella follia. Don Ermete non può abbandonare la sua gente e insieme a Giovanna Gassion, giovane psichiatra della ASL in fuga da un amore finito, cercherà in tutti i modi di mettere in salvo quel mondo di poche anime perse e mute, che sembrano lontanissime ma che in realtà siamo noi. Pagina dopo pagina sembrerà di essere lì a calcare forte il passo per non essere spazzati via da quel vento che tira gelido e senza sosta, di entrare in quelle case modeste dove germina la follia, di incrociare quegli sguardi disperati e soli, e infine di sentirsi lievi e salvi, una volta arresi davanti al mistero. X e Y, uomo e donna, fede e scienza, si incontrano e si scontrano fin quasi a sovrapporsi in un’eroica libera-zione dalla dittatura della ragione, umiliata dall’assurda danza del male. Dopo Caos Calmo, Sandro Veronesi tor-na con un romanzo profondo, sapiente, pieno di umana comprensione: la sua scrittura avvolgente, che disegna curve morbide e leggere come scivolando sulla neve fresca, ci regala altri momenti di esilarante bellezza e due nuovi personaggi indimenticabili – salvo scoprire alla fine che uno dei due lo conoscevamo e lo amavamo già

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lunedì 1 novembre 2010

J.A.S.T di Lorenza Ghinelli, Daniele Rudoni, Simone Sarasso (Marsilio)













New Jersey, 2007: qualcosa di molto pericoloso viene rubato da una base militare del governo americano. Quattro agenti segreti si mettono sulle tracce dell'oggetto misterioso, lo inseguono attraverso tre continenti sfidando la morte per portare a termine la missione. Aisha, l'esotico fiore all'occhiello della CIA, Mordechai Dekhnavitsh, il numero uno del Mossad e Viscardi, lo spietato assassino del Vaticano. Tutti i Servizi del mondo sono a caccia della Spia, l'uomo senza nome che ha rubato ciò che potrebbe cambiare le sorti dell'intero pianeta. Un oggetto narrativo senza precedenti, un'esperienza d'intrattenimento unica nel suo genere: J.A.S.T. è un romanzo, ma non è solo un romanzo.
I tre volumi contenuti nel prezioso cofanetto raccolgono i dieci episodi della serie che rivoluzionerà la narrativa d'azione. Ogni episodio di J.A.S.T. ha la durata, il ritmo e lo stile narrativo delle puntate delle fiction televisive americane.

Le origini della Cabala di Joseph Leon Blau a cura di Fabrizio Lelli (Edizioni Controluce)








Cosa sappiamo in realtà della Cabalà? Possiamo provare a definirne i confini, a perimetrarne le eventuali eccedenze, procedendo per esclusioni e inclusioni di contenuti che magari potrebbero indurre a confusione, ma sempre sarà difficile farne un ritratto esaustivo. Facciamo riferimento innanzitutto ad una forma di sapienza che riguarda la mistica e la spiritualità, che attinge il suo sapere dalla Bibbia ebraica. Questa forma di sapienza consegna a quanti vi si avvicinano insegnamenti di altissimo valore e profondità, indispensabili ad intraprendere un percorso di gioia alla ricerca di Dio e della Verità. Questo sapere, è un propulsore eccellente per l’interiorità dell’uomo, nel senso che è in grado di sostenere un completo processo di trasformazione consapevole che può portare l’uomo alla Verità assoluta. Ma non solo … La Cabalà con la sua dottrina può unificare i molteplici modi coi quali scienza e religione decodificano la creazione e la vita. Alla scienza la Cabalà insegna l’essere umili, insegna l'importanza dell’evoluzione dell'essere umano, l'apertura e l'elasticità mentale, le affascinanti profondità degli insegnamenti spirituali, e molto molto di più! Le edizioni Controluce ora danno alle stampe uno splendido lavoro di Joseph Leon Blau, pubblicato negli Stati Uniti, e per la precisione a New York, nel 1944. Questo lavoro affronta in maniera scientifica la Cabbalà, cercando di mettere per un po’ da parte gli aspetti magico/esoterici, e portando nuova luce a tutta quella interpretazione cristiano /rinascimentale di questo sapere, ancora oggi oggetto di facili critiche e numerose malversazioni. Ma grazie ad un’attenta ricerca sulle fonti e sui testi da parte dell’autore, “Le origini della Cabbalà” è destinata ad essere un’opera di sicuro successo. Blau considera l’evoluzione della dottrina fiorita nell’Europa occidentale alla fine del XV secolo, dai suoi primi “vagiti” ancora radicati nel pensiero cabbalistico ebraico medievale e contemporaneo, fino alle opere ormai pienamente autonome degli inizi del XVII secolo. Nel volume sono presenti numerose testimonianze di una multiforme produzione letteraria trascurata dalla ricerca accademica, che fino a non poco tempo fa ha considerato la Cabbalà – sia quella ebraica che quella cristiana – alla stregua di un groviglio ciarlatanesco di miti e leggende più consono a un pubblico infervorato dall’amore per le scienze occulte. La ricostruzione filologica del Blau ri/consegna a questa dottrina il ruolo di potente strumento alla base della ricerca intellettuale del Rinascimento europeo, nonché la sua funzione significativa per il rinnovamento dell’ermeneutica testuale moderna e per la formulazione di nuovi criteri di accesso alla conoscenza universale.

Joseph Leon Blau (1909-1986), insigne studioso americano di storia e pensiero ebraico, è stato docente nel dipartimento di studi religiosi della Columbia University di New York dal 1944 al 1977. Tra le sue principali pubblicazioni menzioniamo: Men and Movements in American Philosophy (1952); The Story of Jewish Philosophy (1962); The Jews of the United States, 1790-1840 (curato con S. Baron, 1963); Judaism in America (1976).

Fabrizio Lelli insegna lingua e letteratura ebraica all’Università del Salento. Si occupa principalmente delle tradizioni cabbalistiche ebraiche fiorite nell'Italia del Rinascimento. Ricordiamo le edizioni da lui curate: Yo’anan Alemanno, ‘ay ha-‘olamim (L’Immortale). Parte I: la Retorica (1995); Eliyyah 'ayyim ben Binyamin da Genazzano, La lettera preziosa (Iggeret Êamudot) (2002). Ha inoltre curato l’edizione italiana dei saggi di M. Idel, Cabbalà: nuove prospettive (1996); Id., Mistici messianici (2004); Id., La Cabbalà in Italia (1280-1510) (2007).

domenica 31 ottobre 2010

Il libro del giorno: Streghe di Carlo Codacci Pisanelli (Libellula edizioni)












Nel presente volume sono stati raccolti i risultati di una ricerca sul campo che, dopo un attento riesame e snellimento del testo, si vuole restituire alla gente del Salento, come un prezioso bagaglio culturale costituito dai coloriti racconti trovati e registrati.L’ obiettivo della ricerca si è focalizzato sulla figura delle macàre e sulle loro attività magiche, ricostruite attraverso i racconti della tradizione orale contadina.

