Il 9 novembre 2016
Donald J. Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti d'America e si è
chiusa l'era di Barack Obama che da gennaio 2017, dopo due mandati, è
ufficialmente "in pensione". Hillary Clinton, la candidata
democratica della continuità, da lui appoggiata e sostenuta, non ha saputo
rinnovare negli elettori quell'entusiasmo che lo aveva portato al trionfo nel
2008, e poi ancora nel 2012. La sconfitta è stata uno shock per molti, e lui
per primo non ha nascosto la sua delusione. Ma cosa accadrà ora? Di certo, il
primo afroamericano a raggiungere la carica presidenziale, l'uomo che più di
ogni altro ha influenzato la politica mondiale dell'ultimo decennio non
scomparirà nel nulla, ma continuerà a perseguire il suo progetto e la sua
visione del futuro: dai diritti civili all'economia, dalla tutela delle
minoranze all'affermazione degli Stati Uniti come potenza di riferimento nel
pianeta. Ma soprattutto, come ha avuto modo di ribadire nei suoi numerosi
interventi dopo le elezioni, continuerà a spronare giovani e meno giovani a
impegnarsi per migliorare il mondo, rinnovando il suo messaggio di ottimismo e
perseveranza. In questo libro in occasione dell'inizio della sua "nuova
vita" sono raccolti dalla sua viva voce i principali contributi del suo
percorso e un invito a tutti gli sconfitti a non mollare. Perché "ora è il
tempo migliore per essere vivi".
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mercoledì 1 febbraio 2017
Requiem per un soldato di Oleg Pavlov. In libreria dal 2 febbraio 2017 per Meridiano Zero
Terzo della trilogia
“Racconti degli ultimi giorni” di cui il primo, il pluri tradotto Capitano
della steppa, ha vinto il Russian Booker Prize, Requiem per un soldato è un
romanzo tratto dalla reale esperienza dell’autore presso i campi sovietici in
Kazakistan. Oleg Pavlov, allievo di Aleksandr Solženicyn, è il cantore
indiscusso della Russia a cavallo tra Arcipelago gulag (del suo maestro) e
Lemonov (di Carrère), una sottile terra di mezzo tra il periodo di massima
potenza dell’URSS e il periodo “degli oligarchi”. Un lasso di tempo unico, in
cui tanti avevano già capito che il comunismo non sarebbe sopravvissuto e
vivevano quell’attesa come in una sorta di limbo insensato più che nella
speranza di libertà future. I protagonisti di questa letteratura “interstiziale”
sono i massimi latori dell’assurdità dell’epoca: i soldati semplici (o i
graduati inferiori) preposti alla salvaguardia di strutture ormai inutili come
infermerie, prigioni militari, poligoni di tiro o obitori per i soldati…
La vicenda si svolge nella
cittadina di Karaganda (attuale Kazakistan). Il capo di un’infermeria fissato
con la caccia ai topi decide di prendersi cura della salma di un soldato ucciso
in una futile sparatoria tra militari sovietici. La trama segue il viaggio del
defunto verso Mosca, attraverso protocolli sfilacciati, fori in testa da
camuffare, divise da parata lerce, compiti svolti in cambio di un pacchetto di
the e molto molto freddo. Oltre al capo medico, ignavo padrone di un ambiente
insulso, quale un ambulatorio nella seconda periferia dell’ URSS in declino,
l’ingrato compito di scortare il soldato Gennadij Muchin o almeno i suoi resti
mortali, spetta ad altri due emblematici personaggi. Primo tra tutti forse il
protagonista (almeno tra i vivi) di questo libro ovvero Alësa Cholmogorov,
soldato congedato da un poligono di tiro nella steppa. La solitudine nel
poligono di tiro kazako è descritta con prosa di rara bellezza, ma al di là
degli accenni lirici alla condizione umana, Pavlov riesce a rendere
l’insensatezza della vita militare degli “ultimi giorni” con dei tratti
grotteschi, divertenti. Così, per ironia della sorte, il nostro soldato
semplice avrà solo una persona con cui parlare durante gli sporadici controlli
al poligono di tiro: il paterno generale Abdulla Ibrahimovic Abdullaev
assordato a vita da una granata! L’altro
accompagnatore è il cinico e infervorato autista di ambulanza Pal Palyč, che
sembra essere a suo agio in quel mondo conosciuto a furia di portare avanti e
indietro barelle. A scompaginare la determinazione del terzetto sarà la figura
simbolo dell'inanità del tutto: il padre del soldato morto. Un “patetico
individuo” che annega nell’edonismo il dolore per la perdita del figlio, tanto
da preferire un festino a base di vodka al posto sul treno che porterà la bara
nella capitale per il funerale militare… In un treno merci che funge da hotel,
il padre del soldato si accompagna con un’umanità ferroviaria di vario genere.
