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venerdì 14 dicembre 2007

Alessandro De Santis, Il cielo interrato
















Alessandro De Santis, Il cielo interrato, Joker (Novi Ligure, 2006)

Poesia fatta d’urgenza spontanea. L’autore della silloge poetica Il cielo interrato, Alessandro De Santis, apre le porte dell’haiku senza farsi schiacciare dalla ripetizione dell’accesso. Non esiste conformità con quanto è stato già visto, nella maggior parte dei casi. Si legge nuovo, e del nuovo. Dove la freschezza del verso immerso in un’urgenza che alza a valore predominante il carattere sott’inteso della spontaneità coglie le mani di tutto il mondo – lettore. Testi brevi, dunque. Essenziali quanto netti. Il linguaggio è permeato da letture, certamente; eppure è libero da schemi. Gli spazi nudi si sono tolti vestiti, anzi i vesti mai li hanno avuti. Ripercorrendo il filo del volume, si potrebbe scegliere una prova che meno somiglia al resto del corpo testuale. Che, per esempio, Quaderno di riflessi, una poesia apparentemente piana, versi simbolicamente facili, non è fatta di un solo momento. Anche se non conosce “paragrafi”. “I sensi bruciano il sangue / Sospiri tumultuano tra le dita / l’inquietudine è un corallo sotto il ghiaccio / onde spietate sotto i portici / scarpe spaiate senza nome / Una qualche gioia del pensiero / nulla denudato in insonne attesa…”. In un intervallo dove le musiche preferite di De Santis evidentemente stanno tacendo, è possibile carpire il senso del dentro che muove la forza – volontà di scrivere. L’irrequietezza agita la mente di chi scrive. La poesia si fa largo dove è stretto passare. Sotto il freddo c’è tanto altro da conoscere e percepire, dopo aver sentito e ingurgitato. Alessandro De Santis ha davanti a sé altre creazioni a venire, sicuramente. Nella pubblicazione si legge che la gioia di esprimersi senza ridere per forza per il momento non è affatto pronta ad arrestarsi. I riferimenti dell’autore romano sono lontani geograficamente e vicini idealmente. Tutto in favore di altre creazioni da destinare a un futuro prossimo e dolcemente scalpitante.

NUNZIO FESTA

fonte iconografica
www.recsando.it

mercoledì 12 dicembre 2007

Stefano Cristante e Simone Giorgino alla libreria Icaro di Lecce


















LIBRERIA ICARO
Presenta

Sabato 15 dicembre 2007

Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30

Stefano Cristante
Visite Inattese (Besa editrice)


Presenta l'autore Luciano Pagano


Le composizioni poetiche di Stefano Cristante, in questo suo Visite Inattese hanno una modalità di struttura compositiva piuttosto varia, dove vengono a trovarsi diverse situazioni redazionali in bilico tra il Diario Poetico e il Poemetto. Il corpus poetico complessivo si articola comunque in quattro sezioni Tipi di cose, Anatomie, Atti di dolore, Amenità. Rientranti nella nuova tendenza della modern american poetry, dove i canoni della metrica si desemantizzano, per creare una prosa poetica più adatta all’attività orale performativa. E di fatti Cristante lo fa a esempio nel componimento And for what a teatro. Il retroterra contenutistico dei componimenti di Cristante sa di Fiori del Male, anche se la capacità descrittiva dei passaggi interiori, si trasforma in un modus poetico incentrato sulla tensione tra il desiderio di comunicare con e per l’altro, e le paranoie esistenziali da solitudini quasi auto-imposte, come se l’altro sia creatura atroce da cui scappare.
Un’opera soprattutto ironica, sarcastica, sardonica come lo potrebbe essere il risus di un Max Stirner, dove la Poesia si prende in giro e prende per i fondelli, maggiormente chi la reputa monoliticamente sacrale.

STEFANO CRISTANTE, è docente di Sociologia dei fenomeni politici e direttore dell’Osservatorio di comunicazione politica (Ocp) presso l’Università del Salento. Nel catalogo Besa ha pubblicato Da Vendola a Prodi,in cui vengono analizzati i media nazionali e locali nel corso delle elezioni regionali del 2005 e delle politiche del 2006






Domenica 16 Dicembre 2007
Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30

Simone Giorgino
Asilo di Mendicità (Besa editrice)

Presenta l'autore Antonio Errico

Conquistare uno spazio del genere – uno spazio per l’odore dei sedili dei treni locali, per il rumore sordo di uno sbotto di tosse, per il colore del muro sbrecciato e livido dell’ “Asilo di Mendicità” o di Santa Maria del pane – conquistare questo era tutto ciò che volevamo, e che chiedevamo a una poesia viva. Essere vivi anche noi: per gioco, per scherzo, per una volta, per provare.Questo, allora, abbiamo fatto.

SIMONE GIORGINO (1975) è uno dei tre autori di Venenum.

lunedì 10 dicembre 2007

Maurizio Leo. Del Gatto delle Fusa e del suo strusciamento (Lupo editore)