Dai racconti di un recente passato, che risale agli anni del dopoguerra, si passa ad un’analisi degli attuali maghi e guaritori, cercando di rinvenire un filo conduttore fra le antiche e le moderne pratiche magiche.Il materiale etnografico raccolto ci ha portato a seguire tre linee guida principali: i racconti sulle macàre e le loro capacità di trasformarsi in animali; i racconti su fatture, malocchi e macarìe; le attività terapeutiche. La figura delle macàre si presenta come un’immagine poliedrica dalle varie sfaccettature sulla quale si riflettono le problematiche della società contadina del dopoguerra. Allo stessotempo, però, le macàre, nel loro ruolo di mediatrici culturali si presentano come le detentrici di un antico sapere simbolico e le uniche capaci di ristabilire situazioni al limite dell’ordinario e e di restituire un ordine alla realtà.

The Shadow effect – il potere del nostro lato oscuro a cura di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson (Sperling e Kupfer)

Tempo, Spazio, Essere sono pura illusione. Prima riusciamo a mettercelo in testa prima eviteremo inutili perdite di tempo che rischiano di farci perdere importanti passaggi destinali. Cerco di spiegarmi meglio. Quando si fa riferimento all’illusione che ci circonda non voglio riferirmi a nulla che sia un capzioso rimando alla scoperta di “quanto sia profonda la tana del bianconiglio”, ma semplicemente voglio riallacciarmi a quanto sostenuto in miei precedenti interventi sul New Thought e la Fisica Quantistica di Fred Alan Wolf. Il Passato il Presente e il Futuro sono solo possibili scenari di quello che la forza della nostra mente è in grado di creare, ovvero la possibilità di incidere su eventi accaduti in passato per modificare il presente e manipolare gli sviluppi di plausibilità onto/fenomenologiche, dipende dalla visualizzazione di ciò che desideriamo. Dunque “horror vacui” derivanti dalla spaesante presa di coscienza del “qui e ora”, i sensi di profonda inadeguatezza che scaturiscono dall’osservare l’orizzonte di un futuro incerto e avvolto ancora da una folta coltre di nebbia, melancolia, tedium vitae, e quant’altro sono pure costruzioni mentali. Il “trucco” se così lo si può definire, è nel “visioning”, ovvero nella visualizzazione. Ma quando ci avviciniamo a entrare in possesso dei “segreti” che potrebbero farci diventare artefici totali del nostro destino, ecco che sul cammino dell’autorealizzazione ci si mette l’Ombra. Elemento fondante un’abbondante porzione delle nostre vite , in numerose culture essa viene spesso associata al male, in contrapposizione simbolica alla luce che incarna il bene. Ma l’Ombra è anche Silenzio, che placa affanni, che ricostruisce ogni delusione e tristezza, che insegna la riduzione alla totale Semplicità. E sebbene per molti Ombra e Silenzio sono solo fonte di attrazione verso la Deriva, verso il Declino, verso l’Autodistruzione, verso la Rabbia, verso l’Abominio, verso la Tentazione, verso il Tradimento, in realtà sono presenze amiche che possono trasformarsi in validi alleati, per fare della propria vita un’opera d’arte, per fare in modo che l’energia pregna di oscurità, una volta dislocata in dimensioni di pura polarità positiva, diventi nelle nostre mani un potere straordinario. Il libro di cui mi sto occupando ha per titolo “The Shadow effect – il potere del nostro lato oscuro” a cura di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson ed è edito da Sperling e Kupfer. Ecco che allora questi immensi guru spirituali hanno fuso in un unico canto di speranza e forza, le loro diverse sensibilità per studiare il fenomeno dell’Ombra in tutte le sue sfaccettature, scandagliando le abissali tenebre dell'anima e definendo con tratti precisi un'entità come l’Ombra per definizione sfuggente . L’opera sembra continuare quelle che sono le linee guida teoretiche seguite da personaggi del calibro di Joe Vitale, Ronda Byrne, Roy Martina e molti altri, ovvero i maestri fondatori della seconda rivoluzione del “Nuovo Pensiero”. I passaggi logici illustrati in questo volume sono perfettamente collegati l’uno all’altro e questo rende - oltre all’utilità di illuminarci con verità profondissime – la lettura piacevolissima.
Libro assolutamente consigliato!

sabato 30 ottobre 2010

Il libro del giorno: Il Diacono di Andrea G. Colombo (Gargoyle Books)
















Siamo porte. Ciascuno di noi, ovunque sul pianeta. Varchi spalancati attraverso cui il Male puo' irrompere e infettare la nostra realta'.
Sino a oggi, i varchi erano tenuti sotto controllo da una Volonta' più alta e da un delicato equilibrio di forze. Ma come predetto dalle profezie, l’equilibrio e' stato spezzato e qualcosa di estremamente pericoloso e' riuscito a passare. Qualcosa di cosi' antico da non aver lasciato negli uomini neppure il ricordo di se'.
E'in mezzo a noi, ora, e si trascina dietro tutto l’orrore che per millenni e' stato faticosamente tenuto alla larga da questa realta'. Forse non c’e' piu' alcuna via d’uscita. Forse non c’e' abbastanza Bene sulla Terra per contrastare tutta la malvagita' che sta per contaminare questo mondo.
Forse, la salvezza e' nelle mani di un monaco senza memoria, senza nome, senza passato. Un uomo la cui vita e potere sono un enigma che deve essere risolto in fretta, prima che sia troppo tardi. I suoi confratelli lo chiamano semplicemente Diacono ed e' il piu' pericoloso e temuto esorcista che sia mai apparso sulla Terra, dai tempi di Gesu' Cristo.
Non resta piu' molto tempo ormai. Lo scontro finale e' prossimo. Non ci sara' alcuna pieta'. Per nessuno. Il tempo della mietitura e' giunto.

