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giovedì 21 maggio 2009

LISA JANE SMITH, IL DIARIO DEL VAMPIRO: IL RISVEGLIO, LA LOTTA E LA FURIA, NEWTON COMPTON EDITORI. REC. DI SILLA HICKS





















So che ha avuto successo, che ha venduto milioni di copie e che in un mondo mercato è questo che conta. So che uno scrittore ha lavoro se vende, e che il fatto che probabilmente oggi Gadda non lo comprerebbe nessuno non cambia niente, è così che va il mondo. Ma non ce la faccio, a parlare di questi tre libri – uno solo, in realtà, in tre puntate perché si triplicasse il prezzo di copertina – che sono un fumettone per quattordicenni che guardano Amici e il Grande Fratello - lo dico con buona pace dei genitori che rivendicano figli culturalmente impegnati, e invito a ricordare che non ho pretese di analisi sociologica, io, sono uno che si guarda attorno e basta - per di più scritto da una signora agee che sul risvolto di copertina si fa fotografare con un unicorno magicamente evocato dal photoshop.
Perché mi spiace, ma questo non è un libro, non è una storia, ma a stento la sceneggiatura di uno zuccheroso teen movie: e non sto dicendo che è un libro per ragazzi, no, i libri per ragazzi, se sono libri veri vanno bene per tutti, da quando s’impara a leggere finchè ci vedi abbastanza per farlo.
Questo è un raccontino schematico sulla più figa del liceo che lascia il suo altrettanto figo boyfriend per un misterioso giovanotto che è in realtà un vampiro millenario e che per giunta ha un fratello ancora più tenebroso di lui, con cui si contende la preda: sullo sfondo, la schiera delle amiche wannabees e i riti quotidiani del paesello di provincia USA, che più USA non si può, dal ballo di fine anno in avanti. Niente contro le storie di vampiri, lo sottolineo due volte: Intervista col vampiro di Anne Rice è tutt’altra cosa, per non parlare di quella straordinaria storia d’amore che è Dracula di Bram Stoker.
Il soprannaturale non è un campo che mi appartiene, è vero: ma Lestat e il Conte non si dimenticano, sono personaggi veri, canini da cinque centimetri o meno, creature tormentate, innamorate, smarrite, che lottano per sopravvivere e soprattutto per essere abbracciate, il loro vampirismo come metafora di quella diversità che ti emargina trasformandoti da predatore in preda, il mostro cui nessuno ha il coraggio di regalare quella carezza che lo trasformerebbe finalmente in uomo. Si può scrivere di vampiri, e scrivere storie che ti tengono sveglio a pensare in questo tempo in cui non possono più fare paura a nessuno: Lestat che prova a formarsi una famiglia con Luis e la bambina e che non si arrende al destino che lo vuole eternamente solo è Elephant Man, che decide di dormire sulla schiena pur sapendo che lo ammazzerà perché si rifiuta di continuare ad accucciarsi come una bestia, è Roy Batty, lavoro in pelle da combattimento che uccide chi l’ha progettato con una data di scadenza, è la rivolta di tutti i reietti del mondo contro il dio che li ha condannati all’incertezza del buio. Ma non c’è traccia di tutto ciòo, in questo best seller che trasforma il Vampiro in un ragazzone cool: non c’è dramma, non c’è dolore, non c’è perdita d’innocenza, niente: è tutto edulcorato, patinato, goth, come le unghie laccate di nero di una liceale di provincia, che ascolta Marilyn Manson senza capire una parola d’inglese. Niente ferite slabbrate, niente pus, niente nemmeno sensualità, e sì che lo sanno davvero anche i ragazzini che l’attrazione irrefrenabile delle vergini per il Vampiro è una metafora del richiamo sessuale ammantato di peccato in quasi tutte le culture occidentali: dopo circa 700 pagine (ma sarebbero 300, in pitch 12) chiudi questo libro, e anche se ci provi non trovi niente di cui parlare.
L’ex boyfriend tradito che si sacrifica per la fedigrafa avrebbe potuto essere un personaggio, se solo almeno lui avesse avuto più spessore del foglio su cui è descritto, invece niente: bene e male restano mondi separati, impera il manicheo dualismo che rassicura le giovani menti e le tiene lontane da quell’evoluzione che le porterebbe a spegnere la TV e a realizzare finalmente che la vita è altrove, che non ci sono due squadre e che non è una partita ma un labirinto in cui ciascuno si è perso, ed ha bisogno degli altri per ritrovare la via.
Non posso dire altro, se non che è un peccato, che questa “Mcstoria” abbia trovato un editore internazionale mentre chissà quante di certo migliori restano inedite a meno che di non pubblicarle a proprie spese, e solo qualche anno fa ho comprato a peso in un ipermercato, restando in tema vampiri, sia pure artificiali, Una notte a mangiare smania e febbre di Matteo Curtoni, altrimenti destinato al macero, che sì che è un libro, e avrei voluto parlarne: se lo trovate, compratelo, leggetelo, e rimarrete per giorni a pensarci.
Ovviamente, lo so, che è il mercato a governare il mondo, e che è il marketing a decidere chi e cosa. Ovviamente lo so, che finchè ci sarà chi paga € 280,00 un paio di scarpe solo per l’H sul lato quando un paio di ottimi anfibi di cuoio costano massimo € 50,00 in qualsiasi negozio di articoli militari e durano una vita è inutile parlare di qualità, perché è il brand che detta le regole, e non ditemi che è un fatto di stile, vi prego, che uno degli uomini più eleganti che ho visto in vita mia li porta sotto i pantaloni con la piega anche se potrebbe permettersi scarpe cucite a mano e sembra quello che è, un gattopardo, mentre le succitate H m’appaiono triste omologazione di periferia.
Per di più, i libri non sono oggetti come gli altri, ci parli e ti parlano, ti accompagnano mentre fai la tua strada e se sei fortunato te la indicano, anche: non posso rassegnarmi a che siano terreno di marketing, proprio loro che mi abitano, senza cui sarei vuoto.
Non voglio rassegnarmi a credere che sia per forza così, Mc libri come Mc lavori come Mc scuole e via dicendo: non voglio rassegnarmi a pensare che anche la mente non abbia scelta, che qualcuno la stia succhiando via, con grossi canini aguzzi, per costruire al suo posto un centro commerciale..


MC VAMPIRES’ H. SCHOOL STORY
(LISA JANE SMITH, IL DIARIO DEL VAMPIRO: IL RISVEGLIO, LA LOTTA E LA FURIA, NEWTON COMPTON EDITORI, ROMA, 2008)

Il libro del giorno: Il giorno dell'Indipendenza di Letizia Muratori (Adelphi)

Giovanni ha smesso con la coca, e ha anche smesso di vendere prodotti finanziari ad alto rischio. Per disintossicarsi si occupa a titolo gratuito di creature misteriose e non troppo tranquillizzanti che si chiamano tutte Ruggero e Isabella, e appartengono a una razza pregiata di suini neri. Mary ha smesso anche lei con la sua vita precedente, ed è arrivata in Italia dagli Stati Uniti alla ricerca di certi parenti adottivi che vivono nello stesso paese dove lavora Giovanni, e che si chiamano anche loro Ruggero e Isabella. La prima curiosità che questo libro suscita è come possano incontrarsi due personaggi così, uno in fuga da e l'altro alla ricerca di un paradiso in terra - tanto più in un posto troppo fangoso e dimenticato da dio anche solo per ricordarlo, il paradiso. Ma la sorpresa è che invece sì, incontrarsi possono, se affrontano un viaggio in treno a Milano per conquistare insieme un congresso di allevatori, una farsesca e commovente lotteria suina nel basso Lazio, e una strana notte - italiana - del 4 di luglio; e se queste premesse riportano tutti e due per vie diverse in America, a Miami, dove la commedia recitata fin qui diventa, senza quasi che il lettore abbia avuto il tempo di accorgersene, un thriller hitchcockiano.

casa editrice Adelphi: http://www.adelphi.it/

"Ecco un romanzo, breve, da leggere con sorpresa, piacere, e insieme inquietudine. Non capita spesso. Solo i romanzi migliori sono nel contempo originali, coinvolgenti e perturbanti. Stiamo parlando del quarto libro di Letizia Muratori, Il giorno dell'Indipendenza (Adelphi, pp. 112, euro 15,00)"

Paolo Di Stefano
dal Corriere della Sera del 21/05/09, p. 41

mercoledì 20 maggio 2009

Dieci brevissime apparizioni di Nunzio Festa (LietoColle)

Ricevo con molto piacere da LietoColle di Michelangelo Camilliti, un piccolo gioiellino, vuoi per la veste e la resa tipografica vuoi per il pregevole contenuto: “Dieci brevissime apparizioni” di Nunzio Festa nella collana “solodieci Poesie”. E non cambierei una virgola di questo mio primo giudizio,anche se si trattasse di una manovra economico-editoriale per risparmiare qualche lira, trattandosi per di più della cenerentola, in termini economici, del mondo delle lettere, ovvero la Poesia. Infatti come prima impressione il prodotto potrebbe risultare alquanto esiguo, povero, assolutamente non invitante all’acquisto! Una sovracoperta cartonata color avorio (a due colori, nessuna immagine di copertina) che racchiude un corpus di 16 pagine ciappate. Il tutto però ha una sua sobrietà, e una certa eleganza, che sicuramente si lascerà apprezzare e godere da chi ama le piccole cose di buon gusto. Per venire all’autore in questione, ovvero Nunzio Festa, e a questo suo ultimo lavoro, sono rimasto piuttosto colpito dalla sua prosa poetica. Il ritmo della parola non è ricercato, in quanto sembra prediligere una misura del tempo narrato, gestito da una forte visionarietà, che parte dal quotidiano, ma lo trasforma a suo totale piacimento, quasi a non riconoscerne lo statuto fenomenologico e ontologico. Prendiamo a pag. 3 il “Primo brevissimo”: “Aveva riconosciuto la sensazione di stare allerta, dove quel suo tempo era stretto infinitamente alla corda tesa e molle dell'Epoca, e se un giorno arriverà Epoque lei non se la troverà addosso. Neppure per misericordia. E il pentolino saliva colla stessa, alla velocità dello sguardo. Che di fugacità viveva, o aveva vissuto. La ragazza provava a rialzarsi, ma si risedeva. Scodinzolava, fremeva, sfregava. Friggeva, il suo tappeto. Allora decise, con calma, giunto il momento di ridere da sola; e guardò - per rivederlo - il suo film preferito La tramontana: quel film comico duemila volte letto e sentito”. Il punto di partenza teorico-letterario adottato da Festa per la strutturazione di questi componimenti sembra essere quello del problema della percezione dell’individuo nell’avvertire il luogo del proprio vissuto, dal momento che non se ne ha memoria né se ne può avere una, in quanto tutto è troppo sincopato per poter essere fermato, discusso, percepito, assaporato. Il rapporto tra sé e il mondo insomma è al di fuori di qualsiasi metafora per poter essere cantato. Lo spazio dell’abitarsi nel sociale, ha oramai una grammatica talmente stramba e strampalata da divenire grottesca e mostruosa. Per farla breve, il sintomo dell'attualità diviene parodia di una perenne messa in scena dell’esistenza. Il messaggio che Nunzio Festa vuol lasciar trasparire, e non tanto tra le righe, è che in fondo se ci si lascia trasportare dal senso di angoscia o di smarrimento che pervade ogni fessura della nostra contemporaneità, alla fine ci scorderemo anche di vivere, di sorridere, o perché no, di poter scherzare magari, a volte bonariamente a volte con ironia e sarcasmo, anche delle cose più sacre, quelle che i secoli, le tradizioni, i buoni e i cattivi maestri hanno rinchiuso nelle catacombe buie e abbandonate di una certa cultura. Si veda ad esempio a pag. 5 il Terzo Brevissimo: “Oggi è il compleanno del poeta. E non sa come servire in tavola gli auguri stesi al sole. Dunque si prende tutto quello che la gente mostra sul solco della sua pancia. Quindi, un secolo di birre. Il secolo delle birre brevi come lunghe. Il secolo delle birre, è questo. Il giovane poeta compie gli anni. Ogni volta il giovane poeta, il poeta giovane, si sceglie gli anni da compiere. Tutte le volte che accade - quasi tutti gli anni, tranne quando (nei bisestili) non ci sono anni - è una battuta. L'applauso era fragoroso. Le tentazioni d'inventarsi finte spalancavano porte, inizi di territori inesplorati. Ma l'esplorazione di questo poeta è cosa da puntino.” Si tratta a mio avviso di una piccola pubblicazione fresca e intelligente su come la mutevolezza dei paradigmi sociali e relazionali si possa affrontare facendo anche dei bei versi. Sono cinque euro spesi bene!

