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sabato 23 maggio 2009

Io sono un genio! Maria Beatrice Protino su Salvador Dalì

È uno degli artisti più discussi dell’ultimo secolo, quel genio che attraversò tutta la vicenda del novecento con quadri e oggetti surrealisti ispirati all’idea della psicanalisi freudiana, ma anche con le sue provocazioni, le sue feste surrealiste che spesso diedero manforte a scandali, facendo - col suo comportamento imprevedibile - da ponte tra il dandismo belle époque e lo starsystem dei cantanti rock e delle fotomodelle più capricciose, divenendo idolo del jet set internazionale, eroe della stampa scandalistica, approdando a teorie tanto diverse quanto contrastanti (avanguardie rivoluzionarie e cattolicesimo più conservatore), muovendosi tra personaggi che segnarono il farsi di un’epoca vocata alla ricerca artistica ma anche alla pubblicità e al consumismo: da Andrè Breton e Walt Disney a Jean Cocteau e Amanda Lear. Lui era Salvador Dalí, e tutta la sua produzione, geniale e delirante, lo ricorda trionfatore e massimo esponente sulla scena mondiale della corrente surrealista, dichiaratosi genio forse per non ammettere d’essere pazzo - stante ormai lo scontato binomio genio-follia - incoraggiato dall’originalità dell’affermazione. Nel saggio di Pier Mario Fasanotti e Roberta Scorranese – Io non sono pazzo, il Saggiatore, 2004 - racconta di quel Salvador nato nel 1904 a Figueras, cittadina catalana a venticinque chilometri dal confine francese, da una famiglia di medio alta borghesia: padre notaio, ateo, repubblicano, gran bestemmiatore, «il dottor Denaro», uomo pratico, severo, ma anche stimato, un tiranno agli occhi del figlio e madre arrendevole, schiva, che amava rimanere nella penombra cimiteriale della vecchia casa e idolatrava il figlio, assecondandolo in tutto. Ma questo suo modo di mostrarsi dipendeva senz’altro da un fatto tragico: dieci mesi prima della nascita di S. era morto di meningite il primo figlio, anche lui Salvador. Il secondogenito, dunque, rappresentò per lei quasi la resurrezione del primo, da amare e custodire con precauzione spesso eccessiva. Il pittore dirà in un’intervista: «La morte di mio fratello aveva fatto cadere i miei in una profonda disperazione, quindi loro trovarono conforto in me. Io e mio fratello ci rassomigliavamo come due gocce d’acqua: come me aveva l’inequivocabile morfologia del genio». Il primo Salvador condizionò la vita del secondo, costituendo quell’eterna sfida ad un ingombrante fantasma e un appiglio per spiegare la schizofrenia forse un po’ studiata che sfruttava a scopi pubblicitari, mostrandosi convinto che «l’arte fosse una malattia». Di conseguenza, ogni suo comportamento va inquadrato nella megalomania di un uomo consapevolmente e dolorosamente timido che nascondeva, quasi custodiva se stesso agghindandosi di eccentricità e stravaganza o provando gusto per il travestimento, impegnandosi a costruire attorno a se’ quell’alone di leggenda fatto di piccole menzogne ed esagerando la portata di avvenimenti privati e pubblici, spettacolarizzando le sue iniziative. Così, ad esempio, già da piccolo si buttava ripetutamente dall’alto della scala di marmo della scuola lanciando urla con l’obiettivo di osservare lo sbalordimento e l’orrore negli occhi dei compagni e degli insegnanti. Ma sarà la sorella Ana Marìa a scrivere che S. era terrorizzato quando la madre lo portava alla tomba del fratello o quando inciampava nei giocattoli del morto, sparsi dappertutto, o si trovava dinanzi alle tante fotografie. Eppure sarà proprio quel terrore e quel tormento a far nascere l’idea della fratellanza e del doppio che poi svilupperà nella sua pittura, icone non solo delle differenti facce della realtà, ma anche dell’incertezza e della vertigine, della mobilità ottica della visione umana. Il piccolo S. era viziatissimo, ma anche sadico, crudele. Ha raccontato che a cinque anni, per costruirsi un’identità diversa da quella del fratello, in occasione di una gita, andava a passeggio con un bambino biondo e riccioluto che montava un triciclo. S. all’improvviso lo spinse verso un piccolo dirupo, provocando il ferimento alla testa dell’altro e passò tutto il pomeriggio nella penombra della sua casa a mangiare ciliegie e a godersi la vista dell’acqua macchiata di sangue nelle bacinelle, privo di qualsiasi forma di rimorso. Si mostrò recalcitrante soprattutto quando il padre lo iscrisse a scuola, ricorrendo così ai suoi soliti stratagemmi, dando vita ad una sorta di guerra contro le regole, cercando di affermare la sua personalità: fare pipì a letto e lasciare i suoi escrementi sul pavimento. Il suo rapporto con le istituzioni scolastiche , d’altro canto, non fu mai felice. Lui si sentiva molto a disagio fuori dalle musa domestiche, diverso com’era dai compagni: completo alla marinara, scarpe con