L’eroe dei due mari – di Giuliano Pavone (Marsilio X, 2010, 303 pagine, 17 euro)












Per parlare dell’Italia di oggi non si può prescindere dall’essere acidi, e un po’ malevoli, visto che tra “guardonismo” televisivo e “bunga bunga” vari il senso della perdita di orientamento è plausibile. In Italia la letteratura degli ultimi anni ha prodotto molti “beautiful monsters” dalla corrente “Gioventù cannibale” di Daniele Brolli sino al rigore del collettivo Wu Ming, per non parlare del fetish hard core di una Isabella Santacroce. E poi ci sono ancora i romanzi di Gaetano Cappelli, Niccolò Ammaniti e Melissa P. Ma esiste anche una geografia del sentire letterario, che ad esempio vede in Puglia la baresità di un “Capatosta” di Beppe Lopez edito ora da Besa, e la Taranto de “Il Paese delle spose infelici” di Mario Desiati. Ma ora la casa editrice Marsilio ci dice che Taranto è la città anche di Giuliano Pavone che pubblica “L’eroe dei due mari”. Il libro è una folta selva di anedotti, storie e malumori che si agitano sotto la cappa di una città massivamente decadente e velenosamente italsiderea. Metafora di quello che accade oggi nel nostro Paese? Sicuramente, ma vediamo di entrare nello specifico. Un evento improvviso, immenso e dalla portata quasi galattica sconvolge la città della Marina Militare: Luìs Cristaldi, fuoriclasse brasiliano dell’Inter, vuole mantenere fede ad un voto singolare e bizzarro. Luìs Cristaldi vuole giocare una stagione, GRATIS, nel Taranto, piccola squadra della C1 ripescata in B per chissà quale scherzo del destino, e che ora giustamente sogna la A. L’esaltazione dei tifosi tarantini raggiunge livelli parossistici, tanto da lambire anche porzioni della società civile addirittura lontane dal calcio e da tutto il suo mondo fatto di miliardi, pubblicità e “pubbicità veliniche”. Si tratta di un libro scritto non solo bene, ma che fornisce diverse chiavi di lettura e dunque può essere letto a più livelli: si parla di Puglia in maniera poeticisima; si parla di voglia di farcela partendo proprio dal mondo del calcio calato in contesti socio/economici non proprio floridi; si parla di malesseri non troppo latenti che raccontano di personaggi strani, scapestrati, scavezzacollo vari e multicolori, di disoccupazione, di margini e marginalità; si parla di giornalismo sportivo con i suoi se e i suoi ma … Fondamentalmente Giuliano Pavone ci regala una brillante narrazione che può leggersi come una parodia di una parodia della commedia all’italiana, ma che lascia un po’ di amarezza, una volta terminato il libro, perché la lucidità con cui vengono descritte quelle latitudini rivela come non tutta la sporcizia può essere nascosta sotto il tappeto … naturalmente chi ha orecchie per intendere …


venerdì 29 ottobre 2010

Il libro del giorno: Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo per le edizioni ETS. A cura di Sandro Montalto















In occasione della pubblicazione del nuovo romanzo di Umberto Eco "Il cimitero di Praga", le Edizioni ETS sono liete di segnalare il volume:
"Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo" a cura di Sandro Montalto.

Con scritti di:
Paolo Bertetti, Sandra Debenedetti Stow, Paolo Fabbri, Gio Ferri, Margherita Ganeri, Sandro Montalto, Gianni Vattimo, Franco Cardini, Paolo Isotta, Giulio Andreotti, Eugenio Carmi, Maurizio Costanzo, Paolo Domenico Malvinni, Renzo Paris, Aldo Rosselli, Paolo De Benedetti, Pier Paolo Ottonello, Ennio Peres, Giuseppe Varaldo, Achille Varzi, Philip Weller, Gianluca Salvatori, Enrico Solito.

L’estrema libertà è la principale virtù (altri diranno: difetto) di questo libro, nato per omaggiare Umberto Eco al di là di ogni occasione accademica o genetliaco. Libro errante – come errante è il pensiero di Eco – non pretende di rendere conto della vastità degli interessi del professore, nonché dei suoi contatti, delle sue collaborazioni, dei debiti che il mondo culturale in genere ha con lui, grazie alla sua attività vorticosa ma equilibrata, caratterizzata da arguta intelligenza, ma anche da luciferina rapidità di intuizione. L’unico impulso a collaborare al progetto da parte degli autori è la volontà di omaggiare un pensatore con rilassato piacere e senza affanni. Per questo motivo essi sono solo una minima parte di coloro i quali avrebbero voluto (e potuto) farlo. Per lo stesso motivo alcuni campi di interesse del Nostro non vengono trattati, mentre altri fanno diverse comparse sotto diverse ottiche. Sempre in virtù della grande libertà che attraversa le pagine di questo libro, accade poi che alcuni illustri autori si siano espressi sconfinando dal loro abituale ambito di competenza, il che giova molto a un volume come questo.

Pagine: 300; Prezzo: € 23,00

IL SUD DEL PRIMO 900, LE DONNE E IL DESTINO NEGATO. INTERVENTO DI ROBERTO MARTALO'














L'amore, la fede, il potere in un paesino del Sud Italia ai primi del '900: La badessa di San Giuliano offre molti spunti di riflessione. Entrata spontaneamente in convento per emanciparsi dalla nobile famiglia e per sfuggire a una vita già designata dai genitori e dall'asfittico ambiente del suo paese d'origine, suor Crocifissa, al secolo Lucrezia Jacobellis dei baroni di Terracciano, diventerà badessa di San Giuliano sia per le sue capacità umane e morali che per la sua abilità di amministrare i beni, doti che la faranno apprezzare dalla maggior parte delle suore. Improvvisamente la vita la mette dinanzi a situazioni e soprattutto sentimenti sconosciuti: innanzitutto l'amore per Pietro Forzano, che la porterà ad avere una tormentata relazione di passione e dolore al tempo stesso; quindi il rancore e le gelosie di uno sparuto gruppetto di suore, istigate dall'invidia e dall'avidità di Suor Benedetta, divenuta monaca non per vocazione o scelta propria e desiderosa di avere il potere al punto da mettere in giro voci false sul conto della badessa e sulla vita che si svolge nel convento. Infine la falsa umanità del vescovo che non è capace di leggere nei cuori delle povere sorelle perché troppo preso a pensare alla sua immagine e alla sua rispettabilità. Marisa Di Bello ricostruisce in forma romanzata una storia vera, testimoniata da un fitto carteggio tra Curia e Convento; una storia che si offre come paradigma della condizione sociale delle donne nel nostro Meridione agli inizi del secolo scorso quando nel Nord, e ancor prima in altri Stati europei, esse già contavano qualcosa in società non solo come madri di famiglia ma come soggetto pubblico in grado di portare sviluppo alla comunità. Fa tutto questo con estremo garbo e grande sensibilità, offrendo sempre il punto di vista femminile. Ma questo romanzo presenta anche altre chiavi di lettura: infatti, non solo ci parla delle difficilissime condizioni delle donne dell'epoca, ma ci dice anche come per secoli la nostra società abbia rinunciato all'apporto delle donne, impedendosi dunque di crescere. Ancora, è uno scritto sulla sincerità della fede e sul suo significato: molti preti e molte suore si erano dati al clero non per vocazione ma per ricavarne vantaggi terreni e materiali. Infine, è una narrazione sul potere che acceca gli uomini: come dice la Di Bello “Potere, demone sempre in agguato che semina infelicità e sofferenze tra i popoli. Che soffoca gli ideali dei puri e spegne vite incolpevoli”. Una storia dunque che fa luce sull'uomo e sui suoi sentimenti e passioni, che ancora oggi possono far soffrire.
La Badessa di San Giuliano di Marisa Di Bello (Besa Editrice, 263 pag, 20 euro)

giovedì 28 ottobre 2010

Il libro del giorno: Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno (Mondadori)