Nunzio Festa è nato nel 1981 a Matera, dove attualmente lavora. Risiede a Pomarico (MT) con la sua compagna. Poeta, narratore, critico; lavora nel campo dell'editoria ed è collaboratore giornalistico. Collabora, inoltre, con siti internet, riviste e quotidiani. Suoi articoli, poesie e racconti sono stati pubblicati su riviste e in varie antologie.Nel 2004 ha pubblicato la sua prima silloge poetica E una e una, mentre nel 2005 la sua prima raccolta di racconti Sempre dipingo e mi dipingo. Diversi i riconoscimenti ricevuti. Nel 2006, il racconto breve "Da dentro la materia" è entrato a fare parte dell'antologia Storie d'acqua dolce (Eumeswil Edizioni). Nel 2007, la silloge poetica "Deboli bellezze" è entrata a far parte della collana curata da Silvia Denti, I quaderni Divini. Nel 2008 ha pubblicato racconti e poesie per diverse case editrici, fra le quali Giulio Perrone editore, LietoColle.

Festa Nunzio- "Dieci brevissime apparizioni", LietoColle - Collana Solodieci
Sottotitolo: brevi prose poetiche

Il libro del giorno: Cani da guardia di David Baldacci (Mondadori)

Oliver Stone è il capo del Camel Club, un singolare ed eterogeneo gruppo che si è dato l'ambizioso compito di vigilare sulla sicurezza dei cittadini e di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla corruzione all'interno dei palazzi del potere. Quando Annabelle Conroy, un membro onorario del club, viene a trovarsi in pericolo dopo aver ordito una colossale truffa ai danni di Jerry Bagger - lo spietato proprietario di un casinò di Atlantic City -, Stone e i suoi compagni decidono di fare quadrato intorno a lei. Per quanto pericoloso, comunque, Jerry Bagger non è l'unica minaccia a cui far fronte. Harry Finn è un uomo dalla vita ordinata: vive nei sobborghi di Washington, ha una moglie e tre figli amatissimi. Nonostante le apparenze, tuttavia, svolge un'attività alquanto particolare: è un esperto di sicurezza antiterroristica, un genio in grado di bucare le maglie di qualsiasi sistema di vigilanza, per testarlo prima che avvenga l'irreparabile. Ma dietro la sua tranquilla facciata si cela un altro e più inquietante segreto. Uno scenario molto complesso, in cui si muovono personaggi in grado di influire sugli equilibri nazionali e internazionali. Malgrado la volontà di lasciarsi definitivamente alle spalle un passato fatto di morte e di violenza, anche questa volta Stone dovrà fare appello alle sue doti di ex militare, e al supporto di tutto il Camel Club, per sventare i disegni criminosi e le oscure manovre che interessano le più alte sfere dell'intelligence e delle istituzioni governative.

casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html

"Mix di pathos, avventura, cattiverie e buoni sentimenti, come sempre in David Baldacci. Leggi curiosa e e sai che non devi fermarti a pensare"

di Lorenza Pizzinelli da Gioia n. 20 (2009), p. 83

Cani da guardia di Baldacci David, 2009, 381 p., rilegato, traduzione a cura di Lamberti N., Editore, Mondadori (collana Omnibus)

martedì 19 maggio 2009

WALTER SITI, IL CANTO DEL DIAVOLO (RIZZOLI, COLLANA 24sette). Rec. di Silla Hicks

Premetto: sono eterosessuale. Ho sempre amato le donne, da quando mi sono accorto che esistevano, o meglio da quando loro si sono accorte che esistevo io. Avevo quattordici anni e tre mesi e dovevo già radermi ed ero solo pochi centimetri meno di adesso, un gigante spaesato che i compagni di classe chiamavano il vichingo, sradicato dal suo tutto, e lei di anni ne aveva trentacinque, ed era amica di mia madre, si chiamava Susanna, un nome da formaggino, gli occhi scuri e i capelli tinti di un biondo che mi ricordava casa.
Mi offrì il primo bacio e la prima sigaretta, una multifilter blu, e mi regalò un quaderno che curasse la nostalgia. Mi faceva piangere e pensare che ammazzarmi fosse l’unica via di fuga che mi restava: quando vorresti morire scrivi, mi disse, puoi farlo in tedesco, e sarà come tornare.
La ringraziai senza crederle: c’è voluta una vita per imparare quanto avesse ragione.
Non l’amavo, perché non ero capace: odiavo tutto, e soprattutto me. Quando cambiammo casa e la persi di vista non feci niente per ritrovarla. Da allora – sono passati più di vent’anni - non ne so più nulla, e mi dispiace, adesso, che lei è uno dei pochi ricordi belli che mi restano, e altre donne –in realtà, soltanto una– mi hanno reso quello che sono. Ma comunque sia – anche adesso, anche così – continuo a credere che un uomo senza una donna non possa avere senso: anche quando ti uccidono, sono la causa prima per cui siamo. L’anello di congiunzione tra l’uomo e dio, o il demonio, che è la stessa cosa, all’altro estremo della scala: in un caso e nell’altro sono loro a portarci in cima o in fondo, loro che ci spingono sulla strada, e che sia quella giusta o quella sbagliata non conta, senza di loro resteremmo immobili, sul ciglio, senza un pretesto per scegliere, e sarebbe infinitamente peggio - peggio anche di questo - non esistere, mai.
Premetto ancora: non ho mai pensato che l’identità sessuale potesse essere liquida, per quanto mi riguarda, almeno. Io sono un uomo, e amo le donne. Punto. Non mi riesce di immaginare qualcosa di diverso, la mia parte femminile è stata la mia donna, e prima di lei mia madre, e adesso, che è successo quello che è successo, mia sorella, con cui divido la casa e tante sere nere, i suoi numeri e le mie parole, la sua motocicletta e la mia motrice, due modi opposti di cercare risposte che miracolosamente completano il puzzle, perché è vero che sono l’altra metà del cielo, sono figlio dell’androgino io, spaccato a metà dal fulmine nel simposio, e cerco la metà amputata che mi manca.
È questa la ragione per cui ci ho messo tanto, a leggere le 205 pagine di questo libro, dalla dedica ai ringraziamenti inclusi: il perché ci ho messo tanto e il perché l’ho capito solo in parte, anche, e questo è un peccato, perché è indiscutibilmente un bel libro, che intessuta in un’ottima guida lonely planet post Naomi Klein sugli Emirati porta una storia d’amore scritta con gli occhi feriti a morte di chi l’amore ha avuto il coraggio di guardarlo in faccia, e sì che ci vuole coraggio ad essere “l’altro”, non si ha niente e non si può chiedere niente, nemmeno di essere amati, perché significherebbe imporre una scelta, e il rischio che significhi la fine anche di quel niente cui si sta aggrappati è fuori questione, e così pazienza se si viene maciullati ogni attimo, ne sa qualcosa il mio amico Giuseppe, che è stato l’amante per anni, e, dio, quant’è bella questa parola, e quanto è tremenda se non si associa a nient’altro, quant’è straziante quando significa solo niente domeniche e niente natale e niente compleanni, solo ristoranti sul mare d’inverno e qualche weekend camuffato da lavoro, guai se lo scopre qualcuno.
È una storia che gronda vita – nel senso letterale: qui e là sgranata, come la vita è, una montagna russa in cui basta un cellulare irraggiungibile a spegnere le luci sul mondo - ed è raccontata bene, in una lingua zeppa di riferimenti quanto più cerca di destrutturarsi nel gergo, sudore di uno scrittore vero, cui riesce senza sforzo quello che chiunque provi a scrivere sogna, fare buio in sala e proiettarti ogni riga nel cervello, finchè non sei lì, nel bel mezzo della pagina che ti viene incontro e senti, finalmente, il profumo dei gladioli e le grida dei russi che giocano a pallavolo in piscina e tutto il resto, anche il sapore del risotto con asparagi e tartufi, e sopra ogni cosa il dolore dell’amore che non riesce a ritagliarsi una stanza tutta per sé nella vita di ogni giorno, che è confinato alla vacanza, al ritaglio, nessuna certezza del domani.
Tutto chiarissimo, so cosa sia, cercare di comprare quello che può essere solo un regalo,io che nel 2000 avevo 35 milioni di debiti (e ci tengo a sottolineare che proprio allora tornammo assieme, quando non potevo offrirti nient’altro che me, a riprova che ci sono cose che non hanno prezzo, né possono averlo, e com’è andata a finire è un’altra storia).
Ma questo libro è una lettera d’amore – sussurrata nelle prime pagine, a voce così bassa che ti chiedi se hai capito bene, così rileggi, finché non ti rassegni – e poi urlata – senza nessuna forma di discreta censura, e sì che Lui è sposato, e cerca ai bazar un posacenere da regalare alla moglie – per Massimo e il suo lessico romanesco e il suo perizoma da culturista, cui lo scrittore regala una vacanza superlusso per ricompensarlo di esistere, prima di immergersi in un viaggio solitario e necessariamente low cost oltre l’ologramma di una terra fabbricata con il Lego, alla ricerca della sua anima e della propria, entrambe perse, l’una soffocata dalla plastica di sogni faraonici e l’altra dal suo amore clandestino.
E purtroppo, malgrado i trentasette anni e i forse trentasettemilioni di chilometri che ho alle spalle, l’unico modo che ho avuto di decodificarlo è stato trasformare Massimo in Marina, farne un adattamento che mi fosse comprensibile, e necessariamente questo ha significato semplificare, distorcere, e molta parte del tutto mi è rimasta oscura.
Me ne scuso, non è rifiuto del diverso, no, è una vita che sono diverso in quasi tutto, sono mancino, e zero negativo, e porto il 47 di scarpe e ho capelli e ciglia così chiari che sembrano bianchi, ma ci sono cose che vanno oltre quello che posso capire, che hanno strutture e meccanismi che mi sfuggono, e quando succede devo trasformarne l’algoritmo in un simbolismo che mi sia comprensibile, e il risultato necessario è perderne le (probabilmente più profonde) sfumature.
Come questa volta, ed è stato un peccato: di questo libro – gli Emirati restano sullo sfondo – mi è rimasta la sensazione sgradevole del disegno del tappeto impresso sulle ginocchia di Massimo a pag. 34, che è stata un pugno nello stomaco, non mi vergogno a dirlo, per me come per molti uomini (la maggior parte? Questo non lo so. Sono uno solo, io.)
Peccato, davvero. Una storia bellissima, raccontata ancora meglio. Ma sarebbe stato troppo sforzo chiamare Massimo Marina? Troppo sforzo concederci di capire, davvero? Ho trentasette anni e trentasettemilioni di chilometri alle spalle. E chiuso il libro è alla moglie di Massimo, che penso, al suo sorriso quando avrà ricevuto il posacenere, al dolore che non sa di provare, perché, ne sono certo, lei non sa.
Ma poi finalmente capisco, è questo il miracolo vero di un vero libro, la moglie di Massimo nella storia non c’è, non si vede, eppure io l’ho vista, sto pensando a quello che deve aver pensato, sono entrato nei suoi panni, e magari lei nemmeno esiste, è tutto inventato, ma io la vedo, questa donna che è rimasta a Roma, che ha aspettato che il marito tornasse ed è corsa a prenderlo all’aeroporto, il suo muscoloso marito che neanche saprebbe immaginare carponi sul tappeto del resort che le ha portato in regalo il patchouli e chissà cos’altro comprato nei suk che visitava con il suo amante di sessantadue anni, chissà le balle che le ha raccontato per coprire tutto, e vorrei gridarlo, dirglielo, e prendere lui per il collo, anche, so cosa vuol dire essere traditi, e non credo che il dolore che si prova sia in relazione con chi.
Così, finalmente capisco, istintivamente ho scelto da che parte stare, sono entrato nella storia, ed è questo che conta. Che molto, moltissimo mi sfugga dei meccanismi di cui parla non è più importante, il fatto è che ci sono entrato, e questo è tutto.
È questo il miracolo vero di un vero libro.
E questo è un vero libro.
Avrei preferito che Massimo fosse Marina, sì.
Sarebbe stato più facile leggerlo. Ma è un vero libro, e il resto, gli Emirati, il perizoma e il tappeto, sono dettagli. Non conta di quali io – lettore, maschio, trentasettenne, eterosessuale, camionista, italotedesco - avrei volentieri fatto a meno.