Pal Palyč e Alësa Cholmogorov cedono al
richiamo del brindisi in onore del defunto, ma davanti a loro si schiude una
sorta di non compleanno con tanto di “cappellai” matti e situazioni surreali.
In fondo se morire è così semplice e la vita non è molto più sensata che la
morte, non resta che brindare e far baldoria. O impazzire.
Oleg Pavlov (Mosca,
1970) è uno degli autori più dotati e stimati del “rinascimento letterario”
russo contemporaneo. Molto giovane ha prestato servizio a Karaganda come
guardia carceraria, testimoniando ogni sorta di degradazione umana; alla fine
una grave commozione cerebrale l’ha portato a essere ricoverato presso
l’ospedale psichiatrico locale. Ha lasciato l’esercito all’età di vent’anni a
causa di una diagnosi di “instabilità mentale” e scritto questo suo primo
romanzo breve semiautobiografico a ventiquattro. Leggendo Arcipelago Gulag di
Solženicyn, afferma di avervi scorto esattamente il lager in cui aveva
lavorato. Negli ultimi anni di vita di Solženicyn, è diventato suo allievo e
aspira a proseguirne la grande opera. Nel suo insieme, la sua trilogia
narrativa fornisce un resoconto ironico ma agghiacciante di cosa volesse dire
essere un soldato nelle remote regioni asiatiche dell’ex impero sovietico nel
momento insieme tragico e assurdo della sua dissoluzione.
Premi letterari:
Novy Mir Literary Magazine Prize (1995)
October Literary Magazine Prize (1997 e 2002)
Russian Booker Prize (2002)
Premio Solženicyn (2012)
Finalista Prix du
Meilleur Livre Étranger (2012)
“The Doors in direzione del prossimo whiskey bar” (iQdB Edizioni di Stefano Donno) di Giuseppe Calogiuri Al Rì - libri da bere a Corsano (Lecce)
Ecco Giuseppe Calogiuri
e il suo “The Doors in direzione del prossimo whiskey bar” (iQdB Edizioni di
Stefano Donno) che sarà il 3 febbraio
2017 alle ore 18,30 presso Al Rì - libri da bere in via della Libertà 106 a Corsano.
Presentano l’autore Daniele Bleve e l’editore Stefano Donno. iQdB Edizioni di Stefano Donno promuove
l’evento in collaborazione con Arcadia Lecce e Carpe Diem
“Ci vuole coraggio. Sì,
ci vuole molto coraggio nel chiedermi di scrivere una prefazione a un libro su
di una band degli anni ’60. Perché, anche a voi che leggete, qual è il primo
pensiero che vi viene in mente? Sicuramente uno di quegli insopportabili gruppi
frikkettoni, hippie, pacifisti, lenti e insulsi sul modello di Mamas&Papas
o Jefferson Airplane (ne sono certo). Per fortuna, anche in quegli anni
terribili dal punto di vista musicale qualche luce affiorava nel buio. E,
forse, una luce più di tutte, quella di The Doors! Ed è di questa luce che
questo libro vi parla. Meglio, ve la racconta. E Giuseppe Calogiuri, conoscendo
questa mia debolezza, ha saputo trovare lo strumento e il coraggio giusto. Ma,
forse, è necessario andare per ordine… Il 4 gennaio 1967 The Doors pubblicano
il loro primo album omonimo. Non siamo in un anno qualsiasi, quel 1967 segnerà
la storia degli Stati Uniti, prima, e dell’intero mondo occidentale, poi. Già
da qualche anno le forze armate di Washington combattono lontano da casa una
guerra non ufficiale. Dall’inizio del suo mandato presidenziale, il
“progressista” John F. Kennedy ha cominciato a prendere i ragazzi del suo paese
per scaraventarli dall’altra parte del mondo. The Golden One (citando The Human
League), figlio di una famiglia arricchitasi spropositatamente grazie al
commercio illegale di alcol, ha precipitato gli Stati Uniti nel fango del Vietnam.
