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mercoledì 10 giugno 2009

Il lavoro di Raquel Tibol su Frida Khalo visto da Maria Beatrice Protino



















«Non è la tragedia a presiedere l’opera di Frida Khalo… La tenebra del suo dolore è soltanto lo sfondo vellutato per la luce meravigliosa della sua forza biologica, di una sensibilità finissima, di un’intelligenza splendente e di un’invincibile forza… Lei lotta per vivere e per insegnare ai suoi compagni, gli esseri umani, come resistere alle forze avverse e trionfare su di esse per giungere a una gioia superiore». Queste le affermazioni di Diego Rivera, marito di Frida, riportate nel libro-biografia di Raquel Tibol (Rizzoli, 2003) sul mito di una donna, di un’icona del femminismo mondiale, di una pittrice senza eguali protagonista della scena artistica latino-americana del primo novecento. La Tibol utilizza lettere e diari di Frida, ma anche ricordi personali essendo stata ospitata nella casa della pittrice e avendola intervistata lungamente - nonché ricerche d’archivio. Nella biografia vengono raccontate le vicende personali e le circostanze storiche che videro La Kalho protagonista della scena politica da militante di sinistra, l’arte, la psicologia, la passione per la vita: ne si ammira la forza in un’analisi complessa e affascinante del mito. Frida riuscì a sublimare il dolore personale - fu colpita a sette anni dalla poliomielite e a diciotto subì un gravissimo incidente che la condannò per tutta la vita a terribili sofferenze - in un’arte che Breton - teorico della corrente surrealista - dichiarò tale per cui il lato umano e quello artistico risultavano uniti indissolubilmente, un tipo di pittura definito da Rivera «realismo monumentale, che racchiude in sé esteriorità, interiorità e il fondo di se stessa e del mondo», eppure profondamente, anzi forse suo malgrado, messicano, legato senza affettazione né pregiudizio estetico all’espressività e alla plasticità di un genere pittorico popolare, umile, lo stesso che gente anonima sviluppava su piccole lamine di metallo o legno per illustrare il miracolo di un santo, della Vergine o di Dio: era la prima volta per una donna risultare capace di esprimere con franchezza scarna e feroce, tenerissima e crudele eppure esatta, realista fino all’osso quei caratteri personali e generali che concernono propriamente alle donne. Ed infatti, denominatore comune dei pittori surrealisti è il forte legame con la tradizione e, insieme, la creazione di iconografie del tutto personali. Frida deve molto ai ritratti fotografici che si realizzavano in Messico nella seconda metà dell’Ottocento, come deve molto ai retablos (quadretti che ringraziano Dio e i santi perché la vita continua nonostante le più orrende disgrazie) e all’arte popolare messicana che utilizzava i materiali più poveri per esprimere con disinvoltura ironica anche il macabro. Fu, poi, la sua sincerità ad indurla a dare testimonianza esatta, attraverso la pittura, di alcuni eventi come la sua stessa nascita, il suo allattamento, la sua crescita in famiglia e le sue terribili sofferenze, senza mai la minima esagerazione o discrepanza rispetto ai fatti precisi, e, proprio grazie al suo atteggiamento, gli stessi fatti diventano universali, si pongono su un piano molto più ampio che non quello prettamente personale: assumono un ruolo sociale.
Nel suo diario Frida offriva la chiave magica della sua tavolozza, insieme a riflessioni da incubo: «Verde come luce tiepida e buona; giallo come follia, malattia, paura, parte del sole e dell’allegria; blu cobalto come elettricità e purezza, amore; magenta come sangue?, mah, chi lo sa!». Come sottolinea la Tibol: «Insieme alla forza del suo carattere, alla disciplina spirituale che le fece superare la propria condizione e il limite della sua condizione fisica, al rifiuto di piegarsi al dolore, è il suo surrealismo allo stato puro, senza ricerca a tavolino, senza aridità intellettuale ad affascinare: esso è atto surrealista nel quale la pittura propriamente detta ebbe un ruolo – addirittura – secondario».

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