AVREI PREFERITO MARINA
...

(WALTER SITI, IL CANTO DEL DIAVOLO, 2009, RIZZOLI MILANO, COLLANA 24sette)

Il libro del giorno: L' incantatrice di Firenze di Salman Rushdie (Mondadori)

Un misterioso viaggiatore dai capelli biondi arriva a Sikri, sede della corte Mogol, e chiede udienza al sovrano Jalalluddin Muhammed Akbar, detto Akbar il Grande. Lo straniero afferma di venire da una sconosciuta, remotissima città di nome Firenze e di avere una storia tanto meravigliosa quanto veritiera da raccontare: una storia che lega i destini della misteriosa capitale d'Occidente da cui proviene a quelli della discendenza del monarca indiano. Inizia così un racconto che, unendo una pirotecnica inventiva a una minuziosissima documentazione, si snoda tra figure storiche gigantesche, una fra tutte Machiavelli, e vede tra i protagonisti l'enigmatica Qara Koz, "Madama Occhi Neri", principessa destinata a sconvolgere con la sua esotica e rara bellezza la raffinata corte medicea. Quanto c'è di vero nel racconto del viaggiatore, il quale afferma di non essere altri che il figlio di Qara Koz? E se ciò che racconta è vero, che ne è stato della principessa? Non si tratterà invece di un bugiardo che, in quanto tale, merita solo la morte?

casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html


"Nell'ultimo libro di Salman Rushdie, L'incantatrice di Firenze (Mondadori) c'è davvero tanta Italia, che Rushdie ha iniziato ad amare quando passò mesi felici tra Roma e Firenze, da studente di Storia. Il romanzo vendemmia grappoli di trame e storie inuna lingua lussureggiante, da cantastorie, sebbene decadente dalla cura dello scrittore di letteratura, mescendo la corte dei Medici e quella di Akbar il Grande, imperatore indiano"

Luca Mastrantonio
da Il Riformista del 19/052009 p. 17

L' incantatrice di Firenze di Rushdie Salman
2009, 373 p., rilegato, traduzione a cura di Mantovani V.
Editore Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

lunedì 18 maggio 2009

La musica delle pianure di Robert James Waller (Frassinelli). Rec. di Vito Antonio Conte

S'alza un vento freddo che spira forte da Nord-Est. I vetri della mia porta-finestra che guarda sull'hotel di tanti scritti tintinnano, quasi tremano. Come quella mosca, che preannuncia primavera, ch'è rimasta dentro e zampetta verso la luce. “Aspetta Primavera, Bandini”, direbbe il buon caro John Fante... Charlie Parker, col suo “Parker's Mood”, ha amplificato lo struggimento delle ultime sedici pagine del libro che ho appena finito di leggere. In particolare, “Funky Blues” (Hodges, una Jam Session di minuti 13 e secondi 27) ha carezzato un momento che poi vi dirò. Adesso, mentre scrivo, bevo un drink che mi sono preparato con dry gin, acqua, limone e zucchero. Di per sé non è granché, ma le giuste dosi fanno sì che sia quel che serve al mio stomaco e alla mia testa. Aggiungo vizio a vizio, accendendomi un'altra sigaretta, nel mentre le note ora sono quelle di “A Night In Tunisa” di Dizzy Gillespie, ché di jazz ho bisogno ancora. E d'altro, a dio piacendo. Di poc'altro, invero. Un pick-up e una lunga strada sterrata che scollina tra orizzonti perduti. Punti di vista. Lui, l'autore del libro di cui sopra, intanto, di già vive in un ranch sperduto tra le montagne del Texas... Anni fa ho letto “I ponti di Madison County” (e, tempo dopo, visto l'omonimo film con Clint Eastwood e Meryl Streep), poi “Valzer lento a Cedar Bend” e “L'ultima notte a Puerto Vallarta”. Altre strade sterrate, lo stesso pick-up. L'avrete capito, parlo di Robert James Waller, che stavolta mi ha rubato qualche settimana con “La musica delle pianure” (titolo originale “High Plains Tango”, pagg. 366, Frassinelli Edizioni, Collana I Blu, trad. di Alessandra Petrelli, € 19,50). La storia si presta a un'altra trasposizione cinematografica, non tanto per i dialoghi (scarni e essenziali), che necessiterebbero di una buona sceneggiatura (e, per questo, quelli del libro sono di ottima fattura, restando fedeli alla scrittura propria di un romanzo), quanto per la singolarità del protagonista, anzi dei personaggi che questa storia fanno vivere e pulsare, ognuno con la sua personalità alquanto ai margini di quel che quotidianamente si vede in giro per le frenetiche strade del falso vivere: di quello reale e di quello virtuale della televisione. La forza dei personaggi, infatti, è tale che l'avvertenza circa l'opera di fantasia vale soltanto per chi non sa vedere oltre quello stupido vivere. E non mi ripeterò dicendo che la fantasia -spesso- supera la realtà e -a volte- l'anticipa. C'è che, in questa gran confusione generata tra commistione insulsa di quotidianità (fatta sempre più di passi pesanti e sguardi spenti) e reality “dituttitipi” (che mal-educano al tutto e subito, dove tutto sta per niente e subito sta per in culo al resto), poco spazio resta alla fantasia, quella ch'è sogno coltivato con progettualità rinunce pazienza entusiasmo sacrificio competenza gioia e sudore e che -piacendo a qualcuno- puoi -in fine- toccare e far toccare. E ch'è destinato a restare nel Tempo. Questo libro inizia (vedi un po' il caso) con un pick-up, il cui conducente lascia il nastro d'asfalto di una statale del cazzo degli Stati Uniti d'America e imbocca una strada sterrata in cerca di un luogo possibile, di un posto dove sia ancora possibile, di un angolo dove sia possibile... VIVERE. Senza i rumori della vita imposta dal consumismo. Senza i rumori della vita imposta dalla televisione. Senza i rumori della vita che non è vita. Carlisle è uomo del nostro tempo che vuole uscirne. È mastro carpentiere, con una laurea presa per far piacere a sua madre, che ha vissuto l'assenza di un padre e che ha lasciato qualche ricordo in qualche donna che l'ha lasciato o che lui ha lasciato, ché così doveva andare. Deve tutto (o quasi) a Cody Marx, dal quale ha appreso l'arte di costruire una casa con la lentezza ch'è madre dell'attenzione e prossima congiunta del sempiterno. Ch'è poi l'arte di vivere una vita assaporandone in pieno il gusto. Nel bene, come nel male. Il luogo è quello che non esiste. “È qui, in una città chiamata Salamander, che approda Carlisle McMillan... alla ricerca di un luogo di pace in mezzo all'implacabile ruggito del progresso. E, stregato dai mille suoni che il vento porta con sé, voci antiche di flauti e tamburi, di fantasmi di popoli, decide di fermarsi”. E qui, tra leggende pellirosse che ancora si muovono di notte tra le fiamme di un fuoco acceso sull'altura del Wolf Butte nella danza di una donna come se ne può incontrare (se va bene!) una in tutta un'esistenza e negli occhi di un vecchio indiano (di quelli che nemmeno se va bene puoi incontrarne ancora) e bieca ignoranza del passato che non ti fa stare nel presente e ti fa vedere nel futuro quel che altri vuole che tu veda, accade che incontri un universo di uomini e donne che camminano senza lasciare impronte e poc'altri uomini e donne che delle tracce del cammino continuano a fare motivo di lotta per affermare quella possibilità di cui dicevo sopra: quella che ti fa sentire ogni respiro: proprio e altrui. Quella che porta alla condivisione di sé con l'altro e con lo spirito della Terra. Quella che è difficile fuori da un romanzo, ma che un romanzo può ricordarti che da qualche parte c'è se hai ancora voglia di trovarla. E non vi dirò della polvere che bisogna ingollare per cercarla. Né vi dirò d'altro. Né, soprattutto, di tutti i veleni che ci uccidono e uccidono questa Terra. E di chi li sparge sotto, intorno e sopra le nostre teste. E, fuor di metafora, basta guardarsi intorno... e non cado nello scazzo che tali pensieri mi danno, ché sennò ci vado pesante un'altra volta e poi non mi pubblicano... che le invettive bisogna calibrarle... In questo libro c'è anche questo. E altro. Ora, io non so se Waller è un gran paraculo che ha capito come fare i soldi per starsene nel suo ranch nel Texas alla faccia di chi, come me, compra e legge i suoi libri, ma so che, una volta ancora, ha toccato quella corda che allenta ogni controllo fino a liberare le mie lacrime: è successo a pagina 355, intanto che il vento batteva forte sulla mia porta-finestra e una mosca preannunciava la primavera. Sarà anche colpa sua? Della primavera, intendo. Non lo so. Provate a leggere questo libro. Adesso posso fare altro: tipo: cercare il mio pick-up.
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Il libro del giorno (anteprima): MARC FUMAROLI, Chateaubriand. Poesia e terrore. (Adelphi)