bottoni d’argento e bastone da passeggio. A quel dandy extraterrestre i compagni, che spesso andavano a scuola scalzi, lanciavano addosso lumache. Tra quegli scalmanati c’era, però, una bambina, molto povera, che portava abiti con molte tasche e pantaloni attillati. S. la guardava continuamente e s’innamorò di lei e fu appunto in quel periodo che iniziò a prediligere le tasche e i cassetti mobili, tema anche questo frequente nei suoi dipinti. L’immagine di sé non gli piaceva affatto, così spesso si mascherava. Gli zii di Barcellona gli mandarono un mantello di ermellino, uno scettro dorato e una corona saldata a un’enorme parrucca bianca e lui si denudava e diventava re e si guardava allo specchio facendo in modo di occultare i genitali tra le cosce. Anni dopo, in una lettera a Garcìa Lorca – il rapporto tra i due fu molto stretto, da sfiorare l’intimità: sembra, però, che tra i due non si raggiunse se non una profonda amicizia, considerando che D. viveva di amori solo platonici, terrorizzato dal contatto fisico – scriverà di essere amante dell’esteriorità, perché «quando tutto è stato detto e fatto, l’esteriorità è obiettiva». All’età di dodici anni fu mandato dai genitori alla tenuta della famiglia Pipxot, amici di famiglia. Quello fu per D. un importantissimo soggiorno perché i Pitxot erano artisti. Sbalordì tutti quando prese una vecchia porta tarlata e vi dipinse sopra delle ciliegie utilizzando solo tre colori: rosso vermiglione per le superfici illuminate dei frutti, rosso cadmio per quelle in ombra e bianco per i punti di massima luminosità. La sua invenzione cromatica fu sbalorditiva e quando gli fu fatto osservare che le ciliegie mancavano dei gambi, lui li appiccicò direttamente nel quadro. Ma il suo approdo al surrealismo arrivò dopo una intensa fase di sperimentazione che si mosse tra classicismo, realismo e cubismo e, non ultima, la frequentazione col gruppo dada di Parigi: periodo di grande entusiasmo e di un’autodisciplina che considerò sempre punto di partenza essenziale «per fare cose memorabili». L’abitudine a guardarsi dentro venne rafforzata dalla lettura dell’Interpretazone dei sogni di Sigmund Freud: «Questo libro ha rappresentato per me una fra le illuminazioni essenziali della mia vita.. l’interpretazione di me stesso divenne quasi un vizio». Ma sulla sua pittura influì moltissimo anche Bosch, quel pittore olandese del fantastico e del grottesco, considerato molto distante dai gusti del tempo, le cui tele esercitarono su D. quel senso della decadenza e del tormento che lo portavano a viaggiare nei labirinti dell’inconscio. «La pittura è un’arte sensuale». Scrisse: «L’essenziale per il pittore è la mancanza di dottrina e metodo: un pittore non può tracciarsi la strada da seguire senza violare la propria sensibilità». L’incontro coi surrealisti di Breton avvenne nel 1929, quando Mirò lo presentò a Magritte e agli altri e lo portò in quel variopinto film surrealista che si girava in diversi set: a casa di Breton, nei caffè, in rue Chateau, nelle salette riservate dei bistrot e nelle case aristocratiche, come quella della viscontessa Marie Laure de Noailles, dove Paul Eluard mostrava a tutti, e con grande compiacimento, le foto di sua moglie Gala completamente nuda. Fu proprio in quel modo che S. conobbe Gala, la donna che poi gli rimarrà accanto per tutta la vita. La loro fu un’intesa molto complessa, che si intrecciava con le memorie erotiche che avevano affollato i primi anni di vita di S., come lui stesso ricorda, eppure la loro unione non ebbe mai nulla a che fare col sesso: la donna fu soprattutto una contabile, oltrechè mamma e musa. All’inizio della loro conoscenza i due si scrutarono, si capirono, si scambiarono segreti e lui assorbì la natura della compagna, una donna quasi malata di esoterismo – lei gli leggeva spesso le carte – e di sesso – continuerà a scambiare una focosa corrispondenza col primo marito nonché sempre nuovi rapporti amorosi anche con uomini molto più giovani di lei. Era una donna decisa: voleva un uomo da fare, tutto da costruire. Non le interessava un genio già compiuto perché voleva formarlo lei, voleva stargli accanto con la sua forza, la sua ambizione ed il suo egocentrismo, inseguendo il sogno di divenire la spalla di un genio. Così, molti ebbero modo di verificare la sua malvagità, quando sequestrava ogni cosa dipinta da S. – che divenne suo marito – per venderla al miglior offerente, indipendentemente dai progetti che in quel momento lui aveva in testa. Eppure lui le fu sempre riconoscente e l’amò – a suo modo, s’intende: «Soltanto lei, Gala, mi restituiva la forza di vivere. Cercava per me i migliori vini di Bordeaux, mi portava al Chateau Trombette o al Chapon Fin, dove facevamo dei pranzi meravigliosi. Posava sulla mia lingua un fungo alla Bordelaise, fragrante d’aglio, e mi diceva: mangia, è buono..».