Il suo successore, Lyndon B. Johnson, ha continuato il lavoro. Anzi, lo ha
portato alle estreme conseguenze. Il 7 agosto 1964, il Congresso americano –
approvando la H.J. Res. 1145 (conosciuta come la “Risoluzione del Tonchino”) –
ha consegnato al Presidente un assegno in bianco per portare le truppe ovunque
ritenesse necessario. È l’inizio della presidenza imperiale. E’ anche l’inizio,
in pratica, della coscrizione obbligatoria per i giovani americani. Quella
carne fresca serve. È indispensabile per combattere nelle paludi e nelle
giungle del sud-est asiatico. Nel 1968, saranno ben 500.000 i soldati impiegati
in Vietnam (con infiltrazioni anche in Cambogia e Laos per inseguire i
charlie). In questo clima, le Università sono le istituzioni che, più di altre,
risentono della guerra. I ragazzi che “vincono” alla perfida lotteria della
coscrizione hanno solo tre scelte: 1) accettare l’arruolamento; 2) scappare,
magari in Canada (come Jack Nicholson); oppure 3) scegliere la strada
dell’obiezione di coscienza. La terza è una scelta difficile, ti mette fuori
dalla società e, per questo, ci vuole un coraggio enorme. Un campione sportivo
all’apice della carriera rifiuterà più volte l’arruolamento e il 20 giugno del
1967 sarà giudicato colpevole di tradimento. Quell’uomo era Muhammad Ali! Una
nuova strada doveva essere trovata. E qui la musica sarà fondamentale come
mezzo di aggregazione per tutti coloro i quali volevano fare qualcosa. Il 1967
regalerà alla costa occidentale degli Stati Uniti la Summer of Love e al
Vecchio Continente la spinta alla rivolta studentesca, che in Europa inizierà
nel maggio dell’anno dopo. La scintilla partita dall’Università di Berkeley, in
California, diventerà fiamma viva in altri atenei, per trasformarsi in incendio
a Parigi. Il Monterey Pop Festival del giugno 1967 sarà il pretesto che
permetterà agli studenti di unirsi, confrontarsi e cogliere tutti i segnali che
artisti come Jimi Hendrix o The Who sputavano dal palco. Segnali che, in un
modo o in un altro, volevano dire rabbia. Beh, The Doors sono figli e, insieme,
strumento di quella rabbia e di quella società americana che è confusa e
terrorizzata dai suoi stessi leader. Una società che ha visto cadere i propri
miti politici con l’assassinio di Kennedy, o quelli sportivi, con l’arresto di
Ali, e che vede, continuamente, partire i propri ragazzi verso luoghi lontani e
impronunziabili per tornare, poi, in casse avvolte dalla bandiera a stelle e
strisce. Una generazione di giovani e adolescenti che si rifugia sempre più
nelle droghe. Magari nuove droghe come l’LSD, che aprono nuove porte. E queste
porte sono quelle già narrate da William Blake e che Jim Morrison, Ray
Manzarek, Robby Krieger e John Densmore faranno proprie e attraverseranno con
l’arroganza, l’incoscienza e la rabbia dell’età. Arroganza, incoscienza e
rabbia che non si possono non condividere e abbracciare. Abbracciare anche da
parte di chi, come me, è cresciuto con e nel punk, prima, e nella new wave,
dopo. Un triade di valori e sentimenti che tutti insieme risiedono in quella
prima prova discografica e che, qui, Giuseppe Calogiuri analizza e descrive con
sapienza tecnica assolutamente invidiabile (almeno da parte di chi crede che
conosciuti due accordi si possa e si debba formare una band!). Quello che avete
tra le mani non è un ennesimo libretto sulla band di Los Angeles, no. Sono
pagine che vi faranno fare un passo avanti sulla strada della conoscenza di un
album fondamentale. Un disco con veri gioielli. E alcuni sono gioielli
sfrenatamente gotici: come non citare la bellezza fulminante di The Crystal
Ship. Pezzo che, per il chiaro riferimento a leggende celtiche, avrebbe
sicuramente fatto innamorare i membri della Confraternita Pre-raffaellita di
vittoriana memoria. Il dolore che trasuda freddo e umido da End of the Night o
l’incestuoso sangue che sgorga da The End. Pezzo, quest’ultimo, che non può non
ricordare In Cold Blood di Truman Capote e a causa del quale, soprattutto, sono
certo, il Re Inchiostro Nick Cave avrebbe venduto l’anima per poter scrivere
una murder ballad come quella. Insomma, ora basta, inutile aggiungere altro.