Nell'Ottocento i viaggiatori di lungo corso non dimenticavano di portare con sé una biblioteca portatile, che trovava posto in una cassa opportunamente attrezzata. Si può dire che questo volume di Marc Fumaroli è l'equivalente moderno di quei cofanetti preziosi, in vista dei quali gli editori pubblicavano, in formato adeguato, apposite collezioni di titoli antichi e moderni. Ciascuno dei suoi capitoli, infatti, può essere letto come un'opera autonoma, che ci offre il vivido ritratto di un grande autore classico (Milton, Rousseau, Madame de Staël, Byron, Tocqueville, Baudelaire, Conrad, Proust), di un poeta misconosciuto (Louis de Fontanes, Pierre-Simon Ballanche), di un personaggio che ha lasciato una traccia più o meno vistosa nella Storia (Napoleone, Talleyrand, Pauline de Beaumont,Madame Récamier), indagati tutti con la consueta, magistrale capacità di penetrazione. E tutti legati gli uni agli altri dal rapporto - ravvicinato o a distanza - con Chateaubriand e la sua vicenda umana, dipanatasi attraverso quel «secolo delle rivoluzioni» di cui egli fu testimone e attore, nonché interprete e narratore nel suo capolavoro, le Memorie d'oltretomba. «Questo libro non è una biografia di Chateaubriand» avverte Fumaroli in apertura. «Invita a una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d'oltretomba e del campomagnetico all'interno del quale si è formata». E aderire all'invito significherà, per il lettore, «percorrere il primo planisfero dei conflitti tra modernità e anti-modernità, Lumi e Contro-Lumi, e riconoscervi l'incunabolo del mondo che oggi, un po' dappertutto, si squarcia e ci frana sotto i piedi».

casa editrice Adelphi: http://www.adelphi.it/

"L'appassionante studio che Marc Fumaroli ha consacrato a Chateaubriand. Poesia e Terrore, apparso in Francia nel 2003 e oggi impeccabilmente tradotto da Graziella Cillario per l'Adelphi (pagg.816, euro 55), non ci propone, come sembrerebbe suggerire il titolo, la storia di una vita, bensì quella di un capolavoro. L'illustre studioso vi ricostruisce infatti la genesi intellettuale e poetica delle Memorie d'oltretomba, in tutti i suoi moleplici elementi costitutivi e ne esamina le tematiche - la religione, la tradizione, la memoria, il liberalismo, la democrazia - in una prospettiva di lunga durata"

di Benedetta Craveri
tratto da La Repubblica del 18/05/09 p.33

MARC FUMAROLI, Chateaubriand. Poesia e terrore. (Adelphi)
traduzione di Graziella Cillario pp. 736

domenica 17 maggio 2009

Alda Merini, Cantico dei vangeli (Frassinelli)

Affascinante, provocatorio, sorprendente, il libro più enigmatico della storia dell'uomo, il Vangelo, non ha mai smesso di suggerire domande estreme, talvolta rischiose. La vicenda drammatica di Cristo, la folle bellezza del suo messaggio di amore, appaiono quanto mai attuali sul teatro malato del mondo, oggi così diviso e disorientato da riletture poco scientifiche, forse suggestive, molto mediatiche. Con questo libro dedicato a Gesù e alle figure dei Vangeli, Alda Merini offre un nuovo spunto di riflessione a quanti continuano a interrogarsi sul senso e sul destino della fede. E lo fa, ancora una volta, con versi di altissima potenza espressiva, che evocano con grande forza visionaria i gesti, le parole, i silenzi di Maria, Gesù, Pietro, Giovanni, Maddalena, Giuda, che paiono stagliarsi in queste pagine in una rinnovata verità. Perché nelle poesie di Alda Merini le figure cruciali della tradizione cristiana riacquistano quella tensione emotiva, quella fragilità umanissima - nutrita anche di viltà, dubbi, tradimenti -, e soprattutto quell'intensità poetica e religiosa che la stratificazione delle interpretazioni ha talvolta reso opache.

"Fuggirò da questo sepolcro
come un angelo calpestato a morte dal sogno,
ma io troverò la frontiera della mia parola.
Addio crocifissione,
in me non c'è mai stato niente:
sono soltanto un uomo risorto"


Alda Merini, Cantico dei vangeli, Frassinelli, p.3

Il libro del giorno: Dentro la foresta di Roddy Doyle (Guanda editrice)

Tom Griffin ha dieci anni e vive a Dublino con il fratello Johnny, maggiore di due anni, la loro madre Sandra, la sorellastra Grainne e il padre di lei, che ha sposato Sandra dopo il divorzio dalla prima moglie. Una famiglia allargata come tante, che vive momenti di serenità, ma anche inevitabili tensioni. Grainne in particolare è una ragazza difficile, dall'adolescenza turbata, che deve fare i conti con il dolore di essere stata abbandonata da piccola dalla madre, trasferitasi in America subito dopo la separazione. Ma ora la donna ha deciso di tornare in Irlanda, per incontrare la ragazza, e Sandra ha pensato che sia meglio lasciare sole madre e figlia in questo difficile incontro: perciò ha organizzato un viaggio-avventura in Finlandia per i suoi ragazzi. Spostamenti in slitta con i cani, allestimento del campo per la notte: per Tom e Johnny la vacanza è un paradiso, finché la madre, una sera, scompare tra le nevi, e saranno proprio loro a doverla cercare...

"Dentro la foresta è la storia coinvolgente di madri 'perdute' e 'ritrovate' grazie all'aiuto dei propri figli. Roddy Doyle, l'autore del romanzo, descrive il mondo degli adulti con grande modernità: genitori spesso fragili e insicuri, il cui amore a volte non è sufficiente a comprendere i cambiamenti e le esigenze dei propri figli".
di Antonella Luna tratto da Leggere Tutti n.39 maggio 2009, p. 49

casa editrice Guanda: http://www.guanda.it/

Dentro la foresta di Doyle Roddy 2008, 208 p., brossura
traduttore, Zeuli G., Editore Guanda (collana Narratori della Fenice)

sabato 16 maggio 2009

I diari del diavolo, di Lucifer D. Satan (De Agostini)

Ce ne siamo accorti un po’ tutti come vi sia una proliferazione di volumi, libriccini e riviste che in maniera confusa e volutamente ampollosa (per mantenere in piedi la favola di una cultura altra, per pochi eletti) tratta argomenti come angeli e demoni, esoterismo, magia bianca e nera, satanismo e affini, spesso con fare sensazionalistico, ammiccando ovviamente al mercato, anzi ad una buona fetta del mercato editoriale i cui utenti sono ogni giorno di più affascinati dal mistero e dall’occulto. Alla base di tutto, anzi nelle retrovie di tali pubblicazioni, e se volessimo addentrarci in un ambito più strettamente metafisico e teologico, alle fondamenta di questa realtà, pare esserci un personaggio ( forse preda di un delirio zoo-antropico dal momento che si fa raffigurare in molte occasioni metà capro metà uomo) che sembra tenere in mano le redini di questo mondo sempre più malvagio, sempre più confuso. Una figura il cui nome, solo a pronunciarlo fa accapponare la pelle: Satana. Satana [sà-ta-na] (שָׂטָן Ebraico Satan, Latino Sátanas, Ebraico tiberiense Śāṭān; Aramaico שִׂטְנָא Śaṭanâ; ﺷﻴﻄﺎﻥ Šayṭān: "Avversario"; "accusatore") è l’angelo, il demone, incarnazione del principio del male supremo, in contrapposizione a Dio, principio del sommo bene. Satana è anche noto come il Diavolo (dal latino Diábolus, -i e dal greco antico Diabolos, -ou, cioè "Colui che divide") per eccellenza , il Principe delle Tenebre, il Principe di questo Mondo, il cui nome è declinato in diversi modi: Belzebù (definizione traente origine dal nome dalla divinità fenicia Baal, e la cui traduzione letterale è "Signore delle Mosche"), Belial, Mefistofele o Lucifero (dal latino Lucifer, cioè "Portatore di luce"), Mitricoleon poiché, secondo un'antica tradizione ebraica, si fa piccolo con i grandi e grande con i piccoli. La De Agostini, immette nel circuito editoriale italiano, un libro che dal titolo già fa venire l’acquolina in bocca, agli amanti del genere: “I diari del diavolo” di Lucifer D. Satan, trascritti dall’esimio (non si riesce a capire se esista veramente o meno) prof. M. J. Weeks ordinario di Antropologia Teologica Comparata all’Università di Milton Parva, il quale scrive nell’introduzione: “ A volte nel corso delle loro ricerche, gli accademici come me hanno l’incredibile fortuna di imbattersi in manoscritti o manufatti di incredibile valore. Io ho avuto il privilegio di fare la più grande scoperta di tutti i tempi: quella dei manoscritti perduti di Satana, il Principe delle Tenebre”. Ora l’autore ancestrale (Il Maligno) di questi manoscritti si dipinge come un uomo d’affari a capo della Satan Corporation, fondata ancora prima del Big Bang e le cui azioni soprattutto oggi in tempi di recessione sono alle stelle. Alcune sue creature, figli prediletti, nel corso della Storia sino ad oggi sono stati Charles Manson, Lucrezia Borgia, Adolf Hitler, Celine Dion, Richard Bruce Cheney, Monica Lewinsky. Alcune prodotti della Satan Corporation? La Microsoft, il cellulare, la Bomba H. Un piccolo consiglio naturalmente va dato a quanti vorranno spendere questi dodici euro (spesi bene per qualche dannato e meritato momento di relax) del prezzo di copertina: leggete e firmate il contratto apposto nelle prime pagine del volume … non si sa mai, meglio tutelarsi in anticipo!