L’idea di una antologia avente come oggetto una selezione quanto più completa ed esauriente del percorso poetico di Maurizio Leo, mi solleticava da tempo, anche perché abbiamo dinanzi un autore davvero singolare, i cui versi sino adesso hanno procurato non pochi problemi a quanti hanno tentato una sistemazione analitica organica e puntuale. Maurizio Leo, che oggi vive e opera a Copertino in provincia di Lecce, nasce nel 1959, e da più di quindici anni porta avanti con encomiabile impegno una piccola casa editrice I Quaderni del Bardo, paragonabile per qualità editoriale alle pubblicazioni di Vanni Scheiwiller. Non possiede una distribuzione, né un catalogo, non ha un ufficio stampa, non ha un correttore di bozze, spesso la sua casa diviene un piccolo magazzino per i libri che lui realizza, costruisce, accudisce: eppure questa preziosa realtà che si muove nell’instabile e multiforme mondo dei libri (basterebbe leggere Il Controllo della parola di Andrè Schiffrin per i tipi di Bollati Boringhieri per farsene un’idea), nei suoi sedici titoli annovera nomi come Paolo Valesio (sino al 2004 resposabile del Dipartimento di Italianistica della Yale University, oggi nella prestigiosa Columbia University negli U.S.A.),un inedito di Vittore Fiore che ha impegnato e ha fatto ruotare attorno a questo volume, energie intellettuali come Massimo Melillo, Domenico Fazio, Rina Durante e ancora Maurizio Nocera e Elio Coriano. Sempre rigorosamente con le sue forze cura Il Bardo, una rivista a distribuzione gratuita (militante ad onor del vero), con un inserto dedicato alla poesia dal titolo “Allestimento” che ha ospitato un inedito del poeta cileno Arturo Morales, di chiara fama internazionale. Di lui hanno scritto pubblicamente Antonio Errico, Paolo Valesio, Mario Cazzato, Antonio Tarsi, Ennio Bonea. Privatamente, numerose le lettere di stima poetica di Francesco Saverio Dodaro. Maurizio Leo è stato tra i primi a ricevere una scheda critica e a essere ospitato con alcuni suoi inediti poetici sul sito web di letteratura e poesia diretto da Luciano Pagano, e di cui sono redattore www.musicaos.it. Grazie a questa operazione editoriale, posso permettermi la piccola presunzione di poter dichiarare di avere una conoscenza completa di Maurizio Leo e la sua opera. Leggendo L’Uac, il suo primo lavoro del 1981, già si intravede chiaramente da alcuni titoli quali saranno le coordinate poetiche che daranno poi vita alla sua identità (Pre-morte, Post-mortem, Luce e Morte, Diversità, Disperazione, Danza di Morte, Il Vino Maledetto, Per i Sobborghi, LSD, Nel Buio, Inutilità) . Un canto di disperazione quello di Leo nel suo L’Uac, che si perde in un abissale eterno ritorno. Scrive lucidamente Antonio Tarsi: “ (…) Allora poi cosa resta ai piedi del monte? Nulla forse nulla e ricominciare sia pure confusamente e surrealmente non sembra neppure più possibile da tre, ma da chissà dove…”. Un discorso poetico comunque ancora incerto, mai immaturo, però come di chi non ha trovato il modo di stare in punta di piedi sul baratro. Poi da Dogmaginazione, del 1992, comincia la svolta, chiamiamola formale, sperimentativa, lessicale di questo autore. Un libro che è volontà di bottino, di raccolta, in cui i versi sono incarnazione dodecafonica della meraviglia presente nell’Attendere, non importa cosa … fosse solo anche l’attesa della Fine, a costo di pagare un prezzo altissimo. Successivo all’Albergo di Latta del 1994, raccolta di transito immaginativo in un universo altro della poesia, vede la luce un vero e proprio capolavoro: Fobia. Per definirlo occorrerebbe parlare di un vero e proprio saggio per versi sull’Empietà, in cui si assiste ad una scrittura slegata da qualsiasi legame alla realtà, agli oggetti, ai volti, alle storie, perché il corpo poetico si incarna in un’Apocalisse il cui fuoco brucia, disintegra e scioglie qualsiasi cosa vi si trova dinanzi, lasciandovi solo cenere: sublimazione del nichilismo par excellence. Riportiamone un brano per chiarire le idee: “Ho masticato i capelli dell’universo, saziandomi fino a scoppiarne moralmente. Non mi hanno fatto schifo! Questo lo dovevo pur dire. Quanto di più schifoso esiste che noi non sfioriamo? I cadaveri sprofondati nei sensi dell’essere,nei domini dell’irreale, certo non provano un forte sgomento, tra i nefasti miasmi di un’impresa comune. FINORA MI SONO SOLO INGANNATO. Ho bestemmiato fuggendo, con una ferita alla testa ela rabbia del linguaggio mi affrettava il passo; sono caduto in una pozzanghera, l’acqua era sangue, sangue vergine, sangue d’innocenti; fredda è la brutalità del cacciatore, che nell’inverno bianco, insegue l’uccello ai piedi di un castagno. Volgare terra, un giorno sarai sballottata tra le mura dell’universo,e quel giorno VOI, vi romperete la testa, e saranno sventure e maledizioni le corruzioni delle vostre moralità”. Ma Maurizio Leo, nella sua carriera di poeta, sembra seguire il desiderio di sorprendere i suoi lettori e non solo. Nel 1998 c’è un vero e proprio cambio di point of view, nell’orizzonte del Nostro, tanto che ontologicamente ed esistenzialmente rivoluziona i codici, i versi diventano sincopati, spezzati, quasi a voler rendere violenza alla Poesia, ma alla maniera di un coitus infinitus, come fece gia Allen Ginsberg o William Burroughs nel suo Nova Express . Già perché dal 1998 la dimora che Maurizio Leo sceglie per farsi vivere poeticamente, è la stessa di Hemigway, Faulkner, Kerouac, Bukowski, un tratto della storia della poesia internazionale, raccontata magistralmente nel 2005 da Fernanda Pivano nel suo The Beat Goes On , per i tipi di Mondadori. “ la macchina si è rotta/ mi hanno rubato il fegato/questa salita infinita/ senza una strada/ tristezza che si scioglierà in un sorriso/ queste scogliere/ come una camera da letto/ho consumato fiammiferi e sigarette/ sui tetti scorre l’acqua dei critici/ musica posa le mani/ ehi! Charles mi devi 40 dollari” (non suona più il jukebox nell’appartamento di Allen, 1998). Esiste però una strana coincidenza, forse metastorica, fortemente astratta, tra una svolta di tal sorta, a questo punto anche timbrico-ritmica, proprio a cavallo tra il 1998 e il 1999: la nascita dell’Hip Hop, che guardacaso, viene fatta coincidere convenzionalmente con la pubblicazione nel 1999 del singolo Rapper’s Delight da parte del gruppo newyorkese Sugar Hill Gang. Una sintesi, forse ai più potrebbe sembrare azzardata, assolutamente riuscita tra la cultura beat e quella della nuova cultura (in quegli anni ovviamente) afro-americana. Il risultato sarà Il Bazar delle parole scomposte (2002). Per la cronaca, nel 2000, Maurizio Leo, pubblica, continuando instancabilmente la sua attività editoriale, alcuni suoi versi nell’antologia dal titolo Absentia , la prima antologia di militanza scritturale, che ha pubblicato gli interventi di quei poeti che in quello stesso anno, hanno dato luogo a performances nei pub salentini come L’Old Crown di Copertino, il Sirtaki di Porto Cesareo, gli Addams di Lecce. Ma ritornando al Bazar delle parole Scomposte non a caso Paolo Valesio scrive nella prefazione: “E’ interessante per esempio vedere come in questi testi i lacerti di una certa retorica modernistica del Mediterraneo (…) si inseriscano in una prosaicità contemporanea post-industriale (dentro una sola immensa periferia del mondo), e vengano poi smistati a uno sfondo nordico-gotico tutt’altro che mediterraneo (…) Analogamente è molto beat-vagabondante”. Ma facciamo parlare i versi : “ ci siamo fermati nei gabinetti/ di un autogrill/ ermetici/ ci porteranno sulle nubi dell’inquietudine/ chissà se per domenica arriveremo/ all’hotel plaza/ nello spazio del silenzio/ nell’assurdo che ci spinge ad avanzare/ poi un cartello: accendete le sirene”. Nel suo ultimo lavoro dal titolo Il cimitero di memoria, Maurizio Leo sembra mantenere il suo trend di ricerca sintagmatica lavorando su di un’espressività poetica lacerante del dubbio, dell’angoscia, del lutto, della separazione. Recupera toni iperastrattamente poetici ma di una polarità negativa, producendo versi come se fosse un novello Aleister Crowley che scrive sotto la dettatura del demone Aiwass il grimorio maledetto “The Book of Law”. Il paragone non è inappropriato perché qualcosa di infernale si cela nei versi di Maurizio Leo, che riesce a costruire architetture poetiche dall’umbratilità goticheggiante di un Blake nel celeberrimo “Matrimonio del cielo e dell’inferno”. Maurizio Leo fa sua l’esperienza beat, pulp, assorbendone la matrice codificata nell’ambito dell’espressività letteraria quando scrive la gioia non è scomparsa/ non è scuro il mattone/ grondante di sudore/ non può erigerlo/ ma sono vere le lacrime dell’indiano alto due metri/ che nell’estasi scompare ma la supera creando un suo percorso dove il corpo poetico si sbriciola in abissi dove i ricordi, la memoria divengono abominii che scarnificano, lacerano una demografia perversa che annuncia il viaggio: “ Ci ritrovammo, fermi, innanzi alle croci del piccolo cimitero di Memoria. Pietre e croci. Legno e fiori. Polverosi viali e poi qualche filo d’erba. Attendemmo l’arrivo per poi ripartire. Attendemmo, in questa minuscola parte di mondo, in questo lembo di terra di nessuno. Qui di Memoria “. Al di là di una possibile ragione decodificativa sulla produzione poetica di Leo, esiste la metà oscura di tutta questa faccenda. Ebbene se dovessimo spiegare il perchè di un poeta beat, o post-beat, in un territorio come il Salento, lontano dai miasmi dei sobborghi delle grandi metropoli americane, o comunque distante da quelle città italiane che hanno avuto l’opportunità di ospitare mostri sacri della beat - come Genova che nel maggio del 1979 in un teatro accolse un’azione performativa di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky - azzereremmo qualsivoglia possibilità di rendere un autore come questo degno di entrare a far parte di antologie di rilievo nazionale. Ma a questo punto risulterebbe addrittura normale chiedersi che senso hanno avuto una Claudia Ruggeri o un Salvatore Toma, e perchè no anche un Antonio Verri. Già…perché la qualità c’è e come! Un aspetto questo che si può capire subito, leggendolo, e trascurando il fatto che sia un poeta che viva a Copertino, in provincia di Lecce, patria del Santo dei voli, Giuseppe Desa . In ogni verso di Maurizio Leo c’è una sofferenza incredibile, forse inenarrabile, che non nasce dall’essere un mestierante dei versi, chè quelli si limitano a voler verificare se la parola scelta calzi a pennello in questa o quella determinata strofa, se il ritmo acciuffi o meno per i capelli il lettore, se occorrano o meno giochi di prestidigitazione pur di trovare la chiave di volta che attraverso la discesa dello spirito della Sperimentazione, lo cinga di alloro … La forza dei versi in Leo, è da ricercare nella disperazione del riflusso infinito dei giorni che passano, senza concedere sconti, perché è la vita stessa che non ne concede, e non concede tempo, né spazi, né pause dove poter scrivere liberamente qualche verso (quasi dissanguandosi), perché la lotta per la sopravvivenza è da giocarsi sulla mediocrità dilagante che ti circonda, quella fatta di tempi bui, di volti che ti attraversano senza regalarti nemmeno un sorriso, di persone che dove si posano cambiano colore, o dei burocrati della cultura, sempre pronti mai sazi di confezionare pacchi dono, luccicanti, sfavillanti di banalità. Non siamo di fronte né ad una poesia di lotta politica, né d’impegno civile. E’ una poesia di resistenza, quella di Maurizio Leo, che crea attorno al suo corpo una seconda pelle, indispensabile per evitare bruciature, soprattutto quando si sente di non appartenere ad un contesto particolare, che si vorrebbe vivere altrove, e respirare un'altra aria, a sognare, atroce sognare, regressus ad infinitum verso l’oblio del senso … insomma essere da tutt’altra parte. Certo fumare le Pall Mall, le stesse sigarette del maledetto James Dean, mantenere rapporti con l’America, mandando i suoi libri alla Yale, scrivendo alla mitica City Lights… pura coreografia? No! E’ sentirsi di un altro mondo e di un altro modo: “ scesi nella parte sud/ dell’aeroporto/ tutto brillava nella pozzanghera/ pensai/ è un mondo di macchina/ mi fermerò a comprare/ una cravatta/ invece del solito drink/ sbirciai attraverso il vetro/ vidi/ ciancianti befane/ dispensare anemiche cibarie/ in piatti di metallo/ a ciascun sacrificio/ c’è un ragazzo purificato/ non è un gorilla/ è solo/ desolation blues”. Ora, l’intera operazione di antologizzare Maurizio Leo, potrebbe anche starci … ma entro un certo limite. Perché i suoi versi mi hanno fatto pensare ad una vera propria history of violence, mi hanno portato alla mente le immagini del film Easy Rider o Marlboro Man, insomma di tutto uno spazio da grande schermo, da Twenty Century Fox, da Hollywood per farla breve. Non stiamo alla larga da questi versi, ma assumiamoci il rischio di affrontare questo poeta a pugni e denti stretti, di prendere anche dei colpi piuttosto duri, sui nostri bei visini, abituati alla poesia da giardino … mentre c’è ancora tanta Bud Weiser da buttare giù!

da www.musicaos.it
fonte iconografica da www.ilmessaggero.it

martedì 4 dicembre 2007

La Besa editrice a Roma a Più Libri Più Liberi 2007










Palazzo dei Congressi Eur - Roma

Giovedì 6 dicembre

dalle 18 alle 19

sala turchese

Tabula Rasa 06 (Besa editrice)

Rivista di letteratura invisibile

autunno/inverno 2007

La rivista letteraria tutt’altro che invisibile!

