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domenica 24 ottobre 2010

L’ultimo viaggio di Ucciu Aloisi, il cantore antico del Salento di Paolo Rausa

















Due giorni fa si è spento nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi. Quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare, ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, un piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino, nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. A vegliare Ucciu, che è giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, c’erano tutti i suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la sua leggera ironia, per la prontezza di spirito, per la battuta pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e per il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine lascerà tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Le potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica accompagnato dalla danza taumaturgica riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Ucciu Aloisi era considerato da tutti i giovani il depositario della tradizione. Per questo all’annuale Festa della Taranta, in agosto a Melpignano, i giovani lo applaudivano incessantemente, forse temendo data la sua età una fine imminente. Certo la pizzica ha ormai valicato lo stretto territorio del Salento per giungere in tutte le piazze dell’Europa, finanche in Cina, a rimorchio della Fondazione che ha rinnovato la tradizione, ma sempre mantenendo vivo quel canto che assumeva nelle cadenze il ritmo del suo stesso lavoro nei campi, quel lavoro di cavatore, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva in un’armonia musicale che ha forgiato le esistenze ed ha costituito la migliore testimonianza e un grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno delle genti diseredate del sud che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare ha raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribbolire il sangue e da quella raccolta è nato il suo gruppo di otto elementi, che con lo stesso nome continuerà il suo percorso culturale e umano, ben sapendo che Ucciu non li abbandonerà mai.

Poggiardo (Le), 22 ottobre 2010

sabato 23 ottobre 2010

Il libro del giorno: Garbatella combat zone di Massimiliano Smeriglio (Voland)














Valerio, trentenne precario, si porta dentro filamenti di memorie acide, inquietudini capaci di trasformarlo in un lupo solitario attratto dal profumo del sangue. Le storie della sua famiglia e quelle del quartiere si intrecciano con le velenose lusinghe del Garbatella combat zone, con violenze e rapine, ferite e tradimenti. Il sogno di un Messico idealizzato e poi perduto tra le nebbie del narcotraffico torna a essere una meta, un approdo dove ricominciare prima che sia troppo tardi. Una fuga rocambolesca, un viaggio senza ritorno. Ma il passato non si può cancellare tanto facilmente...

Massimiliano Smeriglio vive e lavora a Roma. Ha pubblicato saggi e articoli sulla politica, il sociale, la città e la cittadinanza, fra cui Se Henry Ford avesse risposto al telefono (Magma edizioni, 1999), Città comune, autogoverno e partecipazione nell'era globale (Deriveapprodi edizioni, 2006), Walter ego. Gli anni del principato romano (Liberazione edizioni, 2007). Collabora con la rivista “Loop – culture linguaggi e conflitti dentro l’apocalisse

Rossella Piccinno: “Mi piace raccontare storie”. Intervista a cura di Angela Leucci








Rossella Piccinno ha girato “Hanna e Violka” (Kurumuny edizioni) perché voleva raccontare una storia come tante. La storia delle governanti di famiglia, che tra tante difficoltà accudiscono i nostri anziani, che loro chiamano “nonni”, un vezzo di intimità in un certo senso motivato dalla profonda confidenza che queste persone prendono con le nostre case.

Perché i documentari non sempre hanno dietro una perfezione tecnica della fotografia e di altro?

In realtà, c'è grande cura anche nel realizzare un documentario. La parola infatti indica un'accezione generica, perché ne esistono moltissimi tipi. Nel caso del mio lavoro, bisogna considerare che è stato assolutamente low budget. Ho iniziato totalmente sola, anche perché la storia aveva qualcosa di moto intimo, e si basava su un girato a stretta prossimità coi personaggi, per cui chi girava doveva avere un bassissimo impatto con la vita quotidiana dei protagonisti. Sarei stata un corpo esterno che invade uno spazio, per cui se avessimo chiamato anche direttore fotografia, elettricista, o un'intera troupe avremmo causato molto disagio per tre mesi, oltre che generare un costo che non si poteva sostenere.

Una domanda intima: uno dei tuoi protagonisti, tuo nonno, è venuto a mancare di recente? Credi che il cinema possa rendere eterno chi non c'è più?

Non so se l'arte possa fare un regalo a chi non c'è più, pensiamo, per esempio, agli attori viventi. Non credo che questa cosa faccia parte della vita o della morte, ma certo il cinema fa durare nel tempo le persine e la scolpisce nell'immaginario, per come il mondo recepisce l'immagine. James Dean è divenuta un'icona, perché il mondo aveva bisogno di quell'icona, era una contingenza dell'intera umanità.

La tua colonna sonora è originale...

Tutta la colonna sonora è originale, è stata composta da Pierini e Mattei, ragazzi che ho incontrato durante un viaggio per caso, ho ascoltato la loro musica e mi è piaciuta, per cui abbiamo deciso che avremmo iniziato a lavorare insieme partendo da zero.

La maggior parte dei pezzi è strumentale, una scelta molto utilizzata negli ultimi anni.

La questione della musica per film è molto delicata: per esempio sono stati composti molti più pezzi di quelli che poi sono stati utilizzati, ma solo quelli scelti si adattavano, poiché altri, che magari preferivo, davano una connotazione troppo drammatica a immagini di per sé drammatiche, creando un effetto film muto. Credo che il il pezzo troppo forte crei ridondanza, per cui bisogna restare discreti.

Meglio documentario o fiction pura?

Preferisco il verosimile, perché mi interessa l'umanità, non tanto la surrealtà, per quanto anche quella può essere una metafora del reale. In tal senso, Non credo al confine netto tra fiction e documentario.

C'è un film che avresti voluto girare tu?

Ce ne sono tanti, per esempio “Nostra signora dei turchi”, ma è irripetibile e impossibile da citare. Io credo che i film bisogna farseli da soli e per fortuna ci sono tante persone che fanno dei film meravigliosi.

venerdì 22 ottobre 2010

Il libro del giorno: L'ardore di Roberto Calasso (Adelphi)














Qualcosa di immensamente remoto dal­l’oggi apparve più di tremila anni fa nel­l’India del Nord: il Veda, un «sapere» che comprendeva in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell’universo. Distanza che si avverte nel modo di vivere o­gni gesto, ogni parola, ogni im­presa. Gli uomini vedici prestavano un’attenzione adamantina alla mente che li reggeva, mai disgiungibile da quell’«ardore» da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. L’at­timo acquistava senso in rapporto a un invisibile traboc­cante di presenze divine. Fu un esperi­mento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia del suo passaggio nella «terra dove vaga in libertà l’antilope nera» (così veniva definito il luogo della legge). Eppure quel pensiero – groviglio com­posto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche – ha l’indubita­bile capacità di illuminare con luce radente, diversa da ogni altra, gli eventi elementari che appartengono all’esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di es­sere coscienti. Così collidendo con molte di quelle che vengono ormai considerate ferme acquisizioni. Que­sto libro raccon­ta come attraverso i «cento cammini» a cui allude il titolo di un’o­pe­ra smisurata e capitale del Veda, lo Śatapatha Brāh­maņa, si può raggiungere ciò che sta davanti ai nostri occhi passando attra­verso ciò che da noi è più lontano.