I diari del diavolo, di Lucifer D. Satan, De Agostini, pp. 162, euro 12

Il libro del giorno: Io ti perdono di Elisabetta Bucciarelli (Kowalski editore)

Risate, voci allegre ai confini di un bosco in montagna: cercano castagne. Un cagnolino scodinzola vicino alla piccola Arianna. Lei lo insegue nel labirinto degli alberi in una corsa malferma fino all'abbraccio di qualcuno. Scomparsa. Richiamata da un sacerdote che la conosce da quando era bambina, l'ispettore Maria Dolores Vergani torna in quel paesino della Val d'Aosta. L'uomo le chiede di aiutare la madre di Arianna in veste di psicologa, professione che non svolge più da tempo. Ma c'è anche dell'altro, che il prete non vuole o non può dire. Una leggenda antica, una richiesta di perdono, un senso di colpa che non trova pace. Intanto a Milano vengono rinvenuti in un'area industriale dismessa i resti di una donna e il collega Pietro Corsari la coinvolge, suo malgrado, in un'indagine ben oltre le mura della città, dove i milanesi sciamano per soddisfare desideri inveterati. In questo momento difficile, Maria Dolores può fidarsi solo di Achille Maria Funi, il suo aiuto, che la segue in missioni oltre la loro stretta competenza e che si rivela questa volta inaspettatamente sensibile e perspicace. L'ispettore Vergani si ritrova a fare i conti con l'amore, quello da cui non si può sfuggire e dal quale si vuole a tutti i costi scappare. E mai come ora Maria Dolores deve ripercorrere il proprio passato - un percorso che la porterà forse a diminuire la distanza di sicurezza fra sé e le persone della sua vita.

casa editrice Kowalski: http://www.kowalski.it/

"Con Io ti perdono Elisabetta Bucciarelli raggiunge dopo numerosi noir, una nuova maturità di scrittura. La nuova indagine dell'ispettore Maria Dolores Vergani, in una Milano che la Bucciarelli descrive come - una terra di nessuno,una landa desolata che alle nove di sera chiude porte e finestre e in un delirio di ordine e controllo multa, reprime e sorveglia - mette in campo una metafora di struggente attualità: La vera indagine è sulla differenza tra giustizia e verità. Quella tra orrore della morte e bellezza dell'arte (...)"

di Gian Paolo Serino
tratto da D, La Repubblica delle donne, n.646, p. 34


Io ti perdono di Bucciarelli Elisabetta, 2009, 252 p., brossura
Editore Kowalski (collana Narrativa)

venerdì 15 maggio 2009

Festival, passaggi per il bosco

Passaggi per il bosco :: festival di lettere in musiche da periferia

Gruppo Opìfice, Gianluca Morozzi, Vanni Santoni, Gianfranco Franchi, Paolo Mascheri, Simone Rossi, Carlo Palizzi, Gianluca Liguori, Andrea Coffami, Enrica Camporesi, Angelo Zabaglio.

Abbandono. Oblio. Deserto. Tutto da farsi per poi ritornare: passare al bosco attraversando le strade della periferia. Abbandonate e desertiche.
Ricognizione in lettera e musica dalla periferia del ritorno. Praticamente un viaggio.




CAGLIARI | LUGLIO 2009

Racconti di periferie - estate 2009
a cura del Gruppo Opìfice

TEMA :: Abbandono. Oblio. Deserto

Tutto da farsi per poi ritornare: passare al bosco attraversando le strade della periferia. Abbandonate e desertiche.

Invia il tuo racconto a redazioneopifice@gmail.com entro e non oltre il 15 luglio 2009. I migliori racconti saranno pubblicati su opifice.it e letti durante il festival letterario Passaggi per il bosco

assaggi

Il Laboratorio Teatro è oblio, coriandoli del copione sulle teste del pubblico in sala, liberatorie spruzzate fisiologiche verso il nero pubblico seduto che le luci non devono dare alla voce sul palco. Inizierei dal Caligola di Camus, ma non dal testo, no, inizierei da quando Carmelaccio e Camus s’incontrano, quello è già teatro.
[Carlo Palizzi, Attraverso ricordi di domani, 1959]

Genio e Follia in Vincent Van Gogh. Di Maria Beatrice Protino

È possibile considerare la follia come causa determinante del genio? Oppure il genio per manifestarsi deve avere comunque il sopravvento sulla follia? Karl Jaspers –filosofo e studioso di psicologia, psichiatria e linguaggio- presenta uno studio classico sul problema-enigma della schizofrenia in alcuni tra i più grandi artisti, tra i quali Vincent Van Gogh. La sua analisi passa dal genere al concreto, cioè analizza i tratti caratteristici delle varie personalità dal momento in cui la malattia entra nella vita dell’uomo fino a trasfigurarne l’opera, rendendola appunto arte. «Per diversi giorni sono stato completamente fuori di me.. Questa volta la crisi mi ha preso quando ero nei campi e stavo dipingendo in una giornata ventosa.. durante le crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza, più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi.. allora non so più dove sono, la mia testa si perde», scrive Van Gogh in una lettera al fratello nel 1889.
«Conosciamo la follia in due accezioni -scrive Jaspers- come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia ‘. E, mentre nella prima accezione la follia ci è nota in quanto esclusione dal sistema o deroga al sistema di regole in cui la ragione consiste, proprio quelle che abbiamo inventato come rimedio all’angoscia, nella seconda la follia non è conosciuta, in quanto essa viene prima delle regole e delle deroghe e, per ciò stesso, avvertita come minaccia. Essa nasce là dove la coscienza umana si è emancipata dalla condizione divina o animale e conosce la creazione artistica come l’unica possibilità per l’uomo di non chiudersi all’abisso del caos perché –infatti- non c’è alcun mistero nel fondo oscuro di quell’abisso che, guardato dal punto di vista della ragione, chiamiamo irrazionale, ma dal quale, appunto, vengono le parole che poi sarà la stessa ragione ad ordinare. ‘Il mistero se mai è da cercare nella capacità della ragione di reggere alle forze contrastanti che la sottendono, terribili perché prive di regole». L’artista che si è fatto testimone di questa lotta sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso, precipizio dell’ordine logico, vertigine, congedo dalla ragione e il patire dell’artista, la sua catastrofe biografica si fa parola per gli uomini.
La definizione logica di questo stato mentale -ma anche fisico- è schizofrenia: la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, l’uno si rivede e disperde nell’altro senza che sia più possibile capire quale dei due sia il mondo vero.
V.Van Gogh nasce nel 1853 a Zundert, un paesino dell’Olanda. Non ha un carattere comune: tende ad isolarsi, è scontroso, anche se molto attaccato agli affetti familiari: «Aveva un’aria assorta, grave, malinconica, ma quando rideva allora il suo viso si rischiarava». Era molto religioso, e sino alla fine fu sostenuto dalla fede che non doveva niente alla chiesa e ai suoi dogmi: andava alla sostanza delle cose, al senso profondo dell’esistenza, spesso risultando poco gradito o non capito nelle sue prediche, che finivano per agitare l’auditorio derelitto a cui erano destinate. Anche come insegnante in Inghilterra fallisce. Infine diventa evangelista e assistente volontario tra i minatori del Borinage. È solo nel 1879, all’età di 26 anni che, costretto dal padre, torna a casa, deperito nel fisico e tormentato sul senso della sua vita: «Il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire?». Ma sarà proprio allora che Van Gogh darà fondo alla sua vocazione: «Mi sono detto: riprenderò la matita, mi rimetterò a disegnare, e da allora mi sembra tutto cambiato per me» . Si diede così all’arte, prima a casa da autodidatta, poi all’Aia per studiare i maestri olandesi, infine ad Anversa. Dal 1886 al 1888 sta a Parigi dal fratello Theo e scopre gli impressionisti.
Passando in rassegna le sue lettere per ricercare i primi segni della sua malattia, troveremo che già dal dicembre 1885 parla di disturbi fisici, si sente fiacco e debole: sicuramente impegnava i pochi soldi che aveva per comprare tele e colori, mangiava poco, si nutriva di solo pane e fumava molto per ingannare il senso di fame. Ma sarà dal 1888 che inizierà a fare riferimento a disturbi adesso psichici che cerca di dominare: «Sono veramente infuriato con me stesso, vorrei avere un temperamento forte certi giorni sono terribili... vorrei tranquillizzarmi i nervi.. sono così malato che non ho il coraggio di restare solo.. soffro di emozioni non giustificate e involontarie e in certi giorni di ebetismo.. spero di non aver avuto altro che una semplice crisi d’artista, e poi molta febbre in seguito alla perdita molto forte di sangue.. per il momento non sono ancora pazzo.. anche prima sapevo che ci si poteva rompere braccia e gambe e che dopo si poteva guarire, ma ignoravo che ci si potesse rompere la testa cerebralmente.. dentro di me ci dev’essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha fregato in questo modo..» .
L’attenzione di Jaspers si concentra sul rapporto decorso della malattia-mutamento nell’intensità creativa: nello stato preliminare della psicosi, cioè nel 1888, l’intensità aumenta; dopo, con le varie crisi più forti del 1890 fino al suicidio, l’intensità diminuisce, ma le facoltà creative permettono a Van Gogh una nuova evoluzione artistica. Scriverà: «Il mio pennello scorre fra le dita come se fosse un archetto di violino». E della sua pittura: «Ciò che ho imparato a Parigi se ne va.. perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario.. esagero il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancioni, al giallo cromo, al limone pallido…comincio sempre più a cercare una tecnica semplice, che forse non è più impressionista.. vorrei dipingere in modo che chiunque abbia occhi ci possa vedere chiaro».
Tutti i quadri dal 1888 hanno un nuovo tono rispetto ai precedenti: dissoluzione della superficie pittorica con pennellate di forma geometrica regolare, ma molto diverse fra loro. Ci sono linee, semicerchi e spirali, forme che ricordano il 3 o il 6, angoli. Le linee producono effetti multiformi, perché disposte parallelamente, ma anche in curve o raggi: l’impiego del suo pennello dà ai quadri un movimento inquietante perché tutto si torce e sembra palpitare, ardere. Le tinte sono mescolate in modo nuovo, sorprenderte, si raggiungono effetti crudi, fortemente realistici. Non cura il particolare, ma cerca il naturale, la chiarezza. E nei suoi ultimi quadri i colori risultano più chiari di prima, gli errori prospettici aumentano, le deformazioni non sembrano intenzionali, ma casuali: tecnica più grossolana, rozza. I quadri delle ultime settimane danno un’impressione caotica, con colori più brutali, mancano del riflesso tipico della sua tensione interiore perchè non c’è più artificio né tecnica acquisita: solo ritorno all’origine.
«La schizofrenia non è creativa in sé. La personalità e il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. Ebbene: in Van Gogh -e in pochissimi altri casi- invece, la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità» scrive Jaspers. Certo – rifuggendo facili esagerazioni - la schizofrenia non può essere creativa senza la conquista di una tecnica pittorica che V. Gogh aveva curato in dieci anni di lavoro, sforzandosi tutta la vita di arricchire le sue possibilità interiori. Riconoscere nella psicosi una condizione di certe opere non significa sminuirle. Esse rimangono inimitabili, autentiche e possono rimandarci a quel richiamo benefico che solo lo sguardo sull’assoluto può nascondere. L’opera che ne deriva è affascinante perché apre ai recessi più profondi della vita. Anzi, facendo nostra la riflessione e una domanda, forse un po’ retorica eppure realistica, di Jaspers: «In un’epoca come la nostra, di imitazioni e artifizi, in cui ogni spiritualità si converte in affarismo, in cui la vita è una mascherata al punto che la stessa semplicità è voluta o l’ebbrezza dionisiaca fittizia è forse la follia la condizione di ogni autenticità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di esperienze e di espressioni autentiche anche senza di essa?».