Tabula Rasa è la rivista che la Besa Editrice dedica dal 2002 alla scrittura di ricerca narrativa e poetica. Prosegue la collaborazione con il gruppo de iQuindici, la sezione dedicata alla narrativa accoglie una selezione dei racconti già comparsi sulla loro rivista Inciquid, in particolare gli autori ospitati sono Gabriele Gismondi, Sandra Risucci e Paolo Ferrari. La sezione dedicata alla narrativa si completa dei racconti inediti di Gabriele Dadati, Gianluca Gigliozzi e Michele Lupo, oltre che dall'esordio di Marco Montanaro, dal titolo "Gli ultimi giorni di martirio del Signor B.". Nella sezione dedicata alla critica è ospitato un interessante intervento di Christian Sinicco, dal titolo "La nuova poesia in Italia? ouverture sulla differenziazione", nel quale vengono esaminati gli autori della recente poesia italiana; insieme a questo gli interventi di Luciano Pagano, Elisabetta Liguori e Grenar, che con Giuseppe D'Emilio descrivono dall'interno l'esperienza di VibrisseLibri. Nella sezione poesia sono ospitati quattro autori, Fabio Franzin, con il poema inedito intitolato “Sull'orlo della strada”. Luigi Nacci, con una selezione di poesie scritte tra il 2004 e il 2007, Claudio Pagelli e, per la prima volta in rivista, Luigi Massari. Le illustrazioni di questo numero sono di Orodè.

Relatori: 
Andrea Di Consoli, Luciano Pagano, Elena Cantarone, Michele Lupo, Stefano Donno
 
 
 

Palazzo dei Congressi Eur – Roma

Sabato 8 dicembre

dalle 19 alle 20

sala ametista

Melissi 14/15 – Cultura, tradizione e folklore: un patrimonio da difendere, una rivista da conoscere (Besa editrice)

Relatori: Vincenzo Santoro, Roberta Tucci, Luciano Del Sette


Questo numero di Melissi, come sempre attento e sensibile ai vari aspetti delle culture umane, scava in profondità sul territorio e contemporaneamente si proietta in un percorso che, partendo dalle sponde opposte dell’Albania, raggiunge l’India passando per il Medio Oriente. Il tema sotto i riflettori è quello della patrimonializzazione della cultura popolare, attualissimo e di grande interesse sia per la ricerca che per la salvaguardia. Il soggetto sollecita, infatti, riflessioni altrettanto complesse e cogenti attorno a concetti quali cultura, popolare, folklore, locale, e al ruolo degli enti pubblici e politici nella determinazione di tali definizioni e nella selezione dei beni che meritino sostegno o salvaguardia. Entrando nel vivo della questione, vengono proposti alcuni documenti prodotti dalla commissione istituita dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Rutelli- e presieduta da Paolo Apolito - con l’obiettivo di identificare delle linee guida per l’individuazione di alcuni eventi da valorizzare attraverso un sostanzioso sostegno economico ed eguale esposizione mediatica. In relazione a questi processi di selezione trova posto il saggio di Berardino Palumbo che smaschera e chiarisce i criteri e le procedure che regolano l’inclusione ed il mantenimento dei beni nel patrimonio protetto dall’Unesco. Completano il quadro i contributi che ruotano attorno alla definizione dei beni demoetnoantropologici, di cui se ne fornisce quella istituzionale più recente , e la costituzione di ecomusei. A queste di carattere generale si aggiungono osservazioni più specifiche sulle dinamiche del kithsh e dello shopping, sul rapporto fra cibo e identità, trattato in stile francese da Salvatore Bevilacqua e ancora sull’uso del corpo nelle feste religiose e sul teatro popolare di ricerca. Un posto a sé hanno le riflessioni trasversali di Gabriele Mina su ‘I beni culturali e la scimmia’. La musica ha il suo spazio con i Ghetonia, noto gruppo di musica popolare, e la loro ricerca in equilibrio fra tradizione e creatività, e con il tambur, il liuto che con il suo ritmo guida le riunioni mistiche degli Yaresan, curdi iraniani seguaci di un culto che ha le sue radici nello Zoroastrismo. A questo contributo scritto da Siamak Guran, egli stesso Yaresan, si affianca quello altrettanto interessante sul sufismo e la trance ad opera di Guglielmo Zappatore. Se l’Albania cui ci introduce Donato Martucci e da cui si parte è quella delle comunità montanare basate su un codice d’onore maschile, l’India che fa da capolinea è quella delle danze rituali e dei culti al femminile presentati da Luisa Spagna.


 

Special tank to Salento Web










Un mio personalissimo ringraziamento, anche se con discreto ritardo, va a Gioia Perrone e Francesca Angelozzi, di Salento Web Tv che hanno seguito con grande professionalità e disponibilità i più interessanti appuntamenti della Città del Libro di Campi, tra cui anche quelli di Besa ovviamente. Vi assicuro che è un piacere lavorare con loro!

mercoledì 28 novembre 2007

Suds













"SUDs"
L'identità plurale del Mezzogiorno
1° Salone della Piccola e media Editoria meridionale
Padiglione 71 Fiera di Foggia, 30 novembre/1-2 dicembre


Con la collaborazione di
Regione Puglia
Provincia di Foggia
Comune di Foggia-Assessorato alla Cultura
Banca della Campania


Comitato Scientifico
Michele Trecca
Saverio Russo
Fatima Bronci
Franco Mercurio
Maria C. Nardella

SUDs è il primo salone dell'editoria meridionale e di qualità. È organizzato dall'Ente Fiera di Foggia e dalla Fondazione Banca del Monte "Domenico Siniscalco Ceci". Si tiene a Foggia da venerdì 30 novembre a domenica 2 dicembre. Partecipano alla manifestazione più di 60 case editrici di ogni parte d'Italia con cataloghi e storie di diversa portata. I tre giorni di esposizione saranno accompagnati da svariate iniziative letterarie ed artistiche.

SUDs è l'ironica declinazione plurale di Sud al tempo del villaggio linguistico globale. Il Salone, infatti, nasce da una volontà di slancio meridionale al di là dei propri confini. SUDs non sarà, dunque, un arroccamento nella tradizione o l'esposizione dei cimeli cartacei di un'identità certa, ma un luogo vivo di confronto della ricchezza culturale meridionale con i linguaggi della contemporaneità e le esperienze editoriali di altre realtà italiane.
SUDs ha la freschezza avventurosa della frontiera, del nuovo, dell'indefinito; è una pioggia di libri contro il rischio di desertificazione della parola per l'effetto serra televisivo. SUDs è la voglia di condividere il piacere dell'esplorazione e della conoscenza del proprio tempo.

Per tali motivazioni l'Ente Autonomo Fiere di Foggia e la Fondazione Banca del Monte di Foggia, con il supporto della Regione Puglia, della Provincia di Foggia, del Comune di Foggia, dell'Assessorato alla Cultura Città di Foggia e della Banca della Campania hanno voluto assicurare un importante sforzo organizzativo al fine di arricchire il patrimonio culturale meridionale di una nuova e significativa iniziativa.

La manifestazione avrà i seguenti orari: venerdì 30 novembre ore 16,30 – 21,00; sabato 1 dicembre ore 9,30 – 13,30 / ore 16,30 – 21,30; domenica 1 dicembre ore 9,30 – 13,30.

Programma:

Venerdì 30 novembre

ore 16,30 cerimonia inaugurale alla presenza delle autorità.
Forum: POTERE AI LIBRI. Il ruolo dell'editoria nel Meridione d'Italia, prefazione di Michele Trecca, coordina Maddalena Tulanti, vice direttore del "Corriere del Mezzogiorno" di Bari. Contributi di Pietro D'Amore e Agnese Manni, editori. Interventi degli editori presenti.
Ore 18,30: Enzo Del Vecchio presenta "Fiorello La Guardia, un Imperatore a New York" Ed. Alberto Gaffi.
Antonello Del vecchio presenta "Osterie d'Italia 2008" Ed. Slow Food.
Ore 19,30: Masolino D'Amico presenta "La locanda che domina l'abisso", corto tratto da "Monte Sant'Angelo" di Arthur Miller.

Sabato 1 dicembre giorno riservato agli studenti

ore 9,30: Letture da "Se una mattina d'estate un bambino - lettera a mio figlio sull'amore per i libri", di Roberto Cotroneo
ore 10,00: conferenza su L'Identità plurale del Meridione d'Italia, relatore il prof. Franco Cassano, Università degli Studi di Bari
ore 11,00 Presentazione di Politiche del diritto nella XIV Legislatura di Francesco Bonito, Ed. Sudest, prefazione di Anna Finocchiaro. Relatore on. Prof. Giuliano Pisapia, presidente Commissione per la Riforma del Codice Penale
ore 12,00: Andrea Giachi presenta "Jesus", Ed. Creativa
ore 12,30: Giovanna Marmo, poesia e movimento, Ed. d'if
ore 17,00 "Carosello Letterario": incontri con gli autori, presenta Carlo D'Amicis. Prima Parte
ore 18,30: SUDs è Nuove Scritture. Area tematica dedicata alle antologie
"Sporco al sole", Besa Editori, con gli scrittori Livio Romano e Giovanni Di Jacovo
"Voi siete qui", Minimum fax ed., con la scrittrice Veronica Raimo
"Quote rosa" Fernandel ed. con le scrittrici Francesca Bonafini e Mascia di Marco.
Coordinano Nicola La Gioia, Michele Trecca, Stefano Donno
ore 19,30 "Carosello Letterario", incontri con gli autori, presenta Carlo D'Amicis
ore 20,30: SUDs è Nuove Tradizioni, area tematica dedicata alla cultura popolare
"Mordi e fuggi" Manni ed.
"Andrea Sacco suona e canta", Aramirè ed. con l'autore Enrico Noviello
"Il cibo dei morti", Palomar ed., con l'autrice Bianca Tragni
"Lunari di Puglia", Progedit ed., con l'autore Vittorio Stagnani
Coordinano Vincenzo Santoro e Carlo D'Amicis
ore 21,30 Canti della Tradizione salentina e del Gargano, con Pio Gravina, Enrico Noviello, Enza Pagliata, Anna Cinzia Villani.