UOMINI CHE ODIANO LA BINDI. Intervento di Elisabetta Liguori










Se fosse un romanzo sarebbe un thriller, uno di quelli ad alta tensione, invece è la realtà di tutti giorni. Quella di Berlusconi per l’onorevole Rosy Bindi, infatti, è diventata un’autentica ossessione. e, come tale, sta assumendo una trama sempre più complessa e ridondante. Non passa giorno che il Presidente del Consiglio non pensi, non recrimini, non esploda in una qualche esternazione furiosamente buffonesca ai danni di questa donna. Solo lei. Sempre lei. Archetipo e simbolo. Icona e metafora in carne e ossa. È la Bindi fobia che dilaga.
È giusto chiedersi come mai, perché proprio ora, perché proprio lei, quale sia il punto centrale di tutta la faccenda. Bene: quel punto non può che essere la bellezza. C’è una bellezza che conosciamo tutti, che, per quanto la si dica soggettiva, riflette canoni estetici universalmente riconoscibili, e un'altra più misteriosa, meno incline a soggiacere a formule manualistiche di potere. È quest’ultima quella che Berlusconi teme. È la bellezza del tempo.
Il tempo, se non utilizzato in modo sano ed onesto, può essere nemico dei belli e dei forti. Berlusconi è convinto di essere sia bello che forte. Per quanto sia stato proprio il tempo trascorso sotto la luce dei riflettori e quello passato a formular bilanci ad avergli regalato questa convinzione, lui non lo sa. Preferisce non saperlo. Finge di essere sempre stato quello che è, di bastare a se stesso, di non doversi mettere in discussione, di non dover cambiare mai per il suo bene quanto per il bene degli italiani. Ciò che conta per l’audace cavaliere senza tempo non è il passato, né il futuro, ma è il presente. Una gestione costante, immobile e vincente del presente. La signora Bindi, al contrario, nel suo splendore canuto, nelle sue forme libere, dinamicamente opposte all’evoluzione culturale del tempi che viviamo, si allinea al ritmo della natura e non a quello dei forti. Esprime un potere intellettuale, oltre che fisico, pari ma opposto a quello espresso da Berlusconi nella sua immobilità tenace. Un potere che, pur essendo fortissimo, non gioca secondo le regole note ad un certo tipo di uomini. Lei non bara, lei non si adegua, lei non rinnega. Lei semplicemente è quel che è, quello che il tempo e la cultura le consentono di essere.
In spregio a questa forma di resistenza non resta altro che il ridicolo.
Frizzi e lazzi per allietare la corte e rassicurarla che il mondo non è così. Che la Bindi non è di questo mondo. Che non esiste e se ne può ridere tutti insieme, allegramente.
In altre parole la Bindi fobia è simile alla paura degli alieni. La paura dei corpi capaci di portare con sé significati incontrollabili. Possiamo dirlo: Berlusconi teme l’invasione degli ufo e così ne nega l’evidenza. Quante barzellette esistono sugli alieni? le antennine, l’occhio al centro della fronte, le dita verdi? Lui sente di doverle usare tutte e di doverlo fare ora. Prima che sia troppo tardi. È la solita reazione dell’uomo allo stupore, all’ignoranza, al buio. Al tempo che passa. Dopo il primo alieno sulla terra, tutto potrebbe davvero essere trasformato, riconosciuto, la natura e la verità potrebbero prendere il sopravvento, una diversa idea di bellezza e tempo potrebbe diffondersi come un virus, lasciando crollare miseramente il castello degli specchi, degli inganni, delle immagini patinate e della carte false, abilmente costruito in anni di risatine e potere. Così ecco svelato il mistero: Berlusconi teme di risvegliarsi un giorno all’interno di una baccello oleoso, come nel noto romanzo di Jack Finney “ L’invasione degli ultracorpi”, per poi ritrovarsi ad essere come la signora Bindi, alieno e vero anche lui, suo malgrado.
fonte iconografica qui

giovedì 21 ottobre 2010

Il libro del giorno: 2012 - Lo Scorrimento della Crosta Terrestre di Charles Hapgood (Profondo Rosso edizioni)

Il recente film americano "2012" di Roland Emmerich ha portato finalmente all'attenzione del grande pubblico questo discusso libro scientifico di Charles Hapgood, nel quale si è formulata per la prima volta la teoria sulla dislocazione delle masse continentali, una catastrofe immane che è già avvenuta nel passato e che potrebbe verificarsi di nuovo nel 2012. Formulata agli inizi degli anni Cinquanta dal professor Charles Hapgood e corroborata dall'approvazione di uno scienziato come Albert Einstein, la teoria dello scorrimento della crosta terrestre ipotizza la possibilità di uno spostamento di tutta la litosfera del nostro pianeta, spessa una cinquantina di chilometri. Ne consegue che più volte, per via di questo fenomeno assolutamente catastrofico e ben peggiore del più grande terremoto, in passato grosse parti degli emisferi terrestri si sono spostate in direzione sud e nord, verso l'equatore, e di lì verso i due Circoli Polari, che così a loro volta hanno cambiato diverse volte di posizione. E' quello che forse potrà accadere anche a noi nel 2012...

Giacomo Rizzo: “Tutti mi dicono che somiglio a Totò” di Angela Leucci









“La banda degli onesti” è diventato un dramma teatrale di straordinario spessore. Questo grazie anche all'adattamento di Mario Scarpetta, figlio d'arte, che ha trasposto il celebre film con Totò in una commedia degli errori interpretata da un magistrale Giacomo Rizzo, che è andata in scena a Maglie durante la kermesse estiva “Chiari di luna”. Rizzo è conosciuto maggiormente per aver interpretato numerosi film del filone comico erotico, dagli anni '60 agli '80: ha lavorato con numerose icone femminili e maschili di quegli anni, da Lilli Carati a Alvaro Vitali.

Meglio il teatro o il cinema?

La cosa più bella che mi è capitata con “La banda degli onesti” è che il pubblico mi è venuto a dire, sotto al muso, che lo spettacolo è piaciuto più del film. Mario Scarpetta ne ha fatto una riduzione mettendo il meglio della pellicola, ma io ho accentrato la storia su questi uomini, avvalendomi della professionalità di una compagnia che ho diretto con molto piacere.

Com'è confrontarsi con un mostro sacro come Totò?

Mi dicono tutti che sembro Totò. Indubbiamente, se non fossi napoletano non potrei somigliargli, certo abbiamo tempi uguali, ma in scena sono io non ci penso a Totò, io sono io. In teatro non funziona come al cinema, perché in teatro faccio quello che dico io, si dice infatti che il cinema è del regista il teatro è dell'attore.

Molti attori di cinema, come Franca Valeri, a un certo punto abbracciano il teatro...

Per il cinema, bisogna avere la faccia. Io ho imparato la tecnica del cinema e credo che se si è misurati si fa anche il teatro. Prendiamo Eduardo, lui era molto esagerato, molto teatrale, e al cinema non ha avuto successo. La mia misura non mi porta lontano dall'immagine davanti alla macchina da presa.

Con quale regista ci sono state maggiori difficoltà?

La difficoltà è nata con Paolo Sorrentino (con cui ha girato "L'amico di famiglia", ndr), che ha un modo di fare il cinema di oggi. Però ha una grande genialità, è uno che conosce anche il lavoro dell'attore, sa come farlo muovere e ha la fortuna di avere talento.

Quale ruolo avrebbe voluto portare sul grande schermo?

Sono dispiaciuto di non aver fatto il protagonista in una commedia all'italiana, soprattutto senza fare questa cosa brutta che è il caratterista, che poi è un termine brutto che hanno inventato gli italiani. Il termine non mi appartiene. Sono un attore che fa tanti ruoli, se poi per caratterista si intende uno brutto con la faccia che si ricorda... In Italia il caratterista non può essere protagonista, ma ci dimentichiamo che attori come Totò, Peppino e Eduardo erano caratteristi.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il libro del giorno: Izutsu Toshihiko, Sufismo e taoismo (Mimesis)

“L’intero processo della creazione forma dunque un immenso cerchio ontologico in cui non è dato in realtà un punto iniziale e finale. Il movimento da uno stadio a un altro, considerato in sé, è certamente fenomeno temporale ma l’intero cerchio, non avendo appunto né inizio né fine, costituisce un fenomeno trans-temporale (o atemporale): è, in altre parole, un processo metafisico. Ogni cosa è attuale in un eterno presente”. Toshihiko Izutsu
La prima traduzione italiana di Toshihiko Izutsu, un’indiscussa autorità negli studi filosofici metafisici delle scuole di Sufismo Islamico. Tradotto in circa trenta lingue, Toshihiko Izutsu ha illuminato il mondo con la sua innovativa teoria dell’armonia tra i popoli. Un approccio meta- filosofico basato sul confronto tra culture a partire dalla consapevolezza che i valori fondanti propri di una religione possono essere ritrovati anche nelle altre. Sufismo e Taoismo straordinariamente a confronto: la forma mystica tipica dell’Islam e quella della Cina del II secolo a.C. unite in un’unica appassionante opera. Un testo per accostarsi alla conoscenza di due grandi tradizioni, nella sicurezza di una grande guida spirituale e scientifica.
Una ricerca seria e ricca di una profonda spiritualità.
Toshihiko Izutsu è stato professore emerito presso l’Università di Keio del Giappone. I suoi libri sono stati tradotti in più di trenta lingue. Tra le sue opere ricordiamo La filosofia del Buddhismo zen (1984).
Alberto De Luca è nato a Trieste nel 1974. Laureatosi in Scienze Politiche ad indirizzo Internazionale presso l’Università di Trieste, vive ora ad Aurisina.