Il libro del giorno: Canti del caos di Antonio Moresco (Mondadori)

Questo romanzo è stato scritto nell'arco di quindici anni e assume la sua forma definitiva soltanto adesso, ora che la terza e ultima parte si aggiunge alle prime due che videro la luce nel 2001 e nel 2003. Del tutto rivisto nelle prime due parti, dunque, e finalmente concluso, "Canti del caos" si presenta in tutta la sua assoluta singolarità. Concepito per non lasciare indifferenti, a costo anche di suscitare reazioni di rifiuto, questo romanzo si accampa come opera incandescente, vertiginosa, un'opera che va a inscriversi immediatamente, di diritto, nel novero di quelle imprese estreme che come grandi massi erratici punteggiano la storia della letteratura. "Canti del caos" si è andato formando nel corso del tempo come un organismo vivente, pieno di violenza ma anche di delicatezza e dolcezza, di oscenità ma anche di trascendenza, di passaggi narrativi incalzanti e di affondi lirici. Nella sua gigantesca macchina realistica e metaforica vengono macinati e trascesi i codici, i generi e gli orizzonti letterari di questa epoca: la fantascienza, il poliziesco, il comico, la pornografia, il fantasy, l'horror, il romanzo d'amore, il saggio scientifico e filosofico, la meditazione religiosa e mistica.

casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html


"Un viaggio visionario e polimorfo, carico di atmosfere stranianti e arroventate"

di Silvia Pingitore

da Il Venerdì di Repubblica n. 1104, p.102

Canti del caos di Moresco Antonio
2009, 1072 p., rilegato, Editore Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

giovedì 14 maggio 2009

La fiera del libro di Torino 09 viene inaugurata da un omicidio ...

Paolo Roversi, scrittore milanese di 34 anni, è considerato da molti scrittori, Massimo Carlotto e Marcello Fois su tutti, l'erede del nuovo panorama noir italiano. Definito dalla critica “lo Scerbanenco postmoderno” in questo racconto inedito, tra sesso estremo e morte, immagina un omicidio durante la Fiera del LIbro di Torino di quest'anno in una torbida storia in cui non faticherete a riconoscere editori, scrittori e scrittrici dalla frusta più facile della penna.


Morte al salone del libro di Paolo Roversi


La voce del caporedattore Beppe Calzolari risuonò roca nell'apparecchio.
“Un collega della pagine letterarie mi ha chiesto se avevo qualcuno disponibile per tamponare un evento al Salone del Libro, e indovina?”
Enrico Radeschi sbuffò. Lui era un mastino della nera, un freelance a cui piaceva l'odore della strada, scovare le notizie in sella alla sua Vespa gialla. Quella richiesta gli suonava quanto mai strana.
“Odio la cultura lo sai?”
“La odiamo tutti: per questo facciamo i giornalisti.”
Calzolari ne sapeva una più del diavolo; ma soprattutto era consapevole che il cronista, pagato a cottimo, non aveva altra scelta se non quella di cedere al ricatto.

Potete continuare a leggere il brano qui:

http://satisfiction.menstyle.it/archive.php?eid=109


fonte (Satisfiction di Gian Paolo Serino)

Giorgio Faletti annuncia l'uscita di "Io sono Dio"



posted on youtube by Baldini e Castoldi Dalai

"Così come Leone inventò gli spaghetti western, Faletti ha inventato gli spaghetti thriller modernizzando in un sol colpo il vetustissimo mondo letterario ed editoriale italiano."

Antonio D'Orrico
- Corriere Magazine, 14/05/2009

Giorgio Faletti annuncia l'uscita di "Io sono Dio", il suo nuovo thriller, in tutte le librerie dal 19 maggio.Per chi è più impaziente, l'autore sarà presente al Salone del Libro di Torino sabato 16 maggio alle ore 20:00 alla sala dei 500. Per chi invece non potrà godersi dal vivo l'incontro, l’ appuntamento è sul sito http://giorgiofaletti.net/io-sono-dio/ a partire dalle 20:00 per la diretta in streaming dell’ evento tra i più succulenti del salone.

Giuse Alemanno, Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta ... (I Libri di Icaro)

Giuse Alemanno ha stoffa da vendere. Sa scrivere e questo lo ha dimostrato non solo nei suoi esordi in Racconti Lupi (1998) per i tipi di Filo editore, poi ancora nel 2001 nella raccolta sempre per la stessa casa editrice di racconti brevi dal titolo Solitari, e non per ultimo con il suo romanzo d’esordio per i tipi di Stampa Alternativa, dal titolo Terra Nera, romanzo perfido e paradossale di cafoni e d’anarchia. Alemanno ha convinto in tutta la sua attività di scrittore, come adesso quando propone alle stampe per i tipi di I Libri di Icaro “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta e del suo fidato servitore Ciccillo”. Da un lato continua a prediligere un codice linguistico nudo e crudo che ben si addice alle latitudini esistenziali che descrive ovvero un’umanità grottesca, sconfitta, privata di un senso della felicità a causa di una dimensione antropologica della quotidianità alienante e stritolante. I colori sono sempre quelli prediletti dall’autore, e cioè tutte le tonalità della terra arsa e crudele del Salentoo di un Sud del Sud del mondo , il rosso del vino e del sangue, il giallo malato di un sole che indistintamente illumina barbare convenzioni, perverse connivenze, dure leggi della seduzione e dell’intrigo amoroso e di potere. Insomma Alemanno ha la capacità di coinvolgere il lettore, offrendogli in bella posa una serie di situazioni e personaggi che rivelano come egli sia in grado di rendere senza troppi fronzoli una realtà ai margini della quale ne conosce ogni singolo dettaglio. Ma Alemanno da un altro punto di vista, è l’autore dell’azzardo linguistico, dove addirittura il sermo vulgaris diviene lingua altra, nuova, a volte completamente inventata, innovativa senza ombra di dubbio; è l’autore che riesce a cantare la bellezza delle donne e dei loro malefici d’amore (vedasi come descrive le donne “a servizio” di Don Fefè da Tecla alla giovane Rosaria sino all’affascinante attrice Lucia), che sa parlare con eleganza dei modi e dei costumi della nobile gente di campagna, neanche fosse il D’Annunzio delle cronache romane; è l’autore che sa parlare con eleganza sopraffina del bon ton e dei suoi mille ricami. Già perché Alemanno è uno scrittore completo, che sa offrire non solo opere gradevoli alla lettura, ma che avrebbe molto da insegnare a numerosi scrittori di dubbie doti letterarie che circolano oggi in più parti d’Italia. Ma veniamo al dunque: Don Felice meglio noto come Don Fefè, nobile di Cipièrnola, incontrastato sovrano di Palazzo Rizzo Torreggiani Cimboli, ricco ereditiero e gran figlio di mignotta, in un Sud chiaramente novecentesco, privo comunque – solo per chi non ha occhi per vedere - di collocazione temporale e geografica, passa le sue giornate tra amplessi fugaci ma intensi con le sue domestiche o con le mogli dei suoi affittuari, ricordi melanconici di lussuosi postriboli parigini, i rocamboleschi e implumi voli da tacchino del suo umile servitore Ciccillo, ruffiano e tuttofare, e dulcis in fundo i malevoli – ahimè – tiri della sorte che pone sulla strada di questo personaggio (che sembra una caricatura del marchese De Sade tutto dedito al sano perseguimento né più né meno dei cazzi suoi), piccoli contrattempi: don Fefè deve misurarsi con la mala locale, con l’aspro desiderio di vendetta di belle e ruspanti donne sempre pronte ad allargare le gambe ma superdotate di occhio fino, e con degli eccessi d’ira, che lo fanno scomporre oltre ogni ragguardevole misura che gli compete per rango e censo. Quello di Alemanno per farla breve è un piccolo gioiellino che si lascia leggere con estrema facilità, ma che rimane nel cuore di chi avrà il buongusto di assaporarlo sino alla fine

Giuse Alemanno, Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta e del suo fidato servitore Ciccillo, I libri di Icaro, pp. 128

Il libro del giorno: Sud. Un viaggio civile e sentimentale di Marcello Veneziani (Mondadori)

Il Sud si sta svuotando di anime, culture e popolazione, tra emigrati e denatalità. Marcelle Veneziani non parte dal Nord e si ferma a Eboli, come Levi col suo Cristo, ma parte dal Sud più estremo e profondo e arriva a Eboli. Risultato del suo viaggio è un rapporto letterario e civile sul Meridione presente e passato che si dipana tra rifiuti e ricordi, tradizioni e degrado, cafonerie e cavallerie rusticane, ragioni e sentimenti, passando per contrade reali e allegoriche. Le località toccate diventano location per ambientare temi e personaggi, scorci e denunce, colore e cultura, malavita e folclore. Rabbiose critiche si alternano ad appassionate difese, partorite entrambe dall'amore per quelle terre. Nelle sue storie e storielle, Veneziani capovolge l'idea crociana di un paradiso abitato da diavoli, e teme invece che il Mezzogiorno stia diventando un inferno abitato da angeli in fuga per salvarsi da soli e non dannarsi insieme. Il suo resoconto assume una varietà di registri narrativi: dalle denunce giornalistiche alle nostalgie, dai ritratti parodistici al saggio storico, fino a lambire un sobrio «matriotti-smo» terrone e comporre una specie di manifesto sudista.

casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html


"Nel suo nuovo libro Sud. Un viaggio civile e sentimentale (Mondadori, 200 pagine, 17,50 euro) Marcello Veneziani, intellettuale disorganico di destra, nonchè pensoso meridionale di Puglia, scrive frasi folgoranti di questo tipo: A prima vista Tonino Di Pietro sembra l'autista di un ministro. Ma poi a sentirlo parlare ti accorgi che loavevi sopravvalutato. Il trattore sembra il mezzo più adeguato per lui per muoversi sui terreni sconnessi della politica italiana"

Andrea Di Consoli
da Il Riformista del 14/05/09 p. 19

Sud. Un viaggio civile e sentimentale di Veneziani Marcello, 2009, 200 p., rilegato
Editore Mondadori (collana Frecce)

mercoledì 13 maggio 2009

“La nuca” (Edizioni Controluce) di Luisa Ruggio. Quando il sangue si fa carta. Rec. di Maria Beatrice Protino

«La nuca di Hyrie era chiara come l’intervallo tra un sogno e un altro»: la parola si fa eros e la nuca diviene sinonimo naturale di mistero, di alchimia, tra scienza e conoscenza, razionalità e sfogo passionale, nota mistica della sensualità. Il racconto è quello di una ragazza - una bellissima adolescente - sospettata di stregoneria in un’epoca in cui questo poteva significare bruciare sul rogo, in una terra immaginaria eppure in tutto simile al richiamo di quella Soleto con la sua magnetica guglia del campanile - nel cuore della Grecìa salentina - che raccoglie ancora le tracce di un filosofo e alchimista che alla Ruggio è piaciuto immaginare come grande pensatore medievale. Hyrie, innamorata delle parole, si traveste da uomo per diventare “allievo” in uno Scriptorium particolare, invaso dall’odore di spezie esotiche. Insieme ai libri e agli inchiostri, la ragazza conoscerà anche il fratello dell’alchimista, un arabo che colleziona nuche femminili alla ricerca di quella perfetta su cui poter scrivere un codice di pura sensualità: «Nei sogni Gherìb andava a darle un bacio, scostandole di poco le cosce. Poi, sentiva la sua mano raggiungerle la nuca. Per tenerla ferma. Nella sbavatura del sonno d’inverno, il suo fiato era solo un miraggio». Attraverso un continuo e intenso germogliare poetico, il romanzo racconta dell’intimità della ricerca della conoscenza e dello sprofondo che a volte può derivarne, dell’abisso, del baratro ma anche della magia che assorbono le forze, la mente. E più se ne ha la consapevolezza e più piace: eppure il loro fascino è così opprimente, è come un Medioevo dell’anima femminile che vuole rinascere, che vuole scoprire e far rifiorire la propria coscienza sino a tornare al corpo e al suo potere seducente: poesia di un viaggio favoloso in un universo femminile che si reinventa dopo la scoperta della libertà. Grazie a un’elevatissima canzone poetica, si coglie quasi il suono delle parole e la passione per la scrittura, si sente «l’odore dei loro piatti» di orzo e lenticchie e del giardino degli aranci, o di quella Soletum dalle stradine lastricate e «paglia, sterco e rivoli moreschi», che canta il suo folle miserere carico di «vendette all’ombra degli altari». Nel suo diario, Hyrie scriverà di desideri che ci dominano come armi: che, come oppio, ci condizionano; scriverà di come la conoscenza sino all’essenza delle cose e di se stessi possa essere vita e morte, euforia e paura, lo scandalo e il suo contrario; di come «i libri siano carne viva», e di come la parola scritta sfidi il tempo, nonostante i suoi carichi di solitudine, quella solitudine che, come scrive la Ruggio, «non terminerà».