Gli Autori del CAROSELLO LETTERARIO

Giuseppe Cirino, Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Sara Durantini, Bruno Esposito, Gabriele Fabbiani, Raffaello Ferrante, Claudia Grippo, Claudio Menni, Sacha Naspini, Alessandro Panini-Finotti, Aldo Putignano, Pamela Serafino, Giancarlo Spadaccini, Lucia Tancredi.

Domenica 2 dicembre (con chiusura alle 13,30) sarà dedicata alla nuova frontiera di comunicazione dei blog.

Ore 10,00 "La Tribù dei Blog", seconda edizione, a cura di BooksBrothers, patrocinato da GSA (Giornalisti Associati Specializzati).

- Giornalismo 2.0, L'informazione nell'era di Internet
Intervengono
Paola La Forgia, Presidente Ordine dei Giornalisti della Puglia
Michele Dell'Edera, vice presidente Associazione Stampa on line
Luca Conti, Pandemia, Il Sole 24 Ore
Gianni Messa, La Repubblica-Bari
Valerio Lo Monaco, Direttore Radio Alzo Zero
Coordina Roberto Zarriello

Raccontarsi 2.0, Esperienze di vita "bit"
Intervengono
Utottotto, Arianna Leggera, Narciso Lunatico

Letteratura 2.0, Nuovi linguaggi alla conquista del web
Intervengono
Loredana Lipperini, Giuseppe Granieri, moderatore Enzo Verrengia

Ore 12,00 Bibliofiles
Presentazione della nuova collana di editoria digitale in facsimile, Claudio Grenzi ed.
Intervengono:
Antonio Ventura – responsabile della sezione "Raro e curioso. Libri introvabili della Capitanata".
Laura Maggio – curatrice della sezione dedicata all'archeologia della Daunia.

Ai partecipanti verrà fatto omaggio di un saggio della collana, fino ad esaurimento delle copie disponibili.

ELENCO CASE EDITRICI presenti a SUDs
Adda Ed.
Arcana
Arena editore
Argo editrice
B.A.Graphis
Bastogi Editrice Italiana
Besa Editrice
Capone Editore
Carabba Casa Editrice
Carlone Editore/La Veglia
Castelvecchi editore
Cavallo di Ferro editore
Cento Autori
Colonnese Editore
Congedo Editore
Cooper editore
CSA Editrice
Dedalo
d'if Edizioni
E_Learning edizioni
Edipuglia
Editrice Rotas
Edizioni Creativa
Edizioni del Rosone
Elliot
Fandango Editore
Fernandel
Fusi Orari Editore
Alberto Gaffi Editore in Roma
Gallucci Editore
Gerni Editore
Giunti Editore
Graus editore
Claudio Grenzi editore
Alfredo Guida Editore
Il Foglio letterario
Malatempora Editore
Manni Editori
Meridiano Zero
Minimum Fax
Netplanet
Nonsoloparole Edizioni
Nutrimenti Editore
Osanna Editrice
Palomar
Parnaso Editrice
Pequod
Giulio Perrone Editore
Playground Editore
Progedit
Schena Editore
Sellino Editore
Slow Food
Luca Sossella Editore
Sudest Edizioni
Textus Editore
Touring Club Italiano editore
Upping
Utopia Edizioni
Vertigo editore

fonte iconografica da www.musicaos.it (per Canto blues alla Deriva)

lunedì 26 novembre 2007

Spot Book n.3





















Gianni Bonina

I cancelli di avorio e di corno

«Quanto compie l’autore di un sogno corrisponde esattamente a ciò che fa l’autore di un romanzo, entrambi facendo parte dello stesso mistero creativo».
Un'indagine sulla natura del libro che ci trascina in un originale itinerario attraverso la letteratura.

martedì 20 novembre 2007

La Besa alla Città del Libro di Campi 2007


Campi Città del libro 2007 – novembre 2007
Giovedì 22 novembre 2007 ore 10,30 Sala Centro Servizi
Relatore: Mauro Marino
Laura La Penna – Mi chiamo Brian (Besa editrice)

Mi chiamo Brian è la storia di un ragazzo difficile la cui identità era stata persa per fortuna avversa sin dall’età di quattro anni. L’amore, l’amicizia, il coraggio e la fede in questi valori fanno riemergere quello che c’è in ognuno di noi anche quando il sogno sembra impossibile.
La storia di Brian può essere la storia di ognuno di noi: quando diamo per scontato che ogni cosa che abbiamo ci appartenga di diritto e per sempre…; quando pensiamo di non avere niente, abbiamo ancora tutto da conquistare.

LAURA LA PENNA nasce a Lecce l’ 8 aprile del 1967 da padre pugliese e madre toscana. Ha vissuto in varie città d’Italia sin dall’età di nove anni. Ha frequentato il liceo classico e si è laureata in giurisprudenza. Dall’età di ventisei anni vive a Lecce dove si è sposata. Ha due figli e lavora in banca. Oltre alla famiglia ama leggere, dipingere su ceramica. Una passione per la scrittura (sin da bambina) mairesa esplicita prima.



Venerdì 23 novembre ore 9,00 Sala A
Relatore: Raffaele Gorgoni

Il legame
Di Fabio Omar El Ariny (Besa editrice)

Scheda Libro
Esiste un collegamento, nascosto, forse volutamente occultato, tra l’attentato alle Torri Gemelle a New York l’11 settembre 2001 e l’incidente avvenuto all’aereoporto di Milano Linate poche settimane dopo. Silenzi, complotti e inganni si intersecano in questo thriller mozzafiato, il cui ritmo incalzante non ha nulla da invidiare a maestri del genere, come Robert Harris e Ken Follet.
FABIO OMAR EL ARINY, trentadue anni. Nato a Milano e cresciuto in Egitto a cavallo tra due culture, ha sempre considerato la sua doppia «identità» come un valore da cui trarre ispirazione.


Venerdì 23 novembre 2007 ore 10,30 - Sala A
Relatori: Antonio Tondo, Giovanni Pellegrino, Giacinto Urso
Manlio Castronuovo, Vuoto a Perdere (Besa editrice)

Scheda Libro
"Perché Aldo Moro? La questione della scelta dell'obiettivo da colpire è tutt'ora un problema che non trova d'accordo gli studiosi che da 26 anni si occupano del caso Moro. (...) L'attacco al cuore dello stato è l'evoluzione dell'esperienza fatta dalle BR nella prima fase della loro esistenza quando l'organizzazione si rese conto dello stretto legame esistente tra potere industriale e Stato". Inizia con questo interrogativo e queste considerazioni il nuovo viaggio nell' “affaire Moro” in “Vuoto a perdere” di Manlio Castronuovo. L’obiettivo dell’opera è quello di essere un testo divulgativo che aiuti il lettore ad avere tutte le informazioni essenziali sulla vicenda e a farsene un'opinione. La lucidità, la conoscenza del caso con cui Castronuovo ricostruisce il tutto, ne ha fatto un libro assolutamente interessante. "Vuoto a perdere" non è solo un libro ma è anche il titolo del sito Web dedicato dallo stesso Castronuovo al caso Moro: www.vuotoaperdere.org. Vi si possono trovare interessanti risorse e strumenti.

Manlio Castronuovo
Da oltre vent'anni si interessa del caso Moro e della lotta armata diventando un profondo conoscitore delle logiche e delle dinamiche degli avvenimenti che hanno attraversato il periodo più buio della storia contemporanea d'Italia. Questa è la sua prima pubblicazione.


Sabato 24 novembre 2007 ore 17,30 Sala Centro servizi
Relatore: sen. Rosario Giorgio Costa
Ada Culazzo – Libera di pensare (Besa editrice)

Scheda libro
Il resto del giorno scorse lento e Niko si chiuse in se stesso a riflettere. Voleva conoscere la donna che lentamente si era infiltrata nella sua mente come un'immagine furtiva. Cosa poteva fare? Aveva come indizio solo un numero di cellulare.

ADA CULAZZO (1949), dopo una vita dedicata all'insegnamento delle lingue straniere, ha sentito il bisogno, a un certo punto, di dare libero sfogo alla voce del cuore e ha cominciato a scrivere




Domenica 25 novembre 2007 h.16,30 Sala B
Titolo dell’appuntamento: “ Dagli Eco-mostri ai mostri di provincia”
Relatori: Silvia Famularo, Antonio Errico

Vittorino Curci, Era Notte a Sud (Besa editrice)
Scheda Libro
L’area del Sud-Est barese, ai giorni d’oggi, è lo sfondo per raccontare le vicende di una serie di personaggi che l’autore, con incredibile abilità narrativa, scova in un prismatico campionario di lunatici, imbranati, mentecatti e “scemi del villaggio”, immergendoli in situazioni più che paradossali, sovente tragi-comiche, come nelle migliori tradizioni di comunità paesane di provincia, che sotto molti aspetti invece sono detentrici di nuance di felliniana memoria e di pulsante umanità.
Il tutto condito da ricche immagini di alta poesia che solo Curci riesce a dare al lettore attraverso la sua formidabile scrittura, e da un riso sardonico, mai troppo amaro.
Un libro godibilissimo che accoglierà il plauso anche dei lettori più smaliziati.