Bella pugnalata, di Alessandra Saugo (Effigie). Intervento di Nunzio Festa















Devastazione in forma di racconto. “Bella pugnalata”, dell'esordiente Alessandra Saugo, è un romanzo spezzato, fatto a pezzi, sono pezzi, spezzettati, fatti a romanzo, esaltati. Senza retorica. Compreso il linguaggio necessariamente retorico. Una devastazione in forma di racconto lungo, è “Bella pugnalata”; che rompe gli schemi per stare in uno schema di narrazione che non ha assolutamente schemi. Racconto stesso a parte. Trame 'sentimentali' a parte. Il sesso, anche in questo libro, è importante. La sua trattazione arriva in sentire serio, in quanto è sorretto da un femminismo tutt'altro che di facciata. Sentito. Vissuto. E quindi fattoci rivivere. Per quello che è possibile. Sostenibili. Prendibile, pure. La lettura di questo romanzo, da consiglio di Antonio Moresco, che assolutamente non ha sbagliato, ha permesso di arrivare a una serie di conclusioni. Al di là della vicinanza col più datato “La merca” della Daino, questo romanzo ci fa – per la prima volta – guardare davvero in faccia a quello che una certa tradizione familistica-matriarcale vuole per la donna, alla femmina. Per arrivare, giustamente, a un nuovo flagello superbo dove si rivede posizionato il corpo sulla pagina. Il testo è diviso in due pezzi portanti: “brodo” e “romanzetto rosa”. A loro volta suddivisi in più paragrafi. Nel “brodo”, davvero passato al passatutto delle proprietà vegetali dei vegetali reali, le nonne morte (quelle appunto del matriarcato) indicano una direzione da seguire e non seguire. Con l'aggiunta dell'irruenza d'una non partecipazione alla vivida stanza festiva comune, annunciata costantemente dalla lingua che la Saugo sublima in ogni riga del suo prorompente scrivere. Una affezione ai vocaboli per niente stucchevole. Anzi propositrice di soluzioni straordinariamente originali. E' questo è uno dei risultati del linguaggio, per dire. Ma l'amore di questo “brodo”, poi, entra nel minestrone, rosato, d'una seconda parte, per la verità meno importante e, forse, significativa, incentrata prevalentemente su un incontro. Quest'esordio, soprattutto, torna a far pensare all'essere al non essere, starci e non starci, in alcuni luoghi – la provincia su tutto. E in più situazioni. Il romanticismo che fortifica alcuni lineamenti del romanzo, infine, fatto come ha detto lo stesso Moresco, di più elementi apparentemente contrastanti fra loro, aggiunge quel sale malato che è la consistenza intemperante di certi giorni nostri. Il lirismo verso il quale va in cerca in certi punti l'autrice, è il punto finale e iniziale.

martedì 19 ottobre 2010

Il libro del giorno: Un mondo di coincidenze di Ennio Peres (Ponte alle Grazie)




















Miracoli, oroscopi, superstizioni, numerologia, profezie... quanto c’è di vero in tutte queste manifestazioni più o meno «occulte»? Perché vi ricorriamo così spesso quando non riusciamo a chiarire un fatto apparentemente inspiegabile? Il più delle volte, non c’è motivo di cercare una spiegazione... semplicemente perché non c’è! Anziché scomodare poteri occulti, influssi astrali od oracoli quantomeno nebulosi, è sufficiente ammettere l’esistenza del caso e che, laddove crediamo di intuire un messaggio nascosto, si tratta solo di una coincidenza (o di un’abile manipolazione dell’imbroglione di turno).
Ennio Peres, con lo spirito arguto dell’enigmista – e ancor più del matematico – non si limita a sfatare leggende metropolitane, superstizioni e plateali fandonie, ma riconduce gli «scherzi del caso» a un gioco raffinato e stimolante: nelle loro infinite combinazioni, lettere, numeri e parole non sono solo un’ottima palestra per riconoscere e quindi difendersi dai capricci del caso, ma anche un’occasione insostituibile di divertimento e, perché no, di arricchimento intellettuale.

Lezioni di arabo di Rossana Campo (Feltrinelli). Intervento di Elisabetta Liguori



















Rossana Campo conosce le donne e le donne conoscono Rossana Campo. In tante hanno compiuto le prime esperienze e acceso le prime emozioni leggendo questa scrittrice genovese, ora divisa tra Roma e Parigi. La Campo, infatti, con “Lezioni di arabo” edito da Feltrinelli, è oggi al suo decimo romanzo, ma la sua fabbrica di personaggi è ancora in piena attività. A pensarci bene esistono due tipi di narratori. Quelli che costruiscono storie, intese come intreccio, concatenarsi logico di eventi, e quelli che costruiscono persone, modi di essere, intere popolazioni e mondi di riferimento. La Campo rientra nella seconda categoria: plasma i suoi personaggi, lasciandoli muovere liberamente all’interno di un universo artificiale del tutto autosufficiente, minuziosamente ricostruito in ogni suo dettaglio e dal suono sorprendentemente familiare e vivo. Chi sono questi personaggi solitamente? Uomini e donne, vivacissimi ma marginali, antieroi, vinti, sfigati, stralunate sagome cariche di umanità e stupore. La lingua utilizzata per raccontarli da sempre mira ad elidere la distanza tra lo scritto e il parlato. È’ quella rumorosa e cromaticamente varia del quotidiano. Riuscitissima sia dal punto di vista lessicale, che fonico. Parigi, luogo e personaggio anche essa, è molto spesso parte di questo mondo frizzante. Probabilmente perché la più multietnica delle città europee, di certo perché tra le più magiche. Nel suo ultimo lavoro, la protagonista è Betti che, divorziata da sette mesi, fa la cameriera nella capitale francese e lavora in una rosticceria araba. Lì conosce Suleiman, giovane algerino, malinconico e depresso, e da lui cerca di apprendere nuova lingua e nuovi costumi, per confrontarli ai suoi. E da quelli magari rinascere. In realtà è Betti la donna dalla quale apprendere. La sua formazione si è già compiuta, in un passato che compare a tratti nella narrazione. Un passato violento e cupo, che l’ha rapidamente avvicinata ai misteri del sesso e resa incredibilmente permeabile alle variabili più crude della vita. Nonostante Betty sia un personaggio corrotto, infatti, la sua innocenza è più forte di tutto. La sua curiosità viaggia su luoghi e persone, sfiora e trasforma quasi magicamente. Come una novella Amèlie - quella de Il favoloso mondo di Amélie, film di qualche anno fa, splendidamente scritto e diretto da Jenuet ed interpretato da Audrey Tautou -, Betty riesce a vivere la sua magra esistenza, restandone una spanna sopra, trasformandosi così in una surreale icona dell’essere donna oggi. Tutto ciò che le è intorno, vivo e pulsante – sesso, amore, dolore e grammatica – diventa per lei strumento di conoscenza. In qualche maniera sarà, dunque, lei ad insegnare a vivere all’attonito Suleiman. A suo modo. E del resto il gioco dell’apprendimento, la fatica del reciproco conoscersi, dell’adattarsi all’altro, oggi dovrebbe essere sentito da tutti come bisogno crescente e primario. Nel romanzo Suleiman lamenta proprio questo: dopo l’11 settembre il vaso di Pandora sembra essersi aperto e aver rovesciato sugli uomini tutti mali del mondo arabo. Solo i mali però, in un’immagine statica oltre che sintetica, frutto di una estrema e comoda pigrizia. “La verità è che l’alfabeto arabo ha migliaia, milioni di lettere” urla Suleiman in una delle sue lezioni, un infinito numero di variabili che lo rendono molto più complesso di quello che si vuole credere. Bisognerebbe, dunque, rinascere da qui, provare a considerare queste variabili, pesarne la diversità, analizzarne il molteplice liberi da ogni condizionamento, per capire davvero: questo è l’invito che il mondo della Campo sembra voler fare al lettore

lunedì 18 ottobre 2010

Il libro del giorno (anteprima): La vecchia Legnano di Domenico Gullo (Lupo editore)




