Giuseppe Calogiuri vi ha invitato, vi ha aperto le porte e, come avrebbe
cantato Ian Curtis: “This is the Way… step inside!” (Prefazione di Daniele De
Luca)
Giuseppe Calogiuri
(1978) è nato a Lecce e qui vive e lavora come avvocato specializzato in
diritto d’autore e degli artisti. Alla professione affianca l’attività di
chitarrista ed ha all’attivo un decennio di militanza nella prima tribute band
salentina dei Doors, con la quale ha portato il sound della band di Los Angeles
in giro per la Puglia. Giornalista e scrittore, tra i suoi lavori “Una buona
giornata” (premio “Corto Testo”), “Tramontana” (Lupo Editore, 2012), “Cloro”
(Lupo editore, 2016)
iQdB edizioni di Stefano Donno / Sede Legale e
Redazione: Via S. Simone 74 / 73107 Sannicola (LE) / Mail – iquadernidelbardoed@libero.it
Redazione – Mauro Marino / Social Media Communications
– Anastasia Leo, Ludovica Leo
Segreteria Organizzativa – Dott.ssa Emanuela
Boccassini
Public Relations – Raffaele
Santoro
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martedì 31 gennaio 2017
La mattina andavamo in Piazza Indipendenza. La nascita de la Repubblica: storia di un miracolo editoriale di Franco Recanatesi (Cairo Publishing)
«Il nostro obiettivo è
superare nelle vendite il Corriere della Sera.» Quando, nell'autunno del 1975,
Eugenio Scalfari annunciò che la sua nave pirata prossima al varo, battezzata
la Repubblica, avrebbe battagliato con l'incrociatore di via Solferino che da
un secolo solcava i mari indisturbato, fu accolto da risolini di scherno. E
invece... Questa è la storia di un quotidiano che dopo appena undici anni -
esempio unico al mondo - ha toccato il primato delle vendite nel proprio Paese.
L'appassionante testa a testa fra i due grandi giornali - che da allora non si
è mai arrestato - si svolge parallelamente a una delle fasi storiche più
tumultuose e drammatiche conosciute dall'Italia, segnata da terrorismo,
scandali epocali, furiose battaglie civili e politiche. Mentre la Repubblica
compie quarantanni, un giornalista che nel quotidiano di piazza Indipendenza ha
ricoperto ogni ruolo racconta quella straordinaria avventura. Partendo da
lontano: il felice incontro fra i due protagonisti, Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo,
la loro passione per la carta stampata, il tentativo di coinvolgere Montanelli,
fino alla realizzazione del grande sogno cullato per oltre vent'anni. Dalla
complicata gestazione alla volata verso il milione di copie. Il clima eccitato,
teso e goliardico della redazione, ma anche i tormenti e i contrasti, gli amori
e i tradimenti. Le minacce brigatista. Le vicende pubbliche e private dei suoi
più celebri giornalisti: i litigi Pansa-Bocca, i capricci di Biagi, il pianto
della Aspesi, gli scherzi di Guzzanti, le fughe di Forattini e Terzani. E
quella volta che Scalfari, in lacrime, chiese aiuto a Beethoven...
lunedì 30 gennaio 2017
Asghar Farhadi boicotterà gli Oscar: «Non parteciperò alla cerimonia nemmeno se Trump cambiasse idea» - Best Movie
Asghar Farhadi boicotterà gli Oscar: «Non parteciperò alla cerimonia nemmeno se Trump cambiasse idea» - Best Movie: Il regista iraniano commenta così il #MuslimBan del Presidente USA
Il cuore del potere. Il «Corriere della Sera» nel racconto di un suo storico giornalista di Raffaele Fiengo (Chiarelettere)
Una storia e una
testimonianza. Di chi si è battuto per quarant’anni in difesa dell’indipendenza
del giornale più famoso d’Italia, il giornale della borghesia illuminata, il
giornale di Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un giornale che veramente libero
non è mai stato perché sempre al centro di appetiti economici e politici.
Raffaele Fiengo, giornalista del “Corriere” dagli anni Sessanta, di formazione
liberal, ci offre la sua versione dei fatti attraverso le lotte che ha condotto
con tenacia sempre dalla parte dei giornalisti per affermare i principi di una
stampa libera. Una lotta dura, dai tempi eroici della direzione di Piero Ottone
alla strisciante occupazione della P2 sotto Franco Di Bella fino ai disegni
egemonici di Craxi e poi le indebite pressioni dei governi Berlusconi. Oggi gli
attori sono cambiati ma con le interferenze del marketing e della nuova
pubblicità, e l’invasione dei social network, il mestiere del giornalista è
ancora più contrastato, anche al “Corriere”, da sempre “istituzione di
garanzia” in un’Italia esposta a continue onde emotive e a tensioni di ogni
tipo. Se cade il “Corriere” cade la democrazia. E questo libro lo dimostra.
Come scrive Alexander Stille nell’introduzione, “considerate le varie lotte
avvenute per il controllo del ‘Corriere’, è un miracolo che da lì sia uscito
tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi
di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro”. (Introduzione
di Alexander Stille)
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