Nell'appartamento di Samuel Pontecorvo fa irruzione la bella cognata Anna, disperata: Filippo, unico fratello di Samuel e marito di Anna, è scomparso. Durante la lunga notte in cui Samuel e Anna si fronteggiano: intorno a loro danzano i fantasmi degli anni che li hanno condotti fin lì. Quelli dei genitori di Samuel e Filippo, la loro ascesa e la loro rovina: lo scandalo che ha segnato per sempre il padre Leo, oncologo travolto da accuse infamanti; la reazione della moglie, rifugiatasi nel rigore dell'ortodossia religiosa. E quello di Filippo, giunto alla fama internazionale per aver restituito "charme allo sdegno civile e sex appeal alla protesta umanitaria" con un film d'animazione che denuncia un planetario traffico di organi di bambini. Ma, soprattutto, c'è il rapporto Ira i due fratelli uniti sino alla simbiosi durante l'infanzia e poi avviati lungo percorsi sempre più speculari.

Cicatrici, di Gianluca Morozzi (Guanda). Intervento di Nunzio Festa





















In una città del Nord, forse Milano, un uomo ha compiuto un omicidio in pubblico. E, quest'uomo ormai colpevole, spiega la sua vita e la sua azione alla psicologa chiamata a periziarlo. Ma prima, e ovviamente, dopo, e certamente durante questo “Cicatrici” - nuovo libro del mai giustamente amato autore bolognese Gianluca Morozzi, un padre irlandese massacra quasi la sua intera famiglia. Ed è da qui, anzi, che comincia la storia. Vicenda, tutta, che se inizialmente sembra condita e poi persino ammantata di pretestuosità, si sviluppa con una leggere, scioltezza, scorrevolezza impareggiabile. Alla Vitali delle opere migliori, per far capire. E, infine, sotto una certa luce che porta al noir e che nel contempo ci porta fuori dal noir. Per dire d'un'avventura che prende in ogni accento. Soprattuto a targhe inattese. Ad azioni impensabili. Fitta fitta, in toto, di colpi di scena. Che mai si comprenderà che cavolo c'entri infine il padre d'Irlanda con il quasi anonimo, quanto buono, Nemo Quegg. Nemo, protagonista del romanzo, è finito (si diceva) in gabbia per un delitto atroce. Ha accoltellato, davanti a tanta gente, persino bambini, un uomo. Con freddezza e premeditazione. Senza meritare, d'altronde, l'infermità per mente alluvionata. Morozzi, lo scrittore che normalmente stupisce con trame prese da una fantasia in continuo rinnovarsi, di nuovo mette insieme la brillantezza del suo stile asciutto e scattante con una trama che disegna vicende su vicende. Nonostante non s'arrivi a pagine da scartare, specialmente. Questo nuovo romanzo è suddiviso in: prologo (il massacro), la strana storia del tipografo triste, 1942 e oltre, Karmageddon; e si prenda pezzo per pezzo al fine di sapere più esattamente. Che solo in Karmageddon sappiamo dove nasce l'idea della storia e da cosa la storia davvero sia attraversata. A questo punto è da scrivere o no? No. Almeno per adesso. Ma con l'invito a leggere. Perché la trovata è di quelle, similmente al passato, geniali. Se in “Blackout” il sangue sgorgava più fortemente e nel frattempo rigenerava gli episodi a ogni loro piccolo relax, in questo “Cicatrici” quello che passa Felice, uomo o donna?, sangue a parte, è persino più travolgente. Sconvolge. Che, di fondo, esiste una linea, chiaramente spiegata, utile a farci comprendere persino il motivo d'una certa sottomissione. O di un certo tipo, più esattamente, di sottomissioni. I caratteri di questa storia, quelli dei personaggi insomma, si mischiano al netto delle loro fluorescenza psicologiche. A questa ragione sarà quello che non s'è scritto qui a giustificare ogni cosa. Il prolifico Gianluca Morozzi, che ha in cantiere attualmente diverse altre opere, è tornato davvero allo spessore di “Blackout”. Mettendo fuori questo noir (noir insolito?), dove un tipografo triste sente una strana, sconosciuta, musica. E s'innamora. Un medico s'innamora, però, d'una strana, 'sconosciuta', tirocinante d'ospedale. Dall'altra parte del mondo, nei sogni, altro avviene. Cose comuni. Ma già sentite? Portare esempi, grazie.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il libro del giorno: Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali di Piero Gobetti a cura di Guido Davico Bonino (Edizioni Controluce)













Con Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali viene avviato un progetto di Opere scelte in tre volumi di Piero Gobetti (1901-1926). Il primo volume raccoglie, come il sottotitolo esplicita, un’argomentata e ampia antologia di interventi di questo grande intellettuale e pensatore politico, prematuramente scomparso per mano del regime fascista, sia sul fronte della letteratura che su quello del teatro. Attraverso le tre riviste dirette e fondate da questo febbrile “operatore culturale” nell’arco di sette anni – dal novembre 1918 alla morte a Parigi nel febbraio 1926 – Gobetti interviene sui nodi cruciali dell’attività letteraria ed editoriale italiana (fu, com’è noto, editore in proprio) – dal vocianesimo al futurismo, dalla “scoperta” dei narratori russi a quella degli scandinavi – e, succeduto come critico teatrale ad Antonio Gramsci sul torinese “Ordine Nuovo”, sulla tirannia dei primattori, come il positivista Ermete Zacconi, sull’esigua tradizione italiana, su Pirandello e i grotteschi, sino alla precoce valutazione del teatro francese di ricerca, da Paul Fort a Lugné-Poe ad Antoine.

Il volume, curato da Guido Davico Bonino, già docente di Storia del Teatro all’Ateneo torinese, è arricchito da una sua ampia introduzione.