Una storica Ducati, una macchina da cucire Singer e la gloriosa Legnano, compagna di gare e poi di lavoro nelle fabbriche del Nord: la gioia di vivere, la dedizione, lo spirito di sacrificio.
Nelle pagine di questo romanzo arbëreshe di Domenico Gullo c’è un intero paese del Sud, con i suoi poderi intorno e con le sue storie, a rivivere.
Tutto ritorna nello sguardo di allora, riportando gesti e sensazioni, sfumature dolci ed amare che hanno tracciato un percorso di abbandoni e di ritorni, ma tutto vissuto nella consapevolezza della grande forza della famiglia e della terra d’origine, alle quali il cuore adulto vuole rendere omaggio.

Il colore del melograno di Giuseppe Scelsi (Besa editrice)








Difficile dire cosa sia l’Albania, o cosa rappresenti nell’immaginario collettivo. Una cosa è certa per parlare di fatti “recenti”: dal 1946 al 1990 l’Albania è stato uno stato nazional-comunista, stalinista, anti-revisionista. Nei primi mesi del 1946, Enver Hoxha diviene il capo dello stato albanese, e concentrerà la politica del “paese delle aquile” intorno al Partito Comunista, eletto unico partito legale. Sotto questo presidente in Albania accadde di tutto e di più … la Storia ne ha parlato abbondantemente. Enver Hoxha muore nel 1985, lasciando tutto nelle mani di Ramiz Alia che nel 1991 concede le prime elezioni libere che decretano la fine formalmente del comunismo. Il paese viene scaraventato così in un’atroce presa di coscienza del suo limitatissimo sviluppo socio-economico. Per questo decine di migliaia di albanesi, proprio in quegli anni decidono di partire alla volta dell'Italia e si riversano via mare sulle coste della Puglia, lungo il litorale salentino tra Brindisi e Otranto. Questa è una “zippatura” della storia di una nazione sotto moltissimi aspetti splendida, affascinante, complessa! Una terra che si può comprendere oltre che attraverso le narrazioni che i libri di storia ci possono dare, anche attraverso gli splendidi lavori di Ismail Kadaré, o Ornela Vorpsi, o ancora gli incantevoli versi di protesta e lotta di Gezim Hajdari.o le incredibili storie degli anni del “grande esodo” raccontate da Leonard Guaci affidate alle pagine del suo lavoro dal titolo “I grandi occhi del mare” (Besa editrice). Anche questo “multiverso” di colori, odori e suoni racconta l’Albania, proprio come di Albania si parla nell’interessantissimo lavoro di Giuseppe Scelsi, uscito per Besa, dal titolo “Il colore del melograno”. Giuseppe Scelsi svolge la professione di magistrato da quasi trent’anni, e questo è il suo primo lavoro. Ora un’esordio che mi permetto di definire più che brillante, anzi splendido. La scrittura di questo autore costruisce architetture narrative così bilanciate da permettere al lettore di gustare ogni pagina, di sentire le forti emozioni di rabbia e anmarezza che ogni parola offre in questo lavoro. Si tratta di un volume dove si raccontano di crolli di ideologie, e di un popolo, quello albanese, che sulle macerie costruisce – ovviamente riferendoci allo spazio/tempo raccontato nel libro – e accumula Deriva. Il sistema del potere comunista, si rivela fragile e dai piedi di argilla, e questo non è che il confine oltre il quale c’è un baratro dalle profondità abissali. Giuseppe Scelsi ci parla di Filip Galimuna, sergente dell’esercito albanese che nel sangue ha un amore sconfinato per il pianoforte, e che in un batter d’occhi si ritrova senza “caserma”, senza uomini, senza patria, e senza donna. Quando Galimuna scappa insieme alla moglie e il più piccolo dei suoi figli dall’Albania, in Italia vengono ospitati da un collega del suo maestro di musica, Arturo Mondelli, che “respira” la genialità artistica del sergente, e lo sprona a proseguire negli studi di pianoforte, portandolo al successo nelle più importanti rassegne musicali internazionali. Ma il Destino per Galimuna, ha ancora delle sorprese, che lasceranno chi leggerà questo lavoro col fiato sospeso!

domenica 17 ottobre 2010

Il libro del giorno: Il segreto di Sebastian Barry (Bompiani)












Testimonianza autobiografica di Roseanne - Paziente dell’Ospedale psichiatrico di Roscommon dal 1957. Mio padre era solito dire che il mondo ricomincia da capo a ogni nascita. Si dimenticò di dire che finisce a ogni morte. Oppure pensò che non ce ne fosse bisogno. Visto che per buona parte della sua vita lavorò in un cimitero. Il posto in cui sono nata era una fredda cittadina. Persino le montagne se ne stavano alla larga, non si fidavano, non più di me, di quel posto oscuro. Un fiume nero la attraversava, e se per gli esseri umani era privo di bellezza, non era così per i cigni, che lo popolavano numerosi, tuffandosi a frotte nelle sue acque. Il fiume portava anche i rifiuti al mare, e frammenti di cose una volta appartenuti a qualcuno e trascinati via dalle rive, e corpi, benché di rado, oh, e poveri neonati, che talvolta erano motivo di imbarazzo. La velocità e la profondità del fiume sarebbero state un grande alleato del segreto. Sto parlando della cittadina di Sligo.

I primi due capitoli qui

Attila di Michel Rouche (Salerno editrice)












«La stirpe barbarica degli Unni in Tracia diventò talmente potente da conquistare oltre cento città, mettendo Costantinopoli quasi in ginocchio e facendo fuggire molti abitanti... Omicidi e spargimenti di sangue furono talmente numerosi da non riuscire a contare le vittime; occuparono chiese e monasteri e trucidarono monaci e giovani donne. » (Callinico, Vita di Sant'Ipazio)

Un popolo quello degli Unni legato indissolubilmente nella storia a un nome: Attila. Personaggio a cui è stato legato un soprannome: “Flagellum Dei” ("flagello di Dio"). Feroce, spietato. Si diceva che dove fosse passato l’erba non sarebbe più cresciuta. In numerosi racconti però viene descritto come un grande e nobile sovrano. Attila, “Flagellum Dei”, l’unico uomo che è stato in grado di modificare i destini dell'Impero romano. Nel nostro immaginario collettivo Attila è legato a delle pellicole alcune spassosissime altre perle preziose dell’intrattenimento cinematografico contemporaneo tipo la comica e caricaturale interpretazione di Diego Abatantuono nel film “Attila flagello di Dio”, oppure possiamo ricordare come Attila sia tra i vari personaggi del film “Una notte al museo”, dove tenta di fare fuori Larry il protagonista interpretato da Ben Stiller, o ancora si può ricordare “Attila l'Unno” un film del 2001, dove viene raccontata la guerra di valori sociali e umani di due mondi incarnati da due “grandi” del passato come appunto Attila re degli Unni e il generale romano Flavio Ezio. Ora per Salerno editrice, esce in libreria un libro che mette un po’ di ordine sulla figura di Attila, molto spesso vittima di molte leggende e falsi miti. L’opera è di Michel Rouche e ha per titolo “Attila”. In poco più di 382 pagine, l’autore riesce ad avvincere il lettore grazie ad un suo modo spigliato di scrivere per la divulgazione, presentando documenti e dando indicazioni di fonti ben precise su un’uomo che in vent'anni riuscì a cambiare per sempre la Storia. Certo Attila rimane pur sempre una figura leggendaria nella storia europea, ma questo lavoro, una volta terminato, ci pone davvero dinanzi ad un pesante interrogativo: davvero è stato un flagello di Dio, davvero è stato solo un bruto, un incolto, un distruttore? E’ stato certamente anche questo, ma non solo questo. Michel Rouche ci dimostra infatti che Attila è stato un abile stratega, un fine politico, un oculato amministratore e addirittura elegante diplomatico se si pensa alle sue inedite coalizioni strategiche, come quella tra il generale romano Ezio e il re dei Visigoti, «barbaro» tra i barbari. Inoltre godibilissimo, il capitolo al termine della pubblicazione che si occupa del mito di Attila in età moderna e contemporanea: da Corneille a Verdi e Wagner, fino alla mistificazione che ne fece Hitler.