Il suo rapporto coi surrealisti non fu mai facile, anzi, ad un certo punto, fu addirittura allontanato dai rappresentanti più ortodossi dello stesso. Breton, severo difensore di quell’ortodossia, teneva d’occhio il pittore catalano e dirà : «Dalì è un uomo che pare oscillare tra talento e genio. Fra virtù e vizio.. senza pronunciare una parola, egli si inserisce in un sistema di interferenze..»: lo guardò sempre con ammirazione, ma anche con una certa diffidenza, mentre D. si muoverà sempre tra due fuochi: da un lato la provocazione esasperata, dall’altra un passo indietro e una dichiarazione di fedeltà agli amici del Café Cyrano. In realtà, si sentiva stretto in quei catenacci che il movimento si era autoimposto. Lui cercava l’entusiasmo per la sua arte e per la sua combinazione di genio, fantasia, frivolezza e grandeur. E anche la critica si sforzava di capire lo strano connubio di quei sogni e desideri inconsci, visioni apocalittiche di un uomo bizzarro che se ne andava in giro ingioiellato all’inverosimile, coi capelli lunghi fino alle spalle e baffi lunghissimi all’insù, spesso vestito di bianco: un clown. Il suo surrealismo di matrice autobiografica supererà «l’idea deprimente dell’irreparabile divorzio fra azione e sogno». Lui, a gran voce, professava quel suo metodo paranoico-critico, rete di incubi e angosce, morte, odio, amore, gli opposti inconciliabili che formavano la griglia della sua personalità, una sorta di allucinazione volontaria che lui stesso ha descritto come «metodo di conoscenza irrazionale, basato sulla oggettivazione critica e interpretativa dei fenomeni del delirio». Ha vissuto il surrealismo con tutto se stesso, è stata la sua vita, la ragion d’essere delle sue idee, il genio con cui ha raccontato il mondo, arrivando a quella biforcazione netta tra animale e artista, facendo venir fuori l’uno o l’altro a seconda delle circostanze, o entrambi contemporaneamente. Breton scrisse nel secondo manifesto del surrealismo: «Tutto porta a credere che esiste un punto dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il trasmissibile e l’intrasmissibile, l’alto e il basso, smettono di percepirsi contraddittoriamente». Dalla teoria del putrefacos – la sua scoperta della carne e della realtà in putrefazione – alla teoria del morbido e del duro – come accade nei sogni, le immagini ci appaiono deformate, sciolte nell’acqua calda: le stesse paure compaiono sulla tela come gelati sciolti – per approdare definitivamente al debutto degli orologi molli , di cui lui stesso raccontò: «Un giorno rimasi a casa a causa di un forte mal di testa. Faceva molto caldo e l’occhio mi cadde su alcuni pezzi di formaggio camembert rimasti sul tavolo dal pranzo. Pensai allora che tutte le forme avessero una componete dura e una morbida, che tutte potessero mutare d’aspetto ed essere viste da un’altra dimensione: gli orologi molli non sono altro che camembert paranoico- critico, tenero, stravagante e solitario del tempo e dello spazio»: una risposta davvero daliliana all’interrogativo che è lo spazio-tempo einsteiniano: formaggio.

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