Fanfarije, di Assunta Finiguerra. Prefazione di Franco Loi (LietoColle). Intervento di Nunzio Festa
















Assunta Finiguerra c'ha lasciato poco più d'un anno fa, il 2 settembre 2009. I due libri postumi pubblicati da due diversi editori (Mursia e LietoColle), una buona opera comunque, non bastano a farci svilire la forma più amara dell'assenza. Perché manca tutto l'anima sentimentale della poetessa Assunta Finiguerra. Nonostante rimarrà la sua parola. O almeno parte d'essa. Come, tra le altre cose, fa intuire il poeta, anch'egli dentro il 'dialettale', Franco Loi. E disistima a parte e in generale per la stessa poesia in dialetto, dunque, i versi di Assunta Finiguerra da San Fele, provincia di Potenza, c'hanno insegnato a non snobbare l'espressione in lingua regionale. In lucano per dire. Che la Basilicata, in effetti, a mille rivoli di dialetto eppure sonorità che altri avevano tentato persino d'offrire, in un passato più remoto, al mondo intero. Qualche anno fa, tra le altre cose, Assunta Finiguerra, prima d'essere bloccata e martoriata dalla malattia, decise d'accettare l'invito e/o proposta di fare da giurata al Premio Letterario “La città dei Sassi”, di Matera. Occasione per la quale accettò con garbo e durante la quale ci stette vicino con forza e attenzione/i. Ora che LietoColle, editore da sempre amico della Finiguerra, ha deciso di dedicarle questo importante volume, ma che è essenzialmente un omaggio alla poesia di qualità, alla vera poesia, ci si trova difronte a un corpo di testi che vedono tornare le 'dadate' sillogi “Rescidde” e “Solije”, insieme agli inediti componimenti dell'eponima “Fanfarije”. E prima di soffermarci proprio su quest'ultima, è necessario ricordare che tra le diverse pubblicazioni in vita, Finiguerra ci lasciò una trascrizione-trasposizione nel suo dialetto del nazionale “Pinocchio” (LietoColle). “È sscesë a lunë indë Sandë Félë / rë cchianë nda rë vvijë forë i pannë / restënë a gguardà i cuorvë ngiélë / ca strafochënë ciacëlijannë.” (È scesa la luna dentro San Fele / i sassi nelle vie fuori dai panni / restano a guardare i corvi in cielo / che si alimentano ciarlando”. Diceva un tempo la poetessa. A boccate d'irriverenza. Chissà, per esempio, tanto per ricominciare, se il suo Dio (invocato e fatto ballare) l'ha trovata davvero 'vestita' da “capro con il cuore di agnello”. Inutile parlare, citare, testimoniare i riconoscimenti ricevuti dalla poetessa di San Fele. Dunque meglio perdersi in “Fanfarije”. Che abbiamo in mano, tra l'altro, grazie al lavoro meritorio di Diana Battaggia: già vicina all'autrice lucana in molti momenti. Nella memoria presente d'endecasillabi accovacciati nell'intimità universale, frustata dalla tristezza, dal dolore dalla malattia pigliamo il sorriso della provocazione. Il gusto dell'ironia onirica. Dove il sesso è 'forzato'. Forzoso. Perché naturale è, per aggiungere, messo a contrasto della sofferenza. Ma a mo' di provocazione altissima, dunque. E Assunta Finiguerra ci spiega come nonostante il corpo a corpo, anima ad anima persino, con la morte intravista dalle finestre mezze abbassate, si possa creare versi alle quali il mondo intero deve abbeverarsi. Che le sonorità, su tutto assonanze e consonanze, quando non proprio rime, sbriciolano lo stesso muro del sanfelese per entrare nelle lingua italiota: mai così vissuta, infine, da galli e da gente (ambiente) comune. In nome d'una reale liricità. Le lettere italiche dovrebbero dare di più alla poetessa Assunta Finiguerra. Oggi, per giunta, che sapendo quanto nella vita finita presto aveva detto ci si dovrebbe accorgere dell'incisività di poesie indietro e avanti al tempo, accovacciate nel presente cangiante. I componimenti di Assunta Finiguerra, ognuno dei suoi testi, ci riferisce almeno una parola imperdibile. Indimenticabile.

martedì 26 ottobre 2010

Il libro del giorno: Dimmi chi sei, Marlowe di Frank Spada (Robin edizioni)













Il detective Marlowe è momentaneamente parcheggiato in una clinica di Loco Hermoso, in territorio messicano. In convalescenza dopo un intervento chirurgico, si gode le cure dell’incantevole Miranda, l’infermiera dei sogni proibiti di ogni malato. Lasciato il Messico e rientrato a casa, Marlowe riceve una telefonata dalla signorina Conchita, sorella gemella di Miranda. Ugualmente bella da mozzare il fiato, la señorita rifila alla curiosità del detective strane storie di certi amori proibiti, costringendolo a seguire un caso pieno di sorprese e soprattutto a fare i conti col suo doppio, quel gemello siamese che lui s’è trovato cucito alla coscienza.
Tra molti “pollicini” e interminabili sigarette, spuntini al Minnie’s bar dove oltre al cibo c’è sempre un balconcino da apprezzare, in sella alla sua Olds Marlowe segue la pista di due antichi gioielli che uniti simboleggiano la vita eterna e per i quali più di qualcuno è disposto a uccidere.
Sequenze da film e colpi di scena, tra richiami letterari e acrobatiche metafore, non ultima quella che vede il detective con la sua baby alla tempia, mentre il jazz della West Coast si fa più acuto…

La casa editrice Kurumuny finalista al Premio Internazionale "Cesare De Lollis con 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini








La giuria del Premio Internazionale "Cesare De Lollis" giunto all'ottava edizione ha reso noto i titoli delle opere finaliste che concorreranno all'assegnazione del primo premio. Le opere finaliste per la sezione narrativa sono: La prima notte solo con te di Arnaldo Colasanti (Mondadori); Fare scene di Domenico Starnone (Minimum fax), Eva dorme di Francesca Melandri (Mondadori), Rosso Floyd di Michele Mari (Einaudi), Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek (Guanda), Devozione di Antonella Lattanzi (Einaudi), Vento di tramontana di Carmelo Sardo (Mondadori), Storia della mia purezza di Francesco Piccolo (Mondadori), Una terra spaccata di Emilia Bersabea Cirillo (Edizioni San Paolo), L'anno delle ceneri di Giuseppe Schillaci (Nutrimenti).