Michel Rouche è Professore emerito all'Università la Sorbona di Parigi, esperto della Tarda antichità e dell'Alto Medioevo. La Salerno Editrice ha già proposto in edizione italiana il suo studio su Le radici dell'Europa (2005).

sabato 16 ottobre 2010

Il bizzarro museo degli orrori di Dan Rhodes (Newton Compton)




















Incipit

Di notte – in realtà sempre, ma soprattutto di notte –, quando la stradina è illuminata soltanto da un occasionale lampione, ben poco distingue il museo dagli altri palazzi della zona vecchia della città. Tutto dipinto di bianco, s’innalza per tre piani prima di rastremarsi in un tetto dalle cui tegole immacolate sporgono diverse finestrelle. Lo si riconosce tra i suoi vicini per la targa d’ottone che, in quattro lingue, ne dichiara il nome e gli orari di apertura al pubblico. Solo avvicinandosi parecchio e strizzando gli occhi nell’oscurità si riesce a leggere cosa c’è scritto, e mentre il primo giorno tiepido dell’anno volge al termine, nessuno si prende la briga di strizzare gli occhi nell’oscurità. Un gruppetto di turisti ci passa davanti senza degnarlo di uno sguardo. Svoltano a un angolo, le loro voci svaniscono e la via torna silenziosa fino a quando passa altra gente, ragazzi del posto questa volta; l’aperitivo dopo il lavoro si è trasformato in una cena e molta altra roba da bere, le loro chiacchiere rimbombano tra i palazzi alti mentre vanno a casa di qualcuno per il bicchiere della staffa. Le luci del museo sono spente, ma non significa che dentro non c’è nessuno

primi quattro capitoli qui

Poesie (1984-2010), di Claudio Damiani, a cura di Marco Lodoli, (Fazi). Intervento di Nunzio Festa





















Un gradito ritorno che è presenza per la gioia di vivere e morire. A due anni di distanza da “Sognando Li Po”, omaggio 'elegante' e sentimentale alla poesia cinese, per i tipi della sempre disponibile e attenta Fazi esce l'antologia (che raccoglie anche una piccina sezione d'inediti) del nostro poeta nazionale, quanto appartato, Claudio Damiani; una summa che si deve grazie al lavoro appassionato dello scrittore Marco Lodoli. Che, tra le altre cose, in sede di prefazione che può 'stranamente' esser un tutt'uno col libro, ricorda alcune chiavi di lettura delle poesie di Damiani. Senza fare torto a Lodoli, comunque, o senza minimamente volerlo, si può provare ad avviare altri approcci: nuove adesioni. A un libro, va spiegato, che può – non ce ne voglia l'autore – stare affianco alle opere serie e prestigiose d'altre penne sottratte alle indagini del classicismo critico d'Italia. Autori che non dimenticheremo. Sempre. E poeti, su tutto, vedi il nostro diverso Claudio Damiani. Che Damiani, premi a parte, perché di riconoscimenti ne ha ricevuti molti, e tanti ne riceverà ancora, se pur non ancora venga decantato al pari d'un Luzi e d'un Cucchi, davvero insegna – lui maestro in più significati – quanto la quotidianità sia terra di poesia. Nel sunto, “Sognando Li Po” arriva verso la fine. Prima dei nuovi versi de “Il fico sulla fortezza”: sezione in forma di silloge che affida appunto a un esemplare ed esemplare come vero fico la normale consuetudine di meravigliarci. In apertura Lodoli ha voluto sfiorare la maturazione, quella dell'adolescenza e oltre di Damiani, chiaramente spiegando quanto il “sentimento” e la freschezza delle riviste “Braci” e “Prato Pagano”, quelle d'altronde dal poeta vissute insieme all'altro intramontabile Beppe Salvia, lui, quest'ultimo, persino lucano, sia stata la differenza di tanto confronto comunque aperto nell'ex Belpaese. Poi, da presto, si prendano fra le dita alcuni versi dei due componimenti titolati entrambi “Elegia”, dal libro “Fraturno”, e iniziamo a saper il resto. Da “La mia casa” (1994), invece, s'entri, per meglio leggere, in: “(...) Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano.” Riusciamo a non tornare a sentire più volte questi passaggi? Queste descrizioni che sono un silenzio oltre il silenzio stesso, oltre lo stesso silenzio dell'affratellamento fra pari? Sorretto, per di più, una piccola voce (o una musica?) che non è sottofondo, ma parte essa stessa del destino immortalato? L'apice è raggiunto nella “Miniera”. Solcando frammenti, vedi il dialogo con gli alunni proprio di Claudio Damiani su vita e morte, che conducono in una indimenticabile canto di “Attorno al fuoco”, una delle 'parti' più recenti dell'antologia: “Noi della resistenza non è che andiamo in strada a sparare, / né ci nascondiamo in montagna, / né scriviamo sui giornali, noi della resistenza non facciamo niente / ma quando moriremo avremo nella nostra mente / un ordine beato che chi ha consolato, (...)”. Parole sottratte alla guerra, e in special modo alle logiche di guerra, stipando in loro rabbia e specialmente orgoglio. Fiori di dignità. Un dire perfetto. Che trattiene l'impuro e nel mentre ricorda quanto impuro ci sia. Come se fosse un parlare ai figli. E dalla stessa parte dei figli. Quindi di tutti. D'ognuno. La poesia di Claudio Damiani consegna al cuore l'esistenza dell'universo naturale in una Italia solo da ripensare

venerdì 15 ottobre 2010

Il libro del giorno: IL CLUB DEGLI INCORREGGIBILI OTTIMISTI di Jean-Michel Guenassia (Salani)

















Parigi, 1959. Sono anni vertiginosi: la Seconda guerra mondiale è finita da troppo poco tempo per essere Storia, la guerra d’Algeria segna le vite dei francesi d’oltremare. Michel Marini, undici anni, figlio di immigrati italiani, esce dall’infanzia e si affaccia a un’adolescenza inquieta e piena di emozioni. Vagabonda per il quartiere, si ritrova con gli amici a giocare a calcio balilla; un giorno entra in un bistrò, il Balto. E' attratto da una stanza sul retro dove si ritrova un gruppo di uomini, che parlano un francese a volte approssimativo e portano dentro di sé storie e passioni sconosciute. Sono profughi dei Paesi dell’Est, uomini traditi dalla Storia, ma visionari che ancora credono nel comunismo.Incorreggibili ottimisti.
Frequentare il Balto vuol dire scoprire il mondo. Michel cresce con Igor, Leonid, Imré, Pavel, Tibor, Saga impara a conoscere l’amicizia, l’amore, la complessità degli ideali. Nel retro di un bistrò si litiga, si beve, si gioca a scacchi, si raccontano barzellette su Stalin, si offre se stessi e le proprie storie, storie terribili di esilio che si intrecciano sullo sfondo di un decennio epocale, tra filosofia e rock’n’roll, Sartre e Kessel, la conquista dello spazio e l’inizio della Guerra fredda. Nella tradizione del grande romanzo francese, un affresco indimenticabile di un’epoca.

Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto (Libellula edizioni). Intervento di Francesco Caccetta













Salire e scendere le scale della vita, dei ricordi, della propria esistenza, è esercizio non facile: a volte gioioso e spensierato in quel tuffarsi voluttuoso nella magia del passato, di quell’essere fanciullo, ma altre ancora faticoso e dolente, rapido e spietato nel riaprire ferite mai rimarginate o crudele nell’aprire la stanza dei rimpianti e delle vergogne, dei conflitti e delle sconfitte. Un affannarsi nella fragilità e nella grandezza intrinseca dell’essere umano preso integralmente con le sue paure, le sue angosce, le sue speranze, i suoi aneliti verso l’alto, le sue esaltazioni ma anche con le sue intime storture, con i suoi vizi e con le sue aberrazioni. Ed è in questo ambito che ci porta la lettura di Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto. Una storia che è di tutti i giorni, un racconto di vita e di tempi, di uomini ma soprattutto di donne, di amori e di passioni, di colpe e di paure, di slanci alti di sentimento, di lancinanti tormenti e di conflitti interiori. Pagine scritte con punti alternati, di dritto e di rovescio, per introdurre il lettore e la coscienza a due mondi diversi, a due storie lontane e contrastanti ma paradossalmente identiche, a due donne figlie del loro tempo, ad una condizione femminile che lega indissolubilmente la donna alla vita. Escono così fuori prepotentemente, ma con grazia descrittiva e con pienezza di contenuti, due donne, due mondi, due società storicamente, culturalmente, moralmente, socialmente ed economicamente diverse. Da un lato una società a noi non troppo lontana ma ormai profondamente distante e diversa, forse più semplice, più ordinata secondo schemi che il tempo ha scolpito nel suo lento fluire, che si muove secondo partiture di modo e di maniera, e che rappresenta l’ambito storico e temporale di Maria, figlia del suo tempo, dell’Italia meridionale del dopoguerra, vittima di una condizione femminile ad autocoscienza limitata. Dall’altra la società odierna, moderna, complessa, dai molteplici aspetti, espressione della velocità e della continua evoluzione, frutto della contestazione, della interminabile libertà, è la società di Marta, contraltare naturale di Maria. Marta libera per un’autocoscienza piena, o forse apparentemente piena, ebbra dell’Io e del sé. Libera da condizionamenti ma schiava del successo, del lavoro, della macchina complessa della costruzione della carriera, dell’affermazione, dell’autostima. Maria, donna sola, schiava della maldicenza, del giudizio altrui, della paura ancestrale delle colpe e del peccato, vittima del sopruso e dell’abuso, di quella violenza che è rimasta per troppo tempo e per troppi anni nascosta, ama profondamente la vita che ha in sé nel rispetto e nel segno di un Dio, preda delle sue convinzioni, di una religiosità che è quasi connaturale. Per Maria Dio c’è sempre e lo si avverte continuamente, nelle parole, nelle speranze, negli atteggiamenti. Marta è la diversità moderna che costantemente si alterna a Maria, che pagina dopo pagina dispiega la sua figura femminile, tormentata, la sua solitudine da un dio, tutta presa dalla macchina consequenziale della vita programmata e tecnologica, schiava della superbia del tempo moderno, di una sorta di hybris oggi tutta femminile, che trova sponda nella tracotanza della scienza, schiava del culto di se stessi, schiava di una sete di appagamento personale. Maria che oscura se stessa e la sua felicità in onore di una vita, Marta che sopprime una vita in ossequio al suo futuro ed a se stessa. Maria che vive e parla di amore, Marta che perde un amore e soffoca il suo amore. Fra le due donne, fra le loro realtà, la figura di Antonio che vive una personale nemesi storica, che osserva l’assurdo della vita: “proprio nel momento in cui scopriva di essere il frutto di un orribile atto, un figlio non voluto, nella sua stessa vita arrivava un figlio non voluto”. Antonio che è frutto delle scelte difficili, che è figlio dell’amore, ritrova così se stesso, la sua identità attraverso Maria. Un amore che vince sempre la partita finale, un amore che conosce la pietà ed il perdono e che và oltre, oltre tutto, oltre il tempo, oltre gli uomini, oltre le cattiverie e le debolezze, oltre le tentazioni, oltre le avversità. Un amore che arriva a comprendere le ragioni altrui, quelle di Maria e quelle di Marta, che spinge ed incoraggia a superare tutto e tutti. Un amore profondo e ritrovato che pronuncia al termine un “io non ti abbandono” che è in fondo la speranza della vita e dell’uomo e che è la ragione stessa di Benedetto il frutto, il suo intimo e sottile messaggio, il suo respiro ed il suo alito.


giovedì 14 ottobre 2010

Il libro del giorno: Il colore del melograno di Giuseppe Scelsi (Besa editrice)








Quando il solido muro della ideologia va in frantumi, migliaia di albanesi si ritrovano in preda alla più grande disperazione. Il sistema si sgretola, le rigidità di un regime che si è chiuso per decenni su se stesso si piegano alla furia di uomini e donne, idee e sentimenti vengono travolti. Anche Filip Galimuna, sergente dell’esercito albanese con la passione per il pianoforte, perde tutto in un sol colpo: si ritrova a capo di una caserma vuota, i suoi uomini l’hanno abbandonato, preferendo il miraggio di una fuga verso l’Italia, e la sua donna, Iliria, lungi dal dargli quel conforto che egli cercava, si allontana da lui innamorandosi di un uomo i cui traffici di quei momenti hanno reso uomo di successo. In preda alla più cupa disperazione, Filip si fa coinvolgere in un traffico di armi, il cui ricavato però finisce nelle mani sbagliate e fa crollare le sue ultime illusioni e speranze. La vicenda volge a un epilogo drammatico, ma non inatteso. Quando Galimuna fugge con la moglie e il più piccolo dei suoi figli dall’Albania, a dargli ospitalità in Italia è un collega del suo maestro di musica, Arturo Mondelli, che intuisce la genialità artistica del sergente, lo incoraggia a proseguire negli studi di pianoforte e lo porta al successo nelle più importanti rassegne musicali internazionali. Ancora una volta, tuttavia, il richiamo dei vecchi miti riemerge prepotente quando il caso gli offre la possibilità di vendicare la morte del figlio più grande. Ma questa volta qualcosa è cambiato.

Giuseppe Scelsi è magistrato da quasi trent’anni. Il colore del Melograno è il suo primo romanzo, in cui ha voluto dare volto e parola di narrazione alle sovrastrutture del suo percorso professionale, ma con una dose di amarezza e rabbia senza pari.

"Scienza e Verità” di Giovanni Paolo II a cura di Mario Castellana con in appendice scritti di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria (Pensa MultiMedia)