VITTORINO CURCI
Poeta, sassofonista, operatore culturale, vive a Noci. Collabora alla rivista “Nuovi Argomenti” e ai quotidiani “Repubblica-Bari” e “Corriere del Mezzogiorno”.
Nel ’99 ha vinto il Premio Montale di poesia per la sezione “Inediti”.


Giacomo Annibaldis, Casa Popolare, vista mare (Besa editrice)

Scheda Libro

Raccolta di racconti, o meglio di episodi narrativi legati da un unico filo conduttore narrativo che ruota attorno ad un microcosmo esistenziale di una sola famiglia protagonista ai margini dell’esistenza. L’operazione scritturale di Annibaldis, sa di pura antropologia letteraria. Pare che l’autore, trasporti la vita delle periferie romane raccontate da Pasolini, nel moto ontologico alla deriva degli eco-mostri alla periferia di Bari, in cui trovano vita personaggi la cui vita non potrebbe essere che descritta come fuori dal comune, per quante situazioni spesso paradossali incontrano nel loro trascorrere la vita quotidiana, piena di numerosissime e singolari difficoltà. Il tutto condito da uno stile sobrio, asciutto, mai banale, e soprattutto mai incline alle lusinghe di toni da slang e carico di una sorniona ironia. La ricercatezza stilistica di quest’opera sta nell’aderenza di Annibaldis allo stile giornalistico, proprio del suo mestiere, e a quella di acuto osservatore di un’umanità che sembra quasi aver toccato con mano.


Giacomo Annibaldis è nato a Bari nel 1950. Già redattore della rivista Belfagor e ora delle pagine culturali della Gazzetta del Mezzogiorno, si occupa di cultura classica traducendo romanzi dell'antica Grecia e collaborando all'Enciclopedia Treccani per voci Oraziane e Virgiliane. Collabora inoltre con diverse riviste internazionali. Per la casa editrice Besa ha curato la riedizione della settecentesca Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati. Sempre per Besa ha pubblicato il volume dal titolo “Codici”. “Casa popolare, vista mare” è il suo ultimo lavoro.






Domenica 25 novembre 2007, ore 19,00 – Sala Centro Servizi


Tabula Rasa e Besa, presentano “Tra le pagine chiare e le pagine scure – percorsi di lettura tra prosa e poesia alla Città del Libro”: Carla Saracino, Vito Antonio Conte, Antonio Natile, Marthia Carrozzo, Elena Cantarone, Simone Giorgino, Alessandra Nicita, Stefano Cristante, Giovanni Santese, Stefano Donno, Elisabetta Liguori, Luciano Pagano, Rossano Astremo, Elio Coriano, Mirosa Sambati, Sara De Giorgi, Stefano Di Lauro, Maria Pia Romano, Irene Leo, Giuseppe Mariano, Piero Grima, Michelangelo Zizzi, Mauro Marino.

lunedì 19 novembre 2007

Noi romeni e il razzismo. In attesa degli "europei". Di Mihai Mircea Butcovan








da l’Osservatore RomEno novembre 2007

Come romeno che vive e lavora da oltre quindici anni in Italia, vorrei fare alcune considerazioni su quanto accaduto in questi giorni. Chissà che non vengano chiamate “qualunquiste” o “antipolitica”.

C’è stato un delitto. E la vittima, donna, ha nome e cognome. Italiano. L’autore del reato, uomo, anch’egli ha nome e cognome, romeno. Se da qui si può desumere che in qualche modo è stato offeso l’intero popolo italiano e le donne non si può certamente ritenere che il delitto sia stato commesso dall’intero popolo romeno o da tutti gli uomini.

E l’uomo che si è macchiato di questo delitto non è rappresentante del popolo romeno, della Romania e nemmeno del popolo rom.

Questa facile equazione “romeni = delinquenti”, dove la variabile romeno non è incognita ma semplicemente soluzione di tutti i mali, non rende onore all’intelligenza delle persone che la praticano.

E nemmeno la rabbia, umana e più che mai legittima, non può trasformarsi in accuse ad un intero popolo, ad un’intera nazione. C’è chi invoca “i roghi, i fucili, lo sterminio”…

Per una volta vorrei “sprecare” una riga del già esiguo spazio editoriale assegnato agli immigrati per esprimersi. Una riga di silenzio a commento e sgomento di fronte a tali frasi scritte sui forum del terzo millennio da persone che si ritengono dei bravi, quando non ottimi, cittadini.

E questa volta chi inneggia a “stermini, roghi, fucilazioni” non è cresciuto, per sua fortuna, in baracche come quelle che vorrebbe bruciare, non è vissuto in condizioni di miseria e degrado come quelle che ci mostra la televisione in questi giorni. No, da quelle situazioni non possiamo aspettarci grandi impianti filosofici, nemmeno programmi di politiche sociali.

Ma da chi invece è cresciuto in ambienti puliti, è andato a scuola in un paese democratico, ha studiato, ha fatto sport e viaggiato per diletto, da chi vota liberamente i suoi rappresentanti e può farsi eleggere come rappresentante, non ci aspettavamo frasi razziste, disumane, che spesso fanno da anticamera o motore ad aggressioni tanto ingiustificate ed orrende quanto l’uccisione della signora Giovanna Reggiani.

Persone che accusano i criminali primitivi cresciuti in situazioni di degrado e miseria si lasciano andare a dichiarazioni belliche altrettanto primitive e belluine. La differenza sconcertante sta nell’ambiente in cui sono maturate queste aggressioni, verbali e fisiche.

Un importante telegiornale si esprimeva così mentre descriveva i funerali di Giovanna: “nella basilica tanti rappresentanti delle istituzioni ma anche tanta gente comune”.

Quale sarà la differenza tra i primi ed i secondi? I secondi, attraverso l’espressione del voto libero e democratico deliberano chi non debba essere più “gente comune” come loro e diventi rappresentante delle istituzioni, quindi del popolo, della gente comune. Oppure quel voto rinforza la - già fuori dal comune - condizione di quelli che poi diventano rappresentanti?

Da quel voto in poi il potere decisionale è delegato a loro, ai “rappresentanti”.

Il marito di Giovanna arriva con una rosa” prosegue il telegiornale nella descrizione dei funerali. E poi si precisa: “i politici sfilano davanti alla bara”.

Al marito di Giovanna, gente comune, non rimane che la parola o il silenzio che può esprimere una rosa. Ha perso la moglie eppure trova la forza per non lasciarsi andare in frasi di odio e si prodiga per fermare quella crescente ondata di razzismo che anche la sua Giovanna avrebbe disapprovato. E non si fa scappare facili equazioni del tipo “romeni = delinquenti”.

I politici “sfilano”. Termine che fa pensare ancora ad una passerella funebre, utilizzata per esprimere un doveroso cordoglio ma che appare una cosa già vista troppe volte per credere che sarà seguita da impegni concreti, volti a cercare soluzioni ai problemi e non rattoppi, più o meno virtuali. Nelle dichiarazioni che precedono la sfilata, ed anche in quelle che seguono, appaiono tardive ed hanno sapore di autoassoluzione certe esternalizzazioni della responsabilità e certe colpevolizzazioni. Ma non si può lasciare un vuoto nel campo delle responsabilità. Ecco allora che si offre un’alternativa alla “gente comune”, una soluzione facile-facile per i malanni di questa società: i rom, anzi i romeni, colpevoli ormai di tutto…

L’assenza di provvedimenti lungimiranti e non urgenti, quelli che non possono diventare merce di scambio per una manovra economica, è un’assenza per cui qualcuno, non certo gli immigrati, dovrebbe rispondere alla gente comune.

C’è chi dice: “non doveva accadere”. Ed alcuni giornalisti dicono che “la sicurezza resta terreno di scontro tra i poli”. Su questo terreno di scontro non devono cadere vittime i migranti, tanto meno i romeni.

“I rappresentanti delle istituzioni sfilano al funerale”…

Ora, i “cittadini comuni” danno il loro consenso a chi poi istituzionalmente amministra la cosa pubblica. Ed è sulla raccolta e sulla perdita di questi consensi che si basa la vita e l’attività di questi rappresentanti del popolo.

Eppure oggi qualcuno diceva ancora che “servono più forze di polizia”.

Forse perché buona parte sono impegnate a scortare i tifosi ed a difendere le città ed i treni dalla furia distruttiva di certe tifoserie?

Ma prospettare come soluzione uno stato di polizia non sarebbe risolutivo di un bel niente.

Se c’è un problema chiamato “sicurezza”, tanto grave da far scender in campo più forze dell’ordine, allora si predispongano le scorte, una volta al mese, per gli anziani che vanno a ritirare la pensione agli uffici postali. Li si consideri come dei tifosi legittimati a difendere la cifra della propria pensione dall’eventualità di un’aggressione di chicchessia.

Spiegare al marito, arrivato al funerale di sua moglie col silenzio di una rosa, perché non è stato possibile scortarla dalla stazione del pullman fino a casa, alla stregua dei tifosi violenti che mettono a ferro e fuoco le città in nome di una fede calcistica, non può essere compito della gente comune, tanto meno dei romeni.