Per la sezione saggistica le opere finaliste sono: Senza vergogna di Marco Belpoliti (Guanda), Pane nostro di Predrag Matvejevic (Garzanti), Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria (Einaudi), Il mostro mite di Raffaele Simone (Garzanti), Città flessibili di Corrado Poli (Instar libri), La fiamma rossa di Gianni Mura (Minimum fax), Filosofia fuori le mura di Giuseppe Ferraro (Filema), Il mio circuito si chiama Paradiso di Carlo Nesti (Edizioni San Paolo), 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini (Kurumuny Ed.), Breviario di italiano di Lucio D'Arcangelo (Solfanelli).

Sul passaggio – L’indugiare poetico nei versi di Anastasia Leo (Il suono dell'orologio, Luca Pensa Editore). Intervento di Eliana Forcignanò












Vi è nel ticchettio degli orologi l’ossessione martellante del tempo che scorre e che questi strumenti sono chiamati a misurare, a quantificare e, nel contempo, a segnare come già stato: un autentico paradosso sancire con un’emissione di suono e, dunque, con un movimento vitale – sebbene meccanico – la morte, il non più. Quando l’ora scocca, l’ora è fuggita e già Aurelio Agostino rifletteva sulla dimensione effimera del tempo: il futuro non è ancora e il presente trapassa subito nel passato, che cosa rimane se non il carpe diem di oraziana memoria, l’invito a cogliere la rosa prima che appassisca perché, come scriveva Mimnermo, siamo come le foglie che il vento disperde nello spazio di un soffio. Dì là dalle citazioni colte, esistono uomini e donne che sono o si percepiscono profondamente inadatti a vivere l’attimo: si tratta di soggetti che hanno un respiro più lungo dell’istante, la cui profonda esigenza è quella di raccogliersi estasiati dinanzi alla bellezza anche per una durata indefinita e di trincerarsi nella propria interiorità a meditare sulle inspiegabili epifanie del male per un tempo che non conosce limiti – ciò che, nel linguaggio comune, si definisce “ruminazione” – né interruzioni. Inspiegabili le epifanie del male perché il male è accidente nella persona non sostanza: qui si potrebbe obiettare che ciascuno è in grado di compiere il male e che, dopo la cacciata dall’Eden, l’umanità si trova in una condizione peccaminosa sulla quale soltanto la Grazia può intervenire, ma, allora, perché, nel ricevere il male, si soffre in maniera così accanita fino a volerlo allontanare e respingere? Se il male fosse sostanza umana, esso non dovrebbe generare tanta sofferenza nell’uomo, benché la stessa ragione, che pure appartiene alla sostanza dell’uomo, procuri talvolta sofferenza e tedio esistenziale. Forse, il male è accidente necessario cui nessuno può sottrarsi né come artefice né come vittima. Nemmeno alla morte possiamo sottrarci, ma questo non vuol dire che la accettiamo, che rinunciamo a interrogarci su di essa e a includerla nel novero dei mali anche se morire significa esser uomini, scrivere la parola fine lì dove vi è stato un inizio, anche se si tratta di una scrittura dolorosa che non vorremmo mai vergare sul foglio. Foscolo sapeva che tutto ha fine, ma quando anche gli avelli saranno erosi dal tempo, rimarrà pur sempre la poesia a esortare chi la legge o la ascolta al compimento delle “egregie cose”. Magra consolazione per i contemporanei ora che le “egregie cose” in cui impegnarsi sono finite, ammesso che, in passato, ce ne siano state in abbondanza. Si torna, così, al discorso avviato in precedenza: meglio vivere l’attimo, godere il meglio del tempo che ci è dato e non stare a interrogarsi troppo sul futuro. Progetti a lunga scadenza avvelenano l’animo perché è impossibile sapere se si realizzeranno o meno e l’attesa esacerba la pazienza, sfianca la fiducia, devasta le energie o, almeno, così accade ai più che abdicano ai loro sogni in favore di un’esistenza tranquilla e improntata al godimento delle gioie domestiche. Alcuni – pochi in verità – spiriti preferiscono l’attesa al compimento: attendere significa donare un respiro lungo alla realtà, sorbire l’agrodolce dell’immaginario, incontrare altre attese, talvolta venate di quella piacevole trepidazione che avvolge come una coltre e mantiene vivo il calore di una speranza immalinconita appena dal timore di non raggiungere mai la meta. È la storia del viandante che cammina per raggiungere la dimora dell’amata lasciata tanto tempo prima: calpestando il suolo passo dopo passo, si chiede se la donna lo aspetti serbando intatta la memoria dell’ultimo amplesso e, intanto, lui stesso ricorda il tempo trascorso insieme e si compiace di ricordarlo in maniera così nitida, quasi fosse scolpito nella sua mente. Accanto alla speranza si aggiunge il ricordo nel quale l’attesa si discioglie e si prolunga fino a divenire, nelle vicende d’amore, languore e struggimento. Tornano alla mente i carmi dei poeti ellenistici composti dinanzi alla porta chiusa dell’amata: anche in questo caso, le liriche nascono dall’attesa che i battenti si aprano al desiderio dell’amante. E il connubio di amore e morte è sempre presente nella poesia di ogni tempo, perché la poesia si colloca nel tempo: ogni istante che passa, ogni istante che trascorre senza che la porta dell’amata si dischiuda è un istante donato alla morte.