Mi sono sempre interrogato se possa essere risolto un problema che penso sia grande quanto è lunga la storia del pensiero scientifico e la storia della Chiesa. Mi riferisco ad un grattacapo intellettuale non da poco, ovvero quello riguardante un’ipotetica soluzione dell’articolato rapporto tra Scienza e Fede. Che siano realmente due universi assolutamente distinti e distanti, i cui contenuti si escludono elidendosi reciprocamente? Possibile che si debba da ambo i lati argomentativi trovarsi dinanzi ad un confine, impossibile da valicare? Ora il pensiero scientifico, e la riflessione sul pensiero scientifico che è propria dell’epistemologia, è ricchissima certamente di una serie di stravolgimenti teorici che fanno ancora parlare di sé. Faccio riferimento a quei fenomeni psico/cosmici destinali per il genere umano che vanno da Galileo, o Copernico, o Isaac Newton sino alla teoria della relatività di Einstein, o all’intransigente scetticismo panico di Piergiogio Odifreddi. Ma senza ombra di dubbio si tratta di manifestazioni teoriche insufficienti vuoi concettualmente vuoi strutturalmente, a superare la dicotomia tra mondo della Fede prettamente astratto, dogmatico, spirituale, a/sistemico, e in/vericabile e il mondo della Scienza, fatto di dati, numeri, quantità, misurabilità, insomma di fenomeni metodologicamente dimostrabili. Ma senza portarla molto per le lunghe, in noi comunque rimarrà quella vocina, la solita vocina del demone socratico o se le vogliamo dare un’aspetto più rassicurante e pop, il solito “grillo parlante” che ci indurrà a farci delle domande del tipo: “Dio ha mai giocato a dadi con l’Universo?” (proprio come Einstein) o ancora “il Caso e il Caos sono i nostri veri genitori adottivi?”. Ma poi rassegnati dal peso di queste domande ( e ci chiediamo se poi veramente utili per pagare le bollette o tirare a campare) ci diciamo sottovoce che porsi ancora interrogativi di natura etico/epistemlogica, ovvero se la Scienza dispone di strumenti ermeneutici tali da rendere plausibilmente chiari i confini tra fenomeno e “noumeno” (ovvero entità di carattere metafisico come direbbe Platone), è assolutamente lezioso. Forse … Esce infatti per Pensa MultiMedia di Lecce a cura di Mario Castellana docente presso l’Università del Salento di Epistemologia e Scienza della Filosofia un libro che non può che suscitare interesse e curiosità. Il titolo è “Scienza e Verità” di Giovanni Paolo II a cura dello stesso Castellana con in appendice scritti di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria. Tutto il libro ruota attorno al felice obiettivo di fornire uno spaccato più ampio di un personaggio carismatico, religioso, politico, immenso come lo fu Giovanni Paolo II. Un pontefice che ha dimostrato costantemente come ( a parte la forza ch’egli attingeva dalla sua Fede) il dialogo, il chiedersi sempre come poter migliorare l’oggi e il domani attraverso anche la ricerca scientifica, costruendo magari futuri spiritualmente e tecnologicamente eco/compatibili per l’uomo, poteva essere la strada più idonea per realizzare il “migliore dei mondi possibili”. Forse che avevamo sulla nostra strada un papa epistemologo, e non lo sapevamo? Sicuramente! Intanto Egli guardava alla riflessione scientifica come una strategia di pensiero indispensabile per fornire gli strumenti idonei a capire i “massimi sistemi” e bilanciarne e compenetrarne armoniosamente gli aspetti più acuminati. Dunque questo lavoro è la raccolta per eccellenza, degli interventi sulla scienza all’inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, che si rivela in questo modo un Papa poliedrico che comunque ha considerato la riflessione epistemologica uno strumento utilissimo ad indicare alcune rotte, sia al pensiero scientifico che alla ricerca teologica, per raggiungere quei luoghi deputati a fare i conti con l’esperienza della verità. Questi scritti, che precedono la Fides et Ratio, fanno affiorare una particolare ‘immagine della scienza’ coniugata anche con una vera e propria pastorale della scienza, con cui sia il mondo dei laici che il mondo dei credenti devono confrontarsi per avviare insieme un dialogo di arricchimento reciproco, una volta che si è preso coscienza dei limiti di quelli che Benedetto XVI ha chiamato rispettivi ‘restringimenti ideologici’.

mio intervento pubblicato su Paese Nuovo

mercoledì 13 ottobre 2010

Il libro del giorno: Il successo in 31 giorni di John Demartini (Bis edizioni)








Quanti giorni ci vogliono per arrivare al successo e cambiare la nostra vita in meglio? Solo 31! Vi sembra impossibile? Eppure John Demartini, il famoso studioso che deve la sua fama a The Secret, con Il successo in 31 giorni senza stress ci dimostra che è possibile, insegnandoci un metodo pratico e completo per raggiungere il successo senza stress. Il successo in 31 giorni senza stress contiene un piccolo e prezioso segreto per ogni giorno del mese, su tutti gli aspetti fondamentali che contribuiscono alla nostra ricchezza e serenità. Demartini non lascia nulla al caso e ci apre la mente su ogni possibile variabile che può rendere la nostra vita straordinaria, indicandoci come agire per muoverci in tal senso. Vivere nella ricchezza e senza stress è veramente possibile se cominciamo col prenderci cura di noi stessi, visualizzare i nostri desideri e affermare ciò che vogliamo essere. In 31 giorni impareremo che il successo parte dalle piccole cose: una corretta alimentazione, un buon riposo, uno stile di vita sano e tanti altri accorgimenti che ci aiutano ad entrare in armonia con noi stessi. E, naturalmente, ad accrescere il nostro status economico sempre senza sforzi e inutili pressioni.

Demartini ci conduce così alla consapevolezza suprema che ogni persona ricca e felice possiede: con la giusta mentalità ognuno di noi è in grado di condizionare il contesto che lo circonda e rendere il mondo un posto fantastico in cui vivere sereni

2013. L’alba della nuova era a cura di Enzo Braschi e Giorgio Boccaccio (Verdechiaro edizioni)








Ho appena terminato di leggere con discreto interesse “2012 - L'Ascesa della Terra alla Quinta Dimensione. Messaggi del Maestro Confucio e del Maestro Kuthumi” di Ute Kretzschmar per i tipi di Bis edizioni. Libro stimolante per lasciare le briglie sciolte alla fantasia o ( a seconda dei casi e per via subliminale) ai propri timori per un futuro non sempre plausibilmente “eco-compatibile”. Si tratta di un lavoro che ha una forte componente mistica e che comunque va controtendenza rispetto alle teorie catastrofiste sul 2012 che animano accesi dibattiti un po’ in tutto il mondo. Infatti in base a quanto asserito poco prima, Ute Kretzschmar, l'autrice del volume che stiamo prendendo in considerazione, è in contatto con i Maestri ascesi Confucio e Kuthumi che sostengono che il nostro mondo si sta avvicinando ad un salto evolutivo caratterizzato dal passaggio alla quinta dimensione, che segna il recupero del legame ancestrale con il divino . Ma non è il solo libro che mi sento di consigliare in questa sede. Da poco è uscito per i tipi di Verdechiaro Edizioni un singolare volume a cura di Enzo Braschi e Giorgio Boccaccio dal titolo emblematico, ma almeno rassicurante, di “2013. L’alba della nuova era”. E dunque abituati come siamo a guardare sempre più atterriti al 2012 come una data in cui tutto ciò che conosciamo scomparirà, o perché ci sarà una tempesta solare che riporterà il mondo al medioevo, o perché ci sarà l’inversione dei poli e dunque estinzione in tutti i sensi, o perché torneranno “gli dei” e non sappiamo se siano pro o contro genere umano, quest’opera consegna delle chiavi di lettura alternative e decisamente positive rispetto a tante paranoie “millenaristico/apocalittiche”. I due autori pertanto hanno voluto offrire al pubblico, conoscenze davvero importanti per una comprensione quanto più esaustiva possibile del “fenomeno 2012”. E questo collezionando una serie di voci (11 per la precisione) tra le più autorevoli. Così è stata realizzata questa straordinaria mappa cognitiva sul 2012 che prende in considerazione diluvi universali, terremoti, tempeste solari, bambini Indaco, teschi di cristallo, frequenze vibrazionali sino addirittura all' alimentazione. Il tutto condito da forti legami multidisciplinari che rendono questo prodotto veramente unico nel suo genere. I curatori hanno ritenuto che la cosa più importante non sia tanto ciò che potrebbe accadere nel 2012, quanto piuttosto come potrebbe essere la vita di tutti quanto noi dal 2013 in poi. Questi i “contributors”: Giovanna Battistini, Giorgio Boccaccia, Richard Boyland, Enzo Braschi, Claudio Cannistrà, Fausto Carotenuto, Nikola Duper, Giuseppe, Luigi Esposito, Massimo Fratini, Antonio Giacchetti, Fabrizio Mainetti, Giuliana Roda, Paola Sani

Enzo Braschi - Attore televisivo e cinematografico, dal 1996 prende parte ogni anno alla Danza del Sole (la cerimonia più sacra dei Nativi delle Grandi Pianure del Nord America.