La nuca - il secondo romanzo di Luisa Ruggio – è edito da Edizioni Controluce 2008
E sarà presentato all’ "XXII Fiera Internazionale del Libro, Torino" (Torino Lingotto Fiere) presso il padiglione 1, stand C79 - B86

Il libro del giorno: Il cielo rubato. Dossier Renoir di Andrea Camilleri (Skira)

Una donna bella e sfuggente, un notaio di Agrigento che forse nasconde un segreto e il misterioso viaggio a Girgenti del maestro dell'Impressionismo, Pierre-Auguste Renoir, un viaggio che nessuno storico dell'arte ha mai saputo collocare nel tempo. Un epistolario a una sola voce che sale in un crescendo emotivo e si interrompe bruscamente. Un giallo nel giallo brillantemente risolto dall'indagine sul campo di Andrea Camilleri. "Sto scrivendo una cosa nuova e complessa. Un racconto lungo su un viaggio poco noto che Pierre-Auguste Renoir fece ad Agrigento, riferito dal figlio Jean Renoir nella biografia sul padre. Sembra che al papà avessero rubato il portafoglio, che sia stato ospitato dal contadino cui aveva chiesto di fargli da guida, uno che s´offese quando alla fine gli fu offerto un compenso, tanto che la moglie Aline risolse togliendosi una catenina con la Madonna e regalandogliela. Si separarono tra i pianti. Altro non c'è. Ma io scrivo." (Andrea Camilleri)

casa editrice Skira: http://www.skira.net/


"Da un cenno biografico raccontato dal figlio di Renoir, Jean, Camilleri riesce a costruire una struttura narrativa articolata e complessa. E mentre racconta la storia descrive la dimensione intellettuale e psicologica dell'artista"

di Salvo Fallica

da L'Unità del 13/05/09 p. 39


Il cielo rubato. Dossier Renoir di Camilleri Andrea
2009, 96 p., ill., brossura, Editore Skira (collana Art stories)

martedì 12 maggio 2009

Todd Hasak-Lowy a Napoli alla libreria Dante e Descart per presentare Prigionieri (Minimum Fax)

«Un tagliente, farsesco e ambizioso romanzo d’esordio. L’audace commedia psicologica di Hasak-Lowy è seducente, acuta e carica di graffiante umorismo».

Booklist

Daniel Bloom è uno sceneggiatore di successo: scrive film d’azione in cui la violenza delle esplosioni è direttamente proporzionale all’entità degli incassi, vive a Los Angeles in una bella casa con la moglie Caroline e il figlio adolescente Zack. Ma la direzione politica imboccata dal suo paese lo turba in maniera sempre più pressante, e comincia a intestardirsi su un progetto scomodo: la storia di un serial killer intento a decimare i capi delle multinazionali e gli spregiudicati uomini politici che tengono in pugno le sorti del pianeta, e di un poliziotto che, pur avendone la possibilità, non si sente in diritto di fermarlo. Nel frattempo il matrimonio con Caroline comincia a traballare, e l’imminente bar mitzvah di Zack lo porta a riconsiderare la propria identità religiosa: riuscirà Daniel a destreggiarsi fra il suo agente nevrotico e un rabbino lisergico, un finanziatore dai metodi spicci e un viaggio in Israele alla ricerca di un'illuminazione?
Dalla penna virtuosistica di un nuovo talento della letteratura americana, un ritratto esilarante e senza compromessi delle nevrosi e delle ossessioni della nostra contemporaneità.


mercoledì 20 maggio 2009 alle 18.00 presso la libreria Dante & Descartes di via Mezzocannone a Napoli, Todd Hasak-Lowy incontrerà i lettori per presentare Prigionieri

Con l'autore interverranno Martina Testa e Francesco Pacifico

Il giorno prima della felicità di Erri De Luca (Feltirnelli). Rec. di Vito Antonio Conte

“Ora scrivo le pagine sul quaderno a righe mentre la nave punta all'altro capo del mondo. Intorno si muove o sta fermo l'oceano. Dicono che stanotte passiamo l'equatore”. Tanto del molto che ha pubblicato Erri De Luca ho letto. Ne ho scritto già in un pezzo dello scorso anno per un quotidiano del Salento. Non mi ripeterò. Ché replicare, come ho diffusamente lasciare trasparire, non mi è mai piaciuto. In questa domenica in cui il sole si mischia a pioggerella sottile e gelata, a un ciclamino rosso d'amore, alle note de “I Giorni” di Ludovico Einaudi, alla rilettura di un post (commenti inclusi) su un blog di quasi un anno addietro, lascio l'ultima pagina dell'ultimo libro di De Luca per il meriggio (che ancora meriggio non è nonostante i mandorli già biancheggianti di nuovo), dopo un'ottima spigola al sale pasteggiata con un buon vino. Lo faccio apposta, ché -lo so- sarà dolce la fine di questo libro. Dolce come un dessert alla fine di un pasto frugale essenziale e giusto. “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli, € 13,00) è l'ennesima scrittura di Erri De Luca, un romanzo breve di cui non può dirsi ch'è un racconto lungo, una narrazione di una vita lungo più vite, attraverso più epoche, toccando luoghi e storie, penetrando il segreto di più uomini, disvelando le storie che piacciono a me, quelle minime e straordinarie mai scritte nei libri di storia, lasciando misteri appena accennati pronti a schiudersi in altre scritture, mescolando pensieri e fatti pienamente vissuti e soltanto sfiorati. Un capolavoro! L'incipit lascia spazio alla casualità: “Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone” e il caso è padrone assoluto del seguito: tutto accade (apparentemente) perché qualcos'altro che non appartiene a chi vive quel momento è accaduto o non si è verificato. E, come sempre, una scelta di fare o non fare, s'inserisce pienamente nel disegno che qualcuno che non abita questa terra ha tratteggiato. L'ultima volta che ho scritto di un libro (“I Bruchi” di Giovanni Bernardini), ho scritto di guerra, di fascismo e... d'ignoranza (ché in quel libro anche di ciò si narrava). Questo libro (e, se volete, è un altro caso) tocca (in maniera totalmente diversa) gli stessi argomenti: la seconda guerra mondiale, il nazismo, la liberazione di Napoli a opera dei napoletani (“Quando spuntano sei persone, tutte in una volta, allora si vince”), prima ancora degli americani... E l'amore: il primo, l'unico, quello per cui vale la pena dare il proprio sangue, per scatenare il pianto, ché soltanto le lacrime possono liberare dalla pazzia. È la storia di un bambino (cui De Luca affida l'Io narrante), nato senza genitori, che cresce durante la guerra, che impara il mondo dal mondo di Don Gaetano e dai libri usati di Don Raimondo, che diventa uomo quando incontra la natura che l'aiuta a scoprire la sua natura. Che s'innamora di una bambina che vede attraverso i vetri di una finestra e che poi ritroverà da maggiorenne; meglio: dalla quale verrà ritrovato e che gli chiederà (senza parlare) il sangue dopo aver donato a lui il suo sangue, quello del primo amore, in un patto che sarà spezzato soltanto dal coltello che reciderà un'altra vita e, con essa, ogni legàme con un passato di tristezze infinite e cieli senz'altro colore che non fosse quello degli scantinati dove ripararsi dai bombardamenti e dall'idiozia dell'ignoranza (una volta ancora!) che sempre ha messo e continua a mettere l'uomo contro l'uomo. La guerra: quel respirare a fatica dove ogni regola è capovolta, dove la natura è capovolta, dove qualunque dio è buono per essere pregato o bestemmiato, quasi come quando guerra non c'è... “Insieme al buono cresceva il peggio. Una brava persona si metteva a prestare a usura, una ragazza di buona famiglia si metteva a fare la puttana per i tedeschi. Uno che aveva il titolo di guappo era il primo a scappare al ricovero. I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone. Chi teneva qualcosa mangiava di nascosto. I tedeschi fecero una sceneggiata: forzarono un negozio, poi invitarono la gente a saccheggiarlo. Sulla folla che si era buttata a prendere la roba spararono in aria e ripresero la scena dentro una pellicola. Serviva alla loro propaganda: il soldato tedesco interviene a impedire il saccheggio. Sono fatti successi, guagliò, proprio in una di queste belle giornate di settembre”. Poi, in ogni guerra, c'è chi vince e c'è chi perde. E non sempre la vittoria è dei giusti. Chi faceva la puttana per i tedeschi, ha continuato a farla per gli americani. E non parlo solo di femmine (se metafora vuole). Non sempre vince la libertà. E cosa dire di tutti quelli che nella stessa guerra sono stati dalla parte dei tedeschi e dei fascisti e quando per loro stava per finire male sono passati dalla parte degli americani? Non lo so? Meglio: lo so, ma non riesco, non riesco proprio a dare giudizi. Specialmente su qualcosa che non ho vissuto. Troppo facile dire a posteriori qualunque cosa. Troppo facile parlare... Oggi tutti parlano, c'è libertà d'espressione (grazie a dio!). Difficile è dire e fare quando non c'è libertà. C'è che la libertà, anche quando è dato acquisito (in particolare quando è costata la pelle a altri), bisogna rispettarla ogni giorno, per ri-conquistarla. E la libertà diventa niente se niente hai fatto per meritarla. “La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”. Già, la felicità... “il più speciale dolore, una fitta agli occhi e uno squaglio di cioccolata in bocca”. Ho avuto paura di dire la mia felicità. Ho cercato di farlo. Ho reso cenni della sua grandiosità. Questo ho fatto. Il miracolo è cosa rara. Raccontare è ripetere il miracolo. Il miracolo s'è ripetuto. La paura continua a abitare in me ogni volta che la grazia mi tocca e mi chiedo: la felicità è cosa da dire? “Sì e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. Riporto frasi e mi accorgo che, mai come “Il giorno prima della felicità”, questo libro sarebbe da trascrivere tutt'intero, ché ogni pagina contiene dei righi, un dialogo, un pensiero, qualcosa, almeno una parola che può spiegare un senso, piegare un dolore, dare una ragione, dire di un errore, farti toccare un sogno, cullare una speranza, annegare in un ricordo, salvarti da una deriva... per questo (e per molto altro) ho parlato di capolavoro, ma soprattutto perché si vede che De Luca è riuscito a penetrare nella formula (magari tradotta dall'aramaico e combinata con le esistenze che ha saputo ascoltare, vedendole poi attraverso la sua, intanto che su qualche vetta alpina la neve ha dato quel nitore alle cose, felicità compresa, che pochi sentono e vedono, rendendole uniche e irripetibili) che fa di uno scrittore uno scrittore immortale: quella formula che generosamente svela (ché tra conoscere e vivere ci passa l'Orient Express), regalandocela: “Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. E quel che c'è oltre si può soltanto intuire, ché risiede al di là del limite visibile tra l'azzurro abbacinante del cielo e la vastità sconvolgente del deserto. Puoi fare unicamente una cosa per avvinarlo: muoverti lentamente coltivando pazienza. Con ogni mezzo, meglio se a piedi, ma che viaggio sia. E, prima o poi, affrontare quello vero. “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Questo libro è un viaggio senza fine: sai dove comincia, le tappe sono scritte da qualche parte, a un certo punto arriverà la felicità, forse lo capirai il giorno prima sì da poterla accogliere, ma la fine non dipende da te. “Dicono che stanotte passiamo l'equatore”.

Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli


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Il libro del giorno: Il paradosso dei sessi. Uomini, donne e il vero scarto fra i generi di Susan Pinker (Einaudi)

Se il successo nel lavoro rispecchiasse quello scolastico, le donne oggi governerebbero il mondo. Perché spesso avviene il contrario? In questo volume Susan Pinker risponde ribaltando alcune delle nostre più ferme convinzioni, in particolare che donne e uomini siano equivalenti dal punto di vista biologico e che abbiano gli stessi obiettivi di vita. Che cosa vogliono le donne e perché lo vogliono? Che senso ha imporre alle donne un modello lavorativo maschile? Perché la parità non c'è ancora? Per Susan Pinker all'origine della differenza c'è uno scarto biologico che favorisce inclinazioni e atteggiamenti distinti. Soltanto accettando questa divergenza fondamentale si potrà realizzare un'organizzazione del lavoro in cui le diverse attitudini siano rispettate e valorizzate. Un saggio controverso che mira a gettare nuova luce sulle differenze tra uomo e donna, e offre spunti inediti per riaprire il dibattito.



casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp

"(...) conoscere e riconoscere le differenze tra i sessi non è un passo indietro, ma due in avanti"

Massimo Barberi

da Mente e Cervello n.53, p. 105

Il paradosso dei sessi. Uomini, donne e il vero scarto fra i generi di Pinker Susan
2009, 398 p., brossura Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero extra)

lunedì 11 maggio 2009

La settima stella di Maria Pia Romano (Besa editrice). Rec. di Silla Hicks

Ciao, Pia.
Non lo userò, il tuo nome intero, che ti appesantisce, mentre tu invece sei leggera. Non fisicamente, intendo: o, piuttosto, questo io non lo so, solo ti immagino, le guance paffute, ancora incerta sulla soglia dell’adolescenza.
E’ dentro, che sei lieve.
Acqua nell’acqua, eterea solo come chi è molto giovane può ancora essere quando vorrebbe a tutti i costi le rughe di una vita intera per sentirsi subito grande. Piccola, spaesata in un mondo che vorrebbe collocarti da qualche parte, mentre tu cerchi, ancora, te. Siddartha di provincia, e femmina, per giunta. Dio lo sa, se è (stata) dura.
E, a dispetto di quanti anni tu abbia ora, è questo che sei ancora, dentro, o che eri, mentre scrivevi. Il resto - il curriculum, il voto di laurea, il colore degli occhi o dei capelli - non è cosa che possa mai trasparire attraverso le parole e sinceramente non credo nemmeno importi, se Marguerite Yourcenar, una vecchia signora, è diventata il giovanetto Adriano: uno che scrive s’inventa anche se stesso, o semplicemente scrivendo diventa quello che è.
Così, ho letto ogni riga, Pia, e mi perdonerai, adesso, per quello che ti dirò, e ti farà arrabbiare.
Ma io quello che tu immagini l’ho visto, tutto, inclusi gli occhi sbarrati dell’amore. Ne ho respirato l’odore di sangue e di cancrena. Io sono diventato grande. Tu, ancora, fortunatamente – per te, certo, ma anche per chi può leggerti – ancora no. Per questo la tua acqua è così limpida, un mare calmo mentre piove piano.
E tu ci nuoti come hai imparato – da sola, è da credere, anche se ci tieni tanto a citare versi e canzoni – senza accorgerti che può inghiottirti, con l’incoscienza degli anni migliori, dell’inesperienza che sa di fiori e sigarette fumate di nascosto nel bagno del liceo.
Sicuramente avevi bei voti, e ti piaceva studiare: ma, sai, non c’è libro in cui ci siano le risposte, e il dolore che senti nella musica è qualcosa che difficilmente ti porta da qualche parte: piuttosto, ti aiuta a smarrirti, dentro te.
Sono i giorni ad insegnarti la strada , e ti lasciano sulla pelle tagli che non sai guarire, e che altri giorni cicatrizzano in cheloidi slabbrati e bruni. È sempre così, fino alla fine.
Potrei dirti che è bello, che tu legga – miracolo, Anais Nin – e scriva: che tu sia capace di cesellare le parole, e scovare riferimenti che dipanano fili attraverso labirinti, seminando echi.
Invece, no.
Non è vero, non è questo che conta, non è questo che mi rimane, adesso, che ho chiuso il tuo libro.
Non è questo che ti serve, Pia.
Non ti serve limare ogni riga, né trovare metafore, né fingerti grande.
Adesso sì, ti arrabbierai. Quello che ti serve è vivere. Toglierti la maschera di donna vissuta e lasciare da parte echi volutamente torbidi, che fortunatamente non ti appartengono, e sottolineo il fortunatamente, perché nessuno – e nemmeno te – capisce che la vera trasgressione è essere felici, almeno finché non s’accorge che non potrà più esserlo davvero, a vita.
Non voltare le spalle, non rimanere in ombra, guardami dritto negli occhi. Guarda questa spiaggia, questi scogli, questo sole. Il resto verrà da solo, anche la notte.
E quando succederà, e dovrai abituarti al buio, al freddo, lo farai, perché è il destino umano. Ma resta al sole, finché c’è.
L’amore non è liquido, Pia. Non è il mare. È oceano denso e nero, e parlarne significa essere superstiti della tempesta. Non si può fare, essendosi appena bagnati i piedi. Sotto il livello del mare non c’è il Nautilus, Pia. C’è Cthulhu. Vorrei che tu non lo scoprissi mai.
E trova le parole non nello zaino con cui andavi al Palmieri, ma per strada, non aver paura di chiamare le cose con il loro nome.
Di urlarle, se necessario.
Non so cos’è, la poesia, io: non so contare le sillabe né fare giochi con le rime né so come si chiamano i versi, non sono un poeta né uno scrittore, sono solo uno che scrive per non strozzarsi .
Ma so che quando lasci che quello che sei e senti davvero venga fuori scrivi cose che mi attraversano, perché sono il tuo occhio – nudo – sul mondo.
Il cavaliere che si strucca quando lo spettacolo al circo è finito dimostra che sai vedere.
Ed è quando vedi che – come direbbero i tuoi amici su facebook – le tue parole arrivano.
Anzi di più: colpiscono. Le parole sono pietre. Si scagliano, Pia. E feriscono, anche. A un tempo la mano che le getta e il bersaglio.
Lo sa Roth, forse oggi l’unico capace di usarle per davvero.
Roth, che non evoca, ma dà a ogni cosa un nome.
La sovrastruttura, i titoli di studio, i complimenti, i premi, sono polvere.
Quello che resta, sono le persone, quelle che indovineranno la tua faccia, attraverso le tue righe, e si scopriranno a ridere e piangere e parlarti, riconoscendosi nelle tue risate e nelle tue lacrime, che tu abbraccerai e che ti abbracceranno, lungo questo filo posto rasoterra che non si può percorrere ma in cui si può solo inciampare che Kafka dice sia la vita.
Tutti quelli che senza averti conosciuto ti avranno guardato, per quello che sei davvero, e ti vedranno, così, senza occhi bistrati né altri orpelli, e pazienza se non sembrerai abbastanza grande.
Attraverso l’acqua, nella quale sarai sempre come adesso, leggera, trasparente, la luce che ti attraversa, anche se volgi le spalle e ti rifuggi nell’ombra.
Come ti ho visto io.
Una ragazzina che vorrebbe essere Anais Nin, e non sa che è molto più bella e conturbante – questa parola ti piacerà, lo so, e la scrivo apposta, perché meriti un regalo - così, con quello sguardo e quel sorriso e quegli occhi che si riempiono di lacrime e domande che non avrà mai più uguali, in vita sua.
Avrai tempo per diventare una Strega. O qualsiasi altra cosa che tu voglia, e non sai ancora.
Ma mai più potrai essere così come in questo momento che mi guardi.
Insostenibile leggerezza di orizzonte.
Acqua nell’acqua.
Anzi, persino di più. Acqua di primavera.


ACQUA DI PRIMAVERA ovvero
LA SETTIMA STELLA (MISCUGLIO DI SEME DI SESAMO E RISO)
MARIA PIA ROMANO, 2008 BESA, NARDO’ (LE)

Il libro del giorno: Il 18° vampiro di Claudio Vergnani (Gargoyle Books)

"...sbarco il lunario uccidendo vampiri. Non è un compito difficile, ed è sempre meglio che lavorare. lo e i miei compagni li distruggiamo durante il giorno, mentre dormono il loro sonno di morte, nascosti nei loro miserabili covi. Non possono reagire. Un paio di colpi di mazzuolo ed è fatta. Forse non è il mestiere più bello del mondo, ma è facile e socialmente utile. Non occorrono coraggio o particolare determinazione. Non serve essere animati dal sacro fuoco della giustizia. Serve solo un po' di pratica e tanta disperazione. Per certi versi è come la disinfestazione di topi o insetti: fai quello che devi fare, sopportando il disgusto, e poi te ne torni a casa. Sempre che non si finisca per esagerare, per passare la misura. Il problema è che non sapevo che esistesse un confine. L'ho saputo solo dopo averlo oltrepassato. E, a quel punto, tornare indietro non era più possibile..."

casa editrice Gargoyle Books: http://www.gargoylebooks.it/

"Questo romanzone si legge d'un fiato perchè i suoi vampiri sono con noi, e anzi siamo un pò noi, come dice Dario Maria Gulli nella bella introduzione, quasi un manualetto letterario di vampirologia"

Filippo La Porta


da XL di Repubblica n.45 (maggio 09), p. 183

Il diciottesimo vampiro di Vergnani Claudio
2009, 544 p., brossura
Editore Gargoyle

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