Sembra che, nei suoi versi d’esordio, Anastasia Leo (Il suono dell’orologio, Lecce 2010) abbia ben presenti queste tematiche: tempo, male di vivere, amore, morte. Il tempo che scorre inesorabile – “La vita fugge e non s’arresta un’ora” – è un tropo della tradizione poetica e letteraria internazionale: di assolutamente proprio e peculiare, nella poesia di Anastasia, vi è l’inserto di figure familiari che negano l’avvicinamento dell’ora fatidica. “La vecchia nonnina” intenta a raccontare storielle e il padre “che non si rendeva conto” – o, forse, che non gradiva rendersi conto – dell’incedere della “età oscura”, età che rimane ambigua, indefinita. Considerando la giovane età dell’autrice – Anastasia frequenta il liceo – si potrebbe credere, a tutta prima, che “età oscura” sia l’adolescenza anche se la contiguità con la parola “morte” e con il “mantello nero” che avviluppa le parole e le avvolge come in un sudario lasciano presagire un’altra fase della vita, quella prossima al trapasso. Non fa meraviglia che a questo componimento ne segua un secondo sulle “parole senza senso degli uomini”: proferire frasi che non hanno senso – là dove non si tratta di nonsensi poetici, bensì di frasi dette per superficialità, per incapacità di attendere e valutare gli esiti di un discorso o di un processo vitale – è un modo non per ingannare il tempo, bensì per smarrirlo, per disperdere il nostro e quello dell’interlocutore. La vacuità di certi discorsi esclude ed elude dal proprio seminato la riflessione sull’esistenza che dovrebbe rappresentare il nostro unico fine, prima di esser divisi dall’albero come “foglie d’autunno” – e qui ritorna Mimnermo, ma s’intravedono anche gli echi del simbolismo francese – costrette a vagolare nell’aria non avendo una destinazione. E, tuttavia, non si può tacere un interrogativo: le parole devono necessariamente avere una destinazione? La poesia ha una destinazione che non sia ecolalia, ossia ripetizione dei sentimenti e degli intendimenti del suo autore e, dunque, destinata a lui solo? A chi pensava Baudelaire quando scriveva I fiori del male e la Plath? Vi è molto di somigliante a entrambi i poeti nelle liriche di Anastasia Leo, ma non è metodologicamente corretto imbarcarsi in una misurazione delle influenze poetiche, perché la poesia è questo: continuo rimando, continua corrispondenza di pensieri, forme e ritmi che vengono attinti dalla tradizione per essere costantemente rielaborati – si veda L’angoscia dell’influenza di Bloom – e resi di nuovo in grado di comunicare qualcosa. I versi di Anastasia Leo comunicano l’attesa angosciosa della morte, del momento in cui non si è più, ma questa considerazione del momento supremo non induce a vivere meglio il tempo presente, piuttosto esorta a considerare l’inanità delle cose, il vuoto che supera l’umano affaccendarsi per avere una vita piena: piena? “Notte”, “nulla”, “impossibile”, “infinito” sono termini che ricorrono nella poesia di Anastasia Leo e che sottendono l’area semantica e psicologica della negazione. Se tutto è vano, se persino le fotografie non trattengono i volti sottoposti alla legge dell’invecchiare, rimane soltanto da vivere una vita costantemente spesa sull’orlo della negazione: io non esisto, non prego, non so e, soprattutto, niente di tutto quello che mi è accaduto mi riguarda davvero perché la mia esistenza è fatta di vuoto. Io attendo che “la morte faccia sbocciare i fiori dal mio cervello” come scriveva Baudelaire, perché la vita non ha dato loro abbastanza acqua e, perché si abbia un campo fiorito, occorrono le lacrime di chi piange sulle tombe, dinanzi ai “cancelli chiusi di un cimitero in croce” scrive Anastasia nei versi che aprono la sua raccolta densa di morte, eppure densa d’amore. Sì, amore è in questi versi nei confronti di un interlocutore non meglio precisato del quale rimane soltanto il profumo “nei pensieri di questa notte piena di sogni”: è l’innamoramento onirico tratteggiato con sapienza ancestrale dall’autrice la cui consapevolezza degli affetti oramai scardinati – “il sospiro di mia madre non mi accompagnerà nel poker della vita” – indugia, tuttavia, nel pensiero di un’altra presenza/assenza dalla quale è attinta la forza per scrivere. Qualcuno guarda e tace: nel sogno, nella realtà quando il “collo bagnato” della donna che qualcuno accarezza, perso nella contemplazione della bellezza fatta femminilità. La rievocazione dell’eterno femminino è compiuta quale sentito sacrificio alla divinità poetica: L’“America ladra degli anni Sessanta” e Wall Street non sono sterili omaggi alla Beat Generation, calchi da poetiche già affermate e consolidate, ma il tentativo – ben riuscito – di testimoniare la femminilità del paesaggio che fa da sfondo al poetare di Anastasia Leo. Quell’America con i suoi pessimi bar dei vicoli di New York, con le sue viuzze celate agli occhi dei più, con i suoi beoni saggi – Dean il Vecchio – è donna che comprende il male di vivere e lo propina in piccole dosi ai suoi abitanti, come una madre povera permette ai suoi figlioli soltanto di sbocconcellare il pane, lasciando che essi vivano il dramma della fame, perché meglio aver fame in più persone che saziarne uno e far morire gli altri. Ma il male di vivere rimane come rimane la voglia di credere in un riscatto morale che sa di eroismo, di titanismo: andare avanti con la consapevolezza dell’infelicità. Possibile? Nella poesia la risposta e la consolazione dalla fatica di vivere.

Info: info@pensaeditore.it

lunedì 25 ottobre 2010

Il libro del giorno: Autopsia dell'ossessione di Walter Siti (Mondadori)




















Danilo Pulvirenti è un uomo che ha fatto della sobrietà e dell'intransigenza una regola di vita. Nel chiuso di questo recinto, Danilo è divorato dall'ossessione erotica; "racconto fondatore e stupido, narrato mille volte ma irrecuperabile e irripetibile", l'ossessione travolge la realtà sottomettendola a una dimensione mitica. Una "malattia sacra" che resta a lungo in incubazione, priva di un soggetto che le permetta di deflagrare: solo quando Danilo è ormai un ricco e maturo antiquario romano, con una vita rassegnata e rispettabile, l'ossessione si incarna. Usando la fotografia come strumento privilegiato, l'ossessione rivendica i propri rudimentali diritti; spezza la fragile unità dell'io e introduce nel mito la figura di un Doppio; un professore con pretese di scrittore, di cui il protagonista pensa di potersi sbarazzare facilmente. Ma questo vecchio calvo dall'aspetto inoffensivo ha dalla sua una diabolica tenacia, sicché il gioco sfugge di mano a Danilo, che finisce per approdare a un'orribile soluzione. Giocando a rimpiattino con l'autobiografia, Walter Siti ci consegna un romanzo nel quale l'ossessione erotica trasmigra dalla fiction per condensarsi in proposizioni teoriche che, tracciando i lineamenti fondamentali degli impulsi più oscuri, ci riguardano tutti. "Autopsia dell'ossessione" è l'ultimo atto della trilogia aperta da "Troppi paradisi" e da "Il contagio"

Il cimitero di Praga di Umberto Eco (Bompiani) ... una piccola anteprima!