Giorgio Boccaccio - Life communication coach. E' considerato uno dei massimi esperti Europei nel campo della comunicazione personale e dell'arte oratoria. Ricercatore nel campo dei suoni del linguaggio verbale umano, della parola ed esperto di cibernetica, di tematiche connesse alla leadership, team-work e problem solving; ha formato in più di venti anni, moltissime persone a risvegliare il proprio potenziale umano e si sono affidati alla sua consulenza studenti, insegnanti, counsellor, professionisti, uomini dello spettacolo, sportivi, operatori della comunicazione, testate giornalistiche, uffici stampa, venditori, consulenti, enti, oganizzazioni, imprenditori, politici e persone comuni. Nel 2006 esce il suo primo libro: Usa le parole giuste, Ed. Psiche2, Torino Per maggiori informazioni sul suo lavoro visitate il Web Site: www.giorgioboccaccio.com

martedì 12 ottobre 2010

Il libro del giorno: Capatosta di Beppe Lopez (Besa editrice)













Al suo apparire, nel settembre del 2000, il romanzo Capatosta di Beppe Lopez (Mondadori) si impose subito all’attenzione dei lettori e della critica per quattro peculiarità: perché scritto in un linguaggio mai prima di allora usato in letteratura, un idioletto ricavato dall’autore intrecciando italiano parlato e un materiale dialettale – quello pugliese – considerato “minore”; perché ambientato in un mondo mai prima descritto, un Sud né contadino né operaio, né rurale né cittadino, né magico né metropolitano, come sospeso in una fase astorica di inconsapevolezza collettiva e individuale; perché dava voce a una plebe estranea ed estraniata dalla storia e dalla stessa letteratura; perché incentrato su un personaggio forte, memorabile, in assoluto – come è stato detto – “uno dei ritratti femminili più belli della narrativa italiana”.
Il testo di questa edizione – che vede la luce esattamente a dieci anni dalla prima – è frutto di un’attenta rilettura, di revisioni e di correzioni alle quali l’autore ha ritenuto necessario e doveroso sottoporre la stesura “sperimentale” del 2000, restituendoci quello che può già considerarsi un “classico” della narrativa meridionale a una più adeguata altezza di coerenza e accuratezza linguistica.

Beppe Lopez, intellettuale a tutto tondo, ha scritto il suo primo romanzo (Capatosta) nel 2000, dopo un’intera vita dedicata al giornalismo e ai giornali, come cronista politico, inchiestista, direttore di quotidiani e di agenzia, polemista e saggista (Il giornale che non c’è, 1995; Il quotidiano totale, 1998; La casta dei giornali, 2007; Giornali e democrazia, 2009). Il suo secondo, grande romanzo è del 2008: La scordanza. Si è dedicato anche al racconto storico, pubblicando nel 2005 Mascherata Reale (Besa) e nel 2009 Il principe nel groviglio.

Booktrailer: Un caso di Stalking (Edizioni Voiler). Da fine ottobre in distribuzione



Ilaria Ferramosca di Parabita e Gian Marco De Francisco di Taranto saranno protagonisti alla prossima edizione di Lucca Comics & Games con la presentazione del loro fumetto molto atteso da pubblico e critica e pubblicato per la casa editrice salentina Edizioni Voilier. Si tratta di Un caso di Stalking, un romanzo a fumetti il cui scopo é quello di sensibilizzare i lettori su un tema drammaticamente attuale come lo stalking, piaga sociale e reato recentemente fatto oggetto di una legge statale che introduce pene severe per chi lo commette. Edizioni Voilier conferma con Un Caso di Stalking la sua vocazione per il fumetto d’autore e il suo sguardo sensibile nei confronti della società reale.

lunedì 11 ottobre 2010

Il libro del giorno: Pagine milanesi di Leonardo Sinisgallli (Hacca edizioni)





















“In questi testi del periodo milanese si coglie la sensazione che Leonardo Sinisgalli sia passato dalle soleggiate latitudini romane a un luogo freddo e inospitale.
«Sono giunto in questa città una sera d'inverno» – annota il 3 dicembre 1933 – «faticosamente il sangue ha fatto abitudine agli agguati della nebbia» (Introduzione a Milano). Ma è solo un'istantanea fotografica, un'impressione dettata dalla solitudine del paesaggio di Lambrate, il «quartiere dell'estrema periferia» come scrive nell'omonimo corsivo del 2 giugno 1934, dove prende dimora inizialmente. Ben presto, infatti, trapela il volto di una civitas in movimento, dedita freneticamente al lavoro nelle fabbriche e ai commerci, disposta non soltanto a concedere accoglienza al nuovo arrivato senza troppi indugi, ma anche a mostrarsi nel suo aspetto luminescente, quale crocevia dove convergono le nuove generazioni di talenti e trovano asilo le tendenze europee d'avanguardia.
È il momento in cui Sinisgalli si trasferisce da Lambrate a Corso Monforte e poi in Via Rugabella, passeggia sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele, ascolta il grido delle fioraie in Piazza San Babila, si ferma ai tavolini del Caffè Craja e del Ristorante Savini, segue le mostre di Kandinsky al Milione, accompagna Le Corbusier all'Esposizione Aeronautica presso il Palazzo dell'Arte, visita gli studi di Cantatore, Fontana e Soldati, ne ammira i dipinti, ne esamina le forme e i colori. Si è spostato allegoricamente e fisicamente dalla periferia al centro, si è inserito nel pieno del frastuono urbano, vive la città obbedendo ai precetti dello spleen baudeleriano.
Alla luce di tali considerazioni non è un azzardo affermare che gli scritti milanesi di Sinisgalli dell'«Italia Letteraria» presentano i caratteri della promenade e del diario, vantano cioè un'origine pubblica e privata, sono contemporaneamente cronache di una topografia culturale e frammenti di un viaggio interiore”.

(dall’introduzione di Giuseppe Lupo)

Andrea Di Consoli

Tre di Melissa P. (Einaudi, Stile Libero))












Di Melissa P. non ho letto solo “In nome dell’amore”. Per il resto posso dire che padroneggio l’argomento, tanto che ho seguito il viaggio di questa ex adolescente catanese fino ai confini delle terre dell’eros nei suoi recenti reportage italiani sul sesso, sulle pagine del “Corriere della Sera Magazine”, ora “Sette”. Tirando un po’ le somme possiamo dire che ha scandalizzato (se così si può dire anche se sarebbe meglio dire che di lei si è parlato molto in giro) con “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire” nel 2003 per i tipi di Fazi. Un po’ di brezza scritturale chiara e suadente poi spirava in “L’odore del tuo respiro” sempre per Fazi nel 2005: "Ho disegnato, ma non ero capace di colorare senza sbavare lungo i bordi. Ho comprato una chitarra, ma avevo paura che le corde mi tagliassero le dita. Ho scritto e qualcosa dentro di me si è mosso. Ho scritto, ho scritto, ho scritto tanto, e poi sono diventata famosa. E quella cosa che avevo liberato è ritornata indietro e mi ha invasa. Uccidendomi." Ora Melissa P. esce per i tipi di Einaudi , con “Tre”, con la consueta predisposizione alla triangolazione amorosa e alla verticalizzazione sessuale, che vede come protagonisti Larissa (poetessa decadente), Gunther (mirabolante allevatore di pappagalli) e George (nomade fotografo dalle grandi doti) . Tra noia e paranoia, ovvero tra pulsioni sessuali di “young adult” che sperimentano la dimensione letteraria psico/narcotica e pseudo/artistica della loro creatività e complicità in una Roma ( c’è anche una toccata e fuga a Buenos Aires) che fa da spettatrice a questa “mattanza” di giovani vite, tuttavia il lavoro si presenta con un interessante epilogo che forse già da metà libro può essere intuito dal lettore. «Nessuno pensò alla parola amore, nessuno ebbe l'impressione che si trattasse di un'avventura erotica di breve vita. Si stavano rigenerando, idratando gli angoli secchi, levigando le escoriazioni». La scrittura, rispetto alle precedenti prove convince, il bilanciamento e l’intersecarsi delle storie e le azioni e le vite dei protagonisti, rivelano che Melissa P. finalmente ha trovato la sua strada. Ma, c’è un ma! Ovvero quello che a mio modesto parere non può considerarsi vincente, è quella lieve patina di sospetto che mi fa dire: “ Melissa P., è davvero cresciuta? Siamo di nuovo a una finzione di finzione di finzione che mescola il prodotto editoriale confezionato a dovere con una pre/preparazione attoriale dello scrittore al ruolo, da "esporre" oppure c’è in tutto questo discorso una vera e propria tenuta di stile? Melissa P. , è altro da Isabella Santacroce!

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