Ma le forze dell’ordine da chi difendono i tifosi che scortano allo stadio? Dagli immigrati?

E non possono gli immigrati, i romeni, e nemmeno i rom spiegare alla gente comune il fallimento delle politiche dell’immigrazione e del decreto flussi dello scorso anno (e nemmeno quello dell’anno precedente).

Ed ai rom si dovrebbe trovare un posto sotto questo sole del terzo millennio. È una questione romena, italiana o europea? Nessuno ha la soluzione in tasca ma la domanda bisogna porla.

Troppo facile puntare il dito e sparare nel mucchio dei romeni, dei rom, e definirli tutti delinquenti. Come se tutti i mali dell’Italia provenissero dalla Romania. Noi, gente comune, se non vogliamo restare senza parole e doverci affidare ai fiori ed a qualche applauso, è a loro, ai rappresentanti delle istituzioni che dobbiamo chiedere conto della gestione della cosa pubblica.

Un anno fa a Milano un certo don Colmegna aveva sollecitato le istituzioni a prendere in considerazione la questione rom con progetti di inclusione sociale. Ed affermava: «Gli sgomberi privi di un conseguente piano sociale non servono a nulla se non a spostare il problema da un’altra parte». Chi avrebbe dovuto raccogliere quel drammatico appello?

La Casa della Carità di Milano, con l’impegno quotidiano di volontari e operatori, in concerto con alcune istituzioni, aveva attuato un progetto di inserimento sociale basato su convivenza, condivisione e costruzione di reciproca fiducia. Oggi i risultati dimostrano che in due anni, con il patto di socialità e legalità come strumento di relazione sociale e mediazione culturale, si è potuto ridare dignità ad alcune famiglie di rom provenienti dalla Romania, altrimenti destinate a situazioni di miseria e disagio come quelle che hanno generato il delitto di Roma.

Qualcuno, durante i presidi di gennaio contro il campo di Opera, alle porte di Milano, aveva gridato: «don Colmegna, vattene in Romania con i tuoi rom!». Frase ripetuta durante le manifestazioni al Parco Lambro di Milano. Don Colmegna in Romania? La Romania ne avrebbe sicuramente da guadagnare. Per la città di Milano e per i milanesi, ed anche per chi avrebbe potuto seguire il suo modello, sarebbe una grande, insostituibile perdita.

La situazione è delicata ma forse i problemi dovrebbero essere affrontati con una progettualità lungimirante e non emergenziale, con proposte concrete e non attraverso contestazioni esclusiviste e politiche espulsive.

Ma a sostenere i progetti, a spingere nella direzione di accordi bilaterali, ad approntare politiche di ampio respiro che affrontassero le situazioni oggi definite “disumane, inconcepibili, bestiali”… questo avrebbero potuto farlo soltanto i rappresentanti delle istituzioni.

Non si rendano responsabili anche dell’innesco di violenze e rappresaglie disumane. Ancora una volta non sarebbero soluzioni. Ed il giorno dopo ci sveglieremmo con gli stessi problemi di ieri ed uno in più.

Mi chiedo anche perché nel resto d’Europa non c’è ancora l’allarme romeni?

O tutti i delinquenti romeni sono in Italia e le eccellenze romene vanno altrove oppure…

Qui mi pare che si parli di “fuga di cervelli” per altrove.

Non è la gente comune, quella che vive senza scorta e senza sconti “onorevoli”, a dover dare una risposta.

Perché sfilare ad un funerale può essere un segno, simbolicamente una presenza, di certo non è ancora una soluzione ai problemi della penisola.

“Non si dovrà ripetere mai più.” Stesse parole sentite durante i roghi dei campi rom di un anno fa, stesse parole sentite in occasione del ritrovamento dei 17 morti del Mediterraneo – già dimenticati -, ultimi di una strage della traversata che non ha fine. Forse non conosceremo mai i loro nomi.

Si chiamano invece Lorenzo, Roberto, Julio, Claudio, Chiara, Marisa, Adriano, Rosaria, Michela, Laura, Adeodato, Arnold, Tullio, Daniele, Melita, Rossella, Norman, per citare soltanto 17 delle persone che mi hanno espresso la solidarietà in questi momenti di “caccia al romeno”. Ringraziandoli ho ricordato anche a loro che il giudizio nei confronti di un popolo non deve fermarsi all’amicizia di una persona…

Semmai un primo incontro deve suscitare la curiosità per approfondire la conoscenza reciproca tra i popoli. E questo è un atteggiamento europeo di chi è “comunitario” da molto più tempo rispetto ad altri.

Un rappresentante delle istituzioni, in parlamento da oltre 20 anni, dichiara ai microfoni il giorno dopo il funerale di Giovanna Reggiani: “stanno arrivando da tutte le parti perché qui c’è maggiore tolleranza verso l’illegalità”.

Egli si riferiva agli immigrati. Ma a questo punto non importa il soggetto di una frase di questo genere ma la subordinata affermazione su un dato di fatto che dovrebbe avere più responsabili tra i rappresentanti delle istituzioni, compreso il dichiarante, che non tra la gente comune, e nemmeno tra gli immigrati.

“Stanno arrivando da tutte le parti…”

“…Perché qui c’è maggiore tolleranza verso l’illegalità.”

Detto da uno che da oltre vent’anni è nel parlamento italiano ha un certo significato.

La sicurezza non è solo una questione di luce nelle strade di periferia. Ma l’antirazzismo è questione di luce nelle menti delle persone. Prima che cali un buio simile a quello dell’aggressore, romeno, rom, europeo, che dir si voglia… buio sicuramente maturato in una situazione di disagio e degrado di cui, vogliamo o no, dovremmo prendercene cura.

Ora alcune persone inneggiano a roghi, fucilazioni, sterminio, espulsioni.

Si dimenticheranno in fretta anche di noi… sappiamo che è consuetudine. Altrimenti aspetteremo con fiducia i prossimi campionati di calcio. Gli “europei”…

In caso di vittoria l’oblio dei problemi, anche di questo delitto, anche dei morti nel mediterraneo, anche dei romeni, e pure dei rom, è assicurato.

versione integrale rispetto a quella pubblicata sul Manifesto del 6 novembre 2007
fonte iconografica da www.altremappe.org

mercoledì 7 novembre 2007

Spot book n.2


comunicato stampa

“TANA PER LA BAMBINA CON I CAPELLI A OMBRELLONE”
Un aspro romanzo di formazione
per capire come si è arrivati agli anni ottanta

Questa è la storia di una ragazzina affamata d’amore e d’accettazione in una famiglia romana troppo numerosa e caotica per saziarla. È la storia di una generazione ibrida e rimossa: quella di chi era troppo giovane per il ’77 e troppo vecchio per gli anni Ottanta. È la storia di una Bambina con i Capelli a Ombrellone cresciuta a cavallo dei due decenni, inciampando nelle spine più aguzze della vita: le molestie dei fratelli, la malattia e la morte della madre, l’indifferenza del padre. È la storia di un’Italia prima insanguinata e impaurita, poi d’improvviso futile e leggera.
“Tana” è uno di quei rari romanzi di formazione in cui la storia con la “s” minuscola – che come la protagonista si appiccica, seduce e non molla – riesce a intercettare la Storia con la “s” maiuscola, a farsene bandiera. In cui il privato è “politico” nel senso più ampio del termine. Il monologo interiore che l’autrice Monica Viola ci regala – con una prosa potente, aspra e originale – rivela le fragilità di un’adolescente vissuta sentendosi marginale in un contesto di angoscia collettiva: ripercorriamo nei suoi flash sgomenti gli anni delle stragi e degli omicidi “politici”, Bologna e Moro, Serpico e i gambizzati, le mille “paranoie collettive”. E, allo stesso tempo, sbandiamo con i suoi sbandamenti: gli errori, le bugie, il sesso inutile e pieno di odio, il pochissimo amore, le amicizie, le perdite dolorose. Con una colonna sonora che, da sola, batte il tempo del romanzo, dai Pink Floyd ai Gong di Daevid Allen e Steve Hillage, da Guccini a De Gregori, dagli Chic alla Sugarhill Gang, dai Genesis agli Earth Wind & Fire, da David Bowie ai Genesis, fino a Madonna e ai Duran Duran, icone pop di un decennio pop, per concludersi con il lirismo degli Smiths.
Non c’è nulla di buonista: la Bambina diventa donna e rifonda la sua vitalità, ma a caro prezzo. Il messaggio è scabro e concreto: si può sopravvivere. Nessun eroismo, se non quello della sopravvivenza.
Dice bene Lidia Ravera nella quarta di copertina: “La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen”.
Dice bene l’autrice: “Questa storia vuole anche essere – con poche pretese – la cronaca di una generazione senza identità: troppo giovane per il ’77 e troppo vecchia per gli anni 80. Generazione ibrida che ha fatto da ponte tra due estremi, sotto l’ombra lurida degli anni di piombo e delle stragi di Stato. Una generazione rimossa di cui non parla mai nessuno, assente anche dall’immaginario cinematografico. E però eravamo tanti, scuole con le sezioni fino alla lettera 'T'. Dove siete, tutti?”.

quarta di copertina

“La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen.” [Lidia Ravera]


Roma, anni Settanta. Epoca di passioni politiche che infiammano, di attentati ed esecuzioni a insanguinare le strade, di giorni intrisi di una tremenda, capillare angoscia collettiva. Fino al sopraggiungere degli anni Ottanta, futili e liberatori, carichi di voglia di leggerezza e di evasione, di musiche di tendenza, di mode irrinunciabili.