Mentre per Mondadori esce l’ultima fatica di Walter Siti dal titolo “Autopsia dell’ossessione” (splendido romanzo dove gli impulsi più oscuri la fanno da padroni) ovvero l'ultimo atto della trilogia aperta da “Troppi paradisi” e da “Il contagio”, ecco che Bompiani non si fa attendere, e per questo autunno appena iniziato consegna ai lettori un piccolo capolavoro. Ma occorre in questo caso lavorare di fino. Siamo nel 1980. Sugli scaffali delle librerie italiane esce “Il nome della rosa” il romanzo d'esordio nella narrativa di Umberto Eco, un libro intelligente, divertente, così ricco che permette diversi livelli di lettura. Poi il 1988. Eco non perdona. Esce il “Pendolo di Foucault”, seconda prova scritturale per questo autore, ambientato nei primi anni ottanta, che come scrisse Jacques Le Goff in una recensione su L’Espresso « ... questo romanzo magico sulla magia, questo romanzo misterioso sul segreto e sulla creatività della finzione, questo romanzo tumultuoso, questo romanzo luminoso su un mondo sotterraneo... ». Penso che a queste due opere possa associarsi, guardando un po’ a tutto il percorso scritturale di Eco, il più recente “Baudolino” eccelso lavoro ambientato tra il XII e il XIII secolo dove si racconta, attraverso le parole del protagonista Baudolino, di scenari di pura fantasia e di personaggi mitici, attraverso una successione sconfinata di episodi storici e leggende, dalla fondazione di Alessandria all'Italia dei comuni e del Barbarossa; dalla nascita delle università all’incredibile viaggio alla ricerca del mitico Prete Giovanni e del Graal. Un “fritto misto” insomma tra il picaresco, il giallo, e il saggio di profilo storico. Ora dopo poco più di trent’anni dall’uscita del suo romanzo d’esordio, il Nome della Rosa, Umberto Eco (a partire dal 29 ottobre) consegna al pubblico, il suo nuovo romanzo dal titolo “Il cimitero di Praga” (ed. Bompiani). Siamo a metà dell’800. L’intenzione del Nostro, è quella di parlare, togliendosi magari anche qualche sassolino dalla scarpa, della nascita delle nazioni moderne. In filigrana si parla di un falsario, il Capitano Simonini, spia per conto di parecchi paesi d’Europa. Il riferimento più gustoso, che permea il nostro istinto di acquisto nei confronti di questo titolo, è al cimitero dove è sepolto il rabbino Jehuda Low ben Bezalel, che creo’ il Golem. Golem significa arti magiche, significa Sefer Yetzirah, significa Qabbalah. Sarà un libro che consiglio caldamente, sarà sicuramente corposo (più o meno cinquecento pagine), sarà sicuramente un capolavoro! Imperdibile!!!

domenica 24 ottobre 2010

Il libro del giorno: Uccio Aloisi, I colori della Terra (edizioni Aramirè)













Questo libro nasce da una lunga intervista al più conosciuto dei cantori tradizionali salentini: Uccio Aloisi. È suo il racconto (trascritto in dialetto e tradotto in italiano) che tocca i temi del lavoro, della musica, della lotta per una vita migliore… Il doppio CD allegato al libro consente di ascoltarne la voce che, con incredibile forza affabulatoria, ci trasporta attraverso gioie e dolori, racconti, storie, canti e musica. I canti: per Uccio è impossibile raccontare senza scandire la narrazione cantando. Ecco allora gli stornelli, mara l'acqua, la pizzica degli Ucci, Uccia canaja, Santa Cesaria, Lu Santu Lazzaru…
Tutti brani che fanno parte del vastissimo repertorio che Uccio, insieme agli altri Ucci (fra cui lo scomparso Uccio Bandello) ha reso noto a tutti gli appassionati musica tradizionale del Salento. Dalla prefazione di Alessandro Portelli: «È con l’arrivo della scrittura, della scuola, che il mondo si divide fra istruiti e "ignoranti". Uccio Aloisi è un esempio straordinario di resistenza a questa spartizione: non è istruito, ma è sapiente lo stesso. All’esclusione e allo stigma che dovrebbe comportare l’analfabetismo risponde con il sapere di una cultura orale – la lingua, i suoni, i canti, le feste, i riti; ma anche il lavoro con le sue tecniche, e la memoria storica (le occupazioni delle terre) […] È una sapienza che non è diversa solo per contenuto, ma anche per modo […] Il lavoro si impara guardando gli altri lavorare e lavorandoci insieme, magari «rubando» il mestiere; le canzoni si imparano ascoltando e cantando insieme […] Per questo, il sapere di Uccio Aloisi è soprattutto un’appartenenza, un’identità».

L’ultimo viaggio di Ucciu Aloisi, il cantore antico del Salento di Paolo Rausa

















Due giorni fa si è spento nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi. Quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare, ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, un piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino, nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. A vegliare Ucciu, che è giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, c’erano tutti i suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la sua leggera ironia, per la prontezza di spirito, per la battuta pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e per il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine lascerà tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Le potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica accompagnato dalla danza taumaturgica riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Ucciu Aloisi era considerato da tutti i giovani il depositario della tradizione. Per questo all’annuale Festa della Taranta, in agosto a Melpignano, i giovani lo applaudivano incessantemente, forse temendo data la sua età una fine imminente. Certo la pizzica ha ormai valicato lo stretto territorio del Salento per giungere in tutte le piazze dell’Europa, finanche in Cina, a rimorchio della Fondazione che ha rinnovato la tradizione, ma sempre mantenendo vivo quel canto che assumeva nelle cadenze il ritmo del suo stesso lavoro nei campi, quel lavoro di cavatore, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva in un’armonia musicale che ha forgiato le esistenze ed ha costituito la migliore testimonianza e un grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno delle genti diseredate del sud che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare ha raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribbolire il sangue e da quella raccolta è nato il suo gruppo di otto elementi, che con lo stesso nome continuerà il suo percorso culturale e umano, ben sapendo che Ucciu non li abbandonerà mai.

Poggiardo (Le), 22 ottobre 2010

sabato 23 ottobre 2010

Il libro del giorno: Garbatella combat zone di Massimiliano Smeriglio (Voland)














Valerio, trentenne precario, si porta dentro filamenti di memorie acide, inquietudini capaci di trasformarlo in un lupo solitario attratto dal profumo del sangue. Le storie della sua famiglia e quelle del quartiere si intrecciano con le velenose lusinghe del Garbatella combat zone, con violenze e rapine, ferite e tradimenti. Il sogno di un Messico idealizzato e poi perduto tra le nebbie del narcotraffico torna a essere una meta, un approdo dove ricominciare prima che sia troppo tardi. Una fuga rocambolesca, un viaggio senza ritorno. Ma il passato non si può cancellare tanto facilmente...

Massimiliano Smeriglio vive e lavora a Roma. Ha pubblicato saggi e articoli sulla politica, il sociale, la città e la cittadinanza, fra cui Se Henry Ford avesse risposto al telefono (Magma edizioni, 1999), Città comune, autogoverno e partecipazione nell'era globale (Deriveapprodi edizioni, 2006), Walter ego. Gli anni del principato romano (Liberazione edizioni, 2007). Collabora con la rivista “Loop – culture linguaggi e conflitti dentro l’apocalisse

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