A cavallo dei due decenni, la storia interiore di un’infanzia e adolescenza, il racconto di una bambina che, passando attraverso esperienze dolorose e destabilizzanti - ma senza mai rinunciare a rincorrere la felicità -, infine diventa donna.

Cresciuta in una famiglia numerosa, caotica e vecchia maniera, con un padre autoritario, una madre dolcissima, sorelle, fratelli e una nonna rinchiusa nel suo passato di sogno, la Bambina con i Capelli a Ombrellone inciampa nella vita e nelle sue spine più aguzze, subisce lacerazioni traumatiche (le molestie sessuali di due dei fratelli più grandi, la grave malattia della madre), sbanda - ma si reinventa con nuova, sorprendente, trascinante vitalità.

Affronta la scuola con i suoi piccoli grandi insuccessi, le difficoltà degli amori e l’ambiguità del sesso, sa riconoscere la vera amicizia (anche se non sempre sa rispettarla), ma si adegua alle compagnie più diverse, sempre alla ricerca di un po’ di attenzione, di un po’ di affetto, spinta da quella voglia urgente dell’adolescenza di piacere e conquistare e con la necessità profonda e sommersa di un inconsapevole, istintivo costruirsi. Sostenuto però da una grande risorsa: la capacità di cercare negli altri il miracolo dell’accettazione nonostante tutte le proprie traballanti insicurezze, quel miracolo che, unico, potrà aiutarla a “ricucirsi”.

Un romanzo a forma di lungo monologo interiore, che alterna brani di narratività accattivante a momenti di autentico lirismo. Una prosa attenta, scrupolosa, dallo stile sintetico e pregnante e dal linguaggio intensamente evocativo: parole dense e vere per raccontare una storia che, come la protagonista, si appiccica, seduce, non molla.

Monica Viola è nata a Roma l’anno in cui nasceva il beat. Ci abita ancora, infelicemente impiegata. Questo è il suo esordio narrativo.

Tre ragioni per NON leggere questo romanzo:
1. ami la letteratura “minimum fax”
2. odi i memoir
3. in un romanzo cerchi una narrazione compiuta con una storia e un finale, magari inaspettato.
mv

fonte iconografica e comunicato stampa tratti da www.monicaviola.it

martedì 6 novembre 2007

Ciao Enzo

Il mondo dell'informazione viene lasciato oggi orfano di una figura non solo di grande spessore e professionalità, ma di grande umanità. Sì perchè Enzo Biagi, ha rappresentato, come un altro grande del giornalismo italiano, faccio riferimento a Indro Montanelli, un esempio per una professione che ormai tende sempre più alla standardizzazione e alla formattazione automatica della notizia. Enzo Biagi, se ne va così, in silenzio, con grande signorilità, una qualità che lo ha contraddistinto sempre in ogni occasione. Se ne va un pezzo della nostra storia!

fonte iconografica da www.ilmolinello.it

martedì 30 ottobre 2007

Guido Ceronetti, La lanterna del filosofo.













Lungo le vie della città, quelle che disegnano lo spazio delle relazioni urbane, seguendo precise meccaniche configurazionali di molteplici flussi informativi fantasma che raccolgono, inghiottendole, storie che puoi più che altro immaginare, ti ritrovi a osservare per pochi istanti, frazioni di secondo forse, particolari che solo con una discreta dose di attenzione non perdi per strada. E così ti collochi all’improvviso nella condizione ideale di essere raccontato da una ruga, uno sbatter di ciglia, uno sguardo intenso schiacciato sotto le macerie di un cielo estivo. Affannarsi a comprendere che cos’è che non va nel mondo, qual è il veleno che circola nelle vene di tutti tanto da scolorirne la pelle, da far perder la gioia di afferrare una mano come segno di partecipata con-presenza, di aprirsi a un sorriso, ad un incauto donarsi nei potenzialmente sconfinati perimetri di uno spazio esistenziale che si apre sull’orizzonte della fiducia nel prossimo, giocare il tutto per tutto prima di scegliere i sentieri impervi, difficili, oscuri, dell’Ombra, sentirsi obbligati, non come infervorati da un dogma di fede ma da un trovare necessario l’essere e il divenire nella storia di ogni giorno agente morale, a reperire quel coraggio necessario nell’affrontare il delicato compito di gestione della massa critica dell’Indifferenza, insomma tentare di
avvicinarsi al nocciolo della questione continuando a porsi degli interrogativi, e compito più difficile, tentando di risolverli. Non quelli sclerotizzatti e museificati del chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando, giusto per non correre il rischio di divenire protagonisti grotteschi di una mediocre rappresentazione teatrale della vita che ci consuma istante dopo istante, giorno dopo giorno e per di più (oltre il danno la beffa!) di pessimo livello e gusto. E di consunzione parliamo, ogni qualvolta ci guardiamo allo specchio! Certo, dobbiamo pure in qualche modo sopravvivere, qualcuno il pane deve portarlo in tavola! E come se non con il sudore della fronte, e come se non rinunciando a passare più tempo con i propri figli, (l’aumento delle ore lavorative giornaliere ha disintegrato la possibilità del dialogo all’interno del micro-sistema familiare, dando spazio ad un nuovo corso nella storia della pedagogia che ha trovato più efficaci strumenti educativi e di costrizione psico-fisica per l’infanzia, nella figura imponente del Silenzio ludico iper-teconologico : Microsoft, Sony, Nintendo) o facendo a meno di leggere un buon libro, o di gustare un tramonto, o una cena romantica in due, o ascoltando della musica facendosi rapire dalle folli traiettorie direzionali delle note, emozionalmente consustanziali alla nostra sensibilità, o ancora semplicemente rinunciando a parlarsi, a fermarsi, a rispondersi. Possiamo dircelo francamente, senza tirare in ballo Foucault e la sua sintassi analitica e pratica circa i modi del Potere di incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, assoggettandone i corpi, e prosciugandoli delle loro forze (vedi Sorvegliare e Punire)! Luther Blissett prima e Wu Ming poi ad esempio in letteratura (solo in essa?) con il riflettere sulla categoria del condividuo hanno aperto una breccia nel sistema di controllo sociale, la prima fase di un progetto di gioia e libertà ancora più ampio e tuttora in progress, proprio a partire dal corpo e da tutto ciò che ad esso attiene rizomaticamente (la riconoscibilità identitaria come strumento di controllo e repressione consegnato nelle mani del Grande Fratello o del Pizzardone Astratto come lo si voglia definire!). In verità, in tanti, tantissimi sono a corto di energie, e presto moriranno dissanguati. L’aspetto fondamentale di tutto un apparato comunitario gestito e fondato su ideali da porcile, è che ha fatto in modo di far cadere nei sottoscala dell’esistenza, l’attaccamento alla vita, alla paura, all’orrore degli sbagli, all’insulto, al crimine, al dissenso, all’impegno, al disimpegno. In una parola non ci facciamo più domande, perché non siamo in grado di reggere la devastante deflagrazione di un ordigno paragonabile solo per gli effetti, ad un’arma di distruzione di massa che corrisponde a un solo nome: Verità! Chi si assume l’onere di intraprendere il viaggio alla Sua ricerca, dovrà essere dotato di così tanto amore per la conoscenza, da avere non solo un endoscheletro in adamianto, ma la possibilità di trasformare la sua superficie dermica in acciaio organico. Ed ecco perché non poteva sfuggire, come bussola in questo contemporaneo regno del caos, il libro di Guido Cernetti, La lanterna del filosofo, pubblicato da Adelphi, che negli ultimi trent’anni ha pubblicato alcuni dei libri più importanti di quest’autore, nonché tutte le sue versioni dei libri biblici e molte traduzioni poetiche, fra cui nel 2004, un volumetto di poesie di Costantino Kavafis, Un’ombra fuggitiva di piacere. Ceronetti apre quest’opera, (che raccoglie tra le altre suggestioni interventi dagli anni ’70 agli anni ’90, tra scritti critici e saggi prefattivi) con un “Ricordaci, Filosofia”, invito esplicito ad un gioco variabile di risorgimenti epigonali, prologo per la Costruzione del Nuovo Soggetto in viaggio a pag. 13 e 14 : “ Ora che il mondo dei non-viventi e dei male-viventi, in un delirio di conoscenze e di onniscienza inseparabili dalla sua condanna alla polvere e all’espiazione ti ha espulsa, buttata fuori dalla casa della coscienza e ti ha costretta a rifugiarti non si sa dove, in luoghi rivelati, perché determinato ad adorare e a servire soltanto degli idoli che hanno radici tra oscuri dannati – ricordaci, filosofia”. Quest’amore per il sapere nel corso del suo dispiegarsi storico, che tanti lutti addusse a noi comuni mortali, talvolta ha infervorato anime, cuori e intelletti di innumerevoli fanatici del pensiero, grandi assassini della ricerca speculativa che hanno sentito il crimine teoretico come pura Necessità, per tanta forza di pensiero. E in carrelata, scopriamo gli scheletri nell’armadio di uno Spinoza, l’assassino par excellence della libertà umana, tanto è perfetto more geometrico il regno di Dio in terra; o la suprema volontà di malattia di quel vampiro di Schopenahuer disposto a non propagare il proprio seme nel futuro della sua discendenza, proprio perché ineluttabilmente sentiva l’intima predisposizione a succhiare il sangue come azione catartica e narcotica alla sua incapacità di stare dritto sulla schiena; e perché no, dulcis in fundo, ci mettiamo in mezzo anche Lutero, un S. Francesco dai titillamenti demoniaci, prodigo e amorevole verso quelle creature di Satana, come i poveri licantropi (Lutero e il lupo, pag. 128). La storia del pensiero come gigantesco contenitore fognario ripieno di merda! E dopo tante illusioni, dopo aver vissuto per tanti anni incatenati in una caverna, avendo pagato, il biglietto per questo immondo teatrino delle ombre, dopo tanti anni passati a dire il rosario davanti al falò della Vanagloria e dell’Autocommiserazione, potrebbe pur uscire un motto di stizza, un rimbrotto senza alcuna traccia di acrimonia, certo, per questa sfigata razza umana, proprio come Goya quando commentava il suo 58° Capricho: “ Chi viva tra gli uomini sarà fottuto irrimediabilmente; se vuole evitarlo dovrà andarsene ad abitare sui monti e anche quando sarà, là conoscerà che il vivere è solo una fottitura” (pag.48). Ma come è possibile allora trovare il proprio centro, quella calma piatta nell’occhio del ciclone, se neanche nell’impero della Filosofia, dove nugoli di arpie si agitano tra i buoni propositi della collettività, regna la quiete? Potrebbe allora, ci dice sottovoce Ceronetti, venirci in aiuto la Poesia, con quel suo fare incantatore, così letale nell’illudere (altro che velo di Maya), nel promettere paradisi fiscali sui sensi di colpa di tanti poeti e poetesse che con la loro testa cinta di alloro e la cetra, lucidano piuttosto lapidi e celebrano altri poeti oramai scomparsi, preparandogli l’altarino, dal momento che più a fondo stanno scavando, mai stanchi, grandi fosse comuni della Memoria. No! Nemmeno la Poesia, può assurgere al ruolo di machine de guerre contro le forze del Male. “ Perché non valgono niente, i poeti, più niente? La malattia è profonda, viene di lontano. Non è soltanto il loro numero insensato: fossero anche tre o quattro in tutto, che cosa cambierebbe nel Disvalore? Neanche la lingua c’entra molto: la spossata vacca Italia ha i capezzoli della lingua morti; mungiamo artificialmente; parole fumano da uno schermo; scambi di rimozioni di ogni vero, i nostri dialoghi: « Oh come stai?». « Ti vedo bene sai?». « Mi separo da mia moglie».” “ La poca umanità degli autori non è il solo responsabile. A volte, di umanità ce n’è, e anche molta; è il bavaglio occulto che è insormontabile. Ci vorrebbe dell’urlo – ma che urlo! Non sarebbe neppure più poesia … No, neanche l’urlo sfugge al bavaglio … Eppure avremmo bisogno di sentire, attraverso la città, l’urlo di qualcuno che interpretasse le pene di tutti, invece che i clacson inferociti e le sirene della forza e del soccorso materiale” (pgg. 55 – 57,58). E non può che essere questa la malattia succhiasangue, la stessa ammorbante l’intero genere umano: il mercato, quello delle grandi corporation, della pubblicità, la macchina macina neuroni del merchandising, a ogni costo, senza se e senza ma, del possesso senza limiti e decoro, del feticismo delle lamiere cromate e dei motori potenti!
“ L’economia rateale riesce a collocare il demente al suo posto di lotta prima che abbia messo da parte il denaro per conquistarselo. Pagando una sola rata, qualunque tristissimo prodotto uterino entra legalmente in possesso di un involucro omicida che può lanciare dove vuole, contro chi capita; adoperare come feritoia o catapulta, spavento di deboli, deposito di droga o di fucili, letto da stupro. Ogni macchina senza occupanti può significare una trappola di superiore efficacia: riempita di esplosivo col congegno a tempo, all’angolo di una strada, davanti a un caffè, a un teatro, a un grande emporio, aspetta l’ora migliore, in cui la folla è più fitta, per far vedere di che cosa è capace l’idealismo umano” (pag.66). Non sfugge il riferimento colto alla filosofia del feticismo da carrozzeria di Ballard e il suo Crash. Ma allora non c’è proprio niente da fare! Dobbiamo aspettare immobili la fine del mondo o la guerra dei mondi che verrà, forse sentiamo come necessaria nella circolazione oceanica della Storia, quella Terza Guerra Mondiale che si combatterà con le clave come diceva Einstein? La premonizione, perché di premonizione e non riflessione si tratta (vissuta in stato di trance) quando Hobbes, sentiva vicino, secondo i tempi della teologia cristiana un semplice sbatter d’ali, l’inverarsi del Leviatano, del Super Stato-Corpo … il mondo delle multinazionali odierno nello star system del mercato spettacolare a ragione può chiamarsi Leviatano! Dovremmo forse passare intere giornate a flagellarci, recitando a cantilena i passi dell’Apocalisse di Giovanni? Ad una prima lettura di questo volume di Ceronetti, ci si sente un po’ preda di certi malumori, sgocciolamenti psicotici inevitabili per chi vive o cerca di vivere oggi, e alla fine quasi vorresti farti venire un sorriso sardonico alla Stirner, perché hai scovato la tana di un nichilista della porta accanto, di quelli peggiori, quelli che hanno nel DNA il distruggere per distruggere. Ma non sarebbe onesto, soprattutto perché Ceronetti consegna nelle mani del lettore non solo una particolarissima lucidità dolorosa di uno sguardo che coglie fino in fondo l’insensatezza e il ciarpame del quotidiano, ma anche una indiscutibile ricetta di lotta, non antidoto perché ci potrebbero sempre essere degli effetti collaterali indesiderati, e per essere ancora più obiettivi un kit di sopravvivenza, quando scrive: “Il tango, il tango, il tango, ci dà la certezza che la coppia umana esclusivamente di amanti ( di amanti senza ombra di famiglia) è iscritta nell’esistenza, che il suo modello ideale pre-esiste a tutto e che su questa terra tale Idea si è fatta, tra abissi di solitudine e di dolore, carne-carne che canta, singhiozza e vola. Come uomo solitario sei fango, ma coppia sei tango” (pag.121). Ed anche se per qualcuno può non essere tango, ma jazz, blues, heavy metal, l’invito all’ascolto, o al saper ascoltare l’altro, è manifesto, chiaro, cristallino, perché dal recupero della capacità di ascolto a partire da una coppia, per poi ad arrivare alla comunità di un paese, di una città, di una metropoli, di una nazione, di un continente, parlare e saper ascoltare insieme, riflettere, sentirsi partecipi di un momento orizzontale di costruzione della democrazia (ce n’è poca in giro) in cui i disagi della vecchietta che vive accanto a me, non mi riguardano! Maledetto imperativo categorico del Dividi e Comanda! Comunque, un libro non solo da leggere e da meditarci in più di qualche occasione, ma un piccolo promemoria da portare ovunque con sé, come una bussola … state certi che non smarrirete mai più la strada!

da www.musicaos.it

mercoledì 24 ottobre 2007

Babsi Jones e lo spazio tragico della scrittura

La funzione Burroughs in Sappiano le mie parole di sangue


di Rossano Astremo


da www.vertigine.wordpress.com



Quattro donne sotto assedio a Mitrovica, in Kosovo, durante il conflitto più dimenticato della storia moderna: la guerra fratricida nella ex Jugoslavia. Un’inviata scrive al direttore della testata per cui lavora pagine di un reportage che mai sarà spedito. Ci sono passi di rara bellezza in Sappiano le mie parole di sangue, l’esordio di Babsi Jones, edito da Rizzoli, nell’onnivora collana 24/7, pagine in cui Mitrovica diviene la parte di un tutto, luogo del tragico che s’annida in ogni guerra. E’ questo spazio tragico che l’io narrante di slmpds cerca di mettere in scena, attraverso l’accumulo di parole su un taccuino prezioso, ultimo oggetto da custodire assieme ad una copia sdrucita dell’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Ma le parole non possono raccontare una guerra. Il reportage non verrà mai spedito perché è un manufatto che non rende giustizia a ciò che gli occhi vedono, a ciò che la bocca assapora, a ciò che il corpo sente.Ed ecco che Babsi Jones costruisce un quasiromanzo nel quale si sente fortemente l’influenza della teorie elaborate da uno dei grandi maestri della letteratura del Novecento: William Burroughs.Il Verbo è il male assoluto, ciò attraverso cui niente può sfuggire all’essere dell’identità: Burroughs postula un rovesciamento della logica implicita in ogni ontologia. Attraverso l’essere, l’uomo è prigioniero della lingua, definitivamente separato dal “teatro biologico”. Egli è contaminato dal virus del linguaggio. I suoi libri compiono una mirabolante descrizione di questa contaminazione. Il conflitto manicheo che vi si trova sempre soggiacente è quello del corpo contro il “meccanismo verbale”, che lo rende estraneo a se stesso. Per sfuggire all’intossicazione prodotta dalle parole, al quadro di controllo che, imponendo delle linee associative, rafforza questa possessione, lo scrittore deve rompere il cerchio magico, spezzare le tavole della legge associativa, confondere le piste discorsive per uscire dall’algebra del bisogno e abolire la dipendenza assoluta dalla funzione asservitrice della comunicazione linguistica.Babsi Jones ha scritto il suo quasiromanzo tenendo ben presente l’insegnamento di Burroughs. Decostruire dall’interno il linguaggio, depotenziarne il suo quadro di controllo. L’inviata non spedisce il suo reportage perché il genere è un insulso meccanismo di soggetti-verbi-complementi inadatti a sprigionare l’orrore della guerra. La guerra, ogni guerra, è indescrivibile, inenarrabile. Sappiano le mie parola di sangue è la rappresentazione di questo fallimento narrativo. Le parole non dicono, sono stracci lacerati dai quali zampilla liquido di morte.

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