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mercoledì 7 novembre 2007

Spot book n.2


comunicato stampa

“TANA PER LA BAMBINA CON I CAPELLI A OMBRELLONE”
Un aspro romanzo di formazione
per capire come si è arrivati agli anni ottanta

Questa è la storia di una ragazzina affamata d’amore e d’accettazione in una famiglia romana troppo numerosa e caotica per saziarla. È la storia di una generazione ibrida e rimossa: quella di chi era troppo giovane per il ’77 e troppo vecchio per gli anni Ottanta. È la storia di una Bambina con i Capelli a Ombrellone cresciuta a cavallo dei due decenni, inciampando nelle spine più aguzze della vita: le molestie dei fratelli, la malattia e la morte della madre, l’indifferenza del padre. È la storia di un’Italia prima insanguinata e impaurita, poi d’improvviso futile e leggera.
“Tana” è uno di quei rari romanzi di formazione in cui la storia con la “s” minuscola – che come la protagonista si appiccica, seduce e non molla – riesce a intercettare la Storia con la “s” maiuscola, a farsene bandiera. In cui il privato è “politico” nel senso più ampio del termine. Il monologo interiore che l’autrice Monica Viola ci regala – con una prosa potente, aspra e originale – rivela le fragilità di un’adolescente vissuta sentendosi marginale in un contesto di angoscia collettiva: ripercorriamo nei suoi flash sgomenti gli anni delle stragi e degli omicidi “politici”, Bologna e Moro, Serpico e i gambizzati, le mille “paranoie collettive”. E, allo stesso tempo, sbandiamo con i suoi sbandamenti: gli errori, le bugie, il sesso inutile e pieno di odio, il pochissimo amore, le amicizie, le perdite dolorose. Con una colonna sonora che, da sola, batte il tempo del romanzo, dai Pink Floyd ai Gong di Daevid Allen e Steve Hillage, da Guccini a De Gregori, dagli Chic alla Sugarhill Gang, dai Genesis agli Earth Wind & Fire, da David Bowie ai Genesis, fino a Madonna e ai Duran Duran, icone pop di un decennio pop, per concludersi con il lirismo degli Smiths.
Non c’è nulla di buonista: la Bambina diventa donna e rifonda la sua vitalità, ma a caro prezzo. Il messaggio è scabro e concreto: si può sopravvivere. Nessun eroismo, se non quello della sopravvivenza.
Dice bene Lidia Ravera nella quarta di copertina: “La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen”.
Dice bene l’autrice: “Questa storia vuole anche essere – con poche pretese – la cronaca di una generazione senza identità: troppo giovane per il ’77 e troppo vecchia per gli anni 80. Generazione ibrida che ha fatto da ponte tra due estremi, sotto l’ombra lurida degli anni di piombo e delle stragi di Stato. Una generazione rimossa di cui non parla mai nessuno, assente anche dall’immaginario cinematografico. E però eravamo tanti, scuole con le sezioni fino alla lettera 'T'. Dove siete, tutti?”.

quarta di copertina

“La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen.” [Lidia Ravera]


Roma, anni Settanta. Epoca di passioni politiche che infiammano, di attentati ed esecuzioni a insanguinare le strade, di giorni intrisi di una tremenda, capillare angoscia collettiva. Fino al sopraggiungere degli anni Ottanta, futili e liberatori, carichi di voglia di leggerezza e di evasione, di musiche di tendenza, di mode irrinunciabili.

A cavallo dei due decenni, la storia interiore di un’infanzia e adolescenza, il racconto di una bambina che, passando attraverso esperienze dolorose e destabilizzanti - ma senza mai rinunciare a rincorrere la felicità -, infine diventa donna.

Cresciuta in una famiglia numerosa, caotica e vecchia maniera, con un padre autoritario, una madre dolcissima, sorelle, fratelli e una nonna rinchiusa nel suo passato di sogno, la Bambina con i Capelli a Ombrellone inciampa nella vita e nelle sue spine più aguzze, subisce lacerazioni traumatiche (le molestie sessuali di due dei fratelli più grandi, la grave malattia della madre), sbanda - ma si reinventa con nuova, sorprendente, trascinante vitalità.

Affronta la scuola con i suoi piccoli grandi insuccessi, le difficoltà degli amori e l’ambiguità del sesso, sa riconoscere la vera amicizia (anche se non sempre sa rispettarla), ma si adegua alle compagnie più diverse, sempre alla ricerca di un po’ di attenzione, di un po’ di affetto, spinta da quella voglia urgente dell’adolescenza di piacere e conquistare e con la necessità profonda e sommersa di un inconsapevole, istintivo costruirsi. Sostenuto però da una grande risorsa: la capacità di cercare negli altri il miracolo dell’accettazione nonostante tutte le proprie traballanti insicurezze, quel miracolo che, unico, potrà aiutarla a “ricucirsi”.

Un romanzo a forma di lungo monologo interiore, che alterna brani di narratività accattivante a momenti di autentico lirismo. Una prosa attenta, scrupolosa, dallo stile sintetico e pregnante e dal linguaggio intensamente evocativo: parole dense e vere per raccontare una storia che, come la protagonista, si appiccica, seduce, non molla.

Monica Viola è nata a Roma l’anno in cui nasceva il beat. Ci abita ancora, infelicemente impiegata. Questo è il suo esordio narrativo.

Tre ragioni per NON leggere questo romanzo:
1. ami la letteratura “minimum fax”
2. odi i memoir
3. in un romanzo cerchi una narrazione compiuta con una storia e un finale, magari inaspettato.
mv

fonte iconografica e comunicato stampa tratti da www.monicaviola.it

martedì 6 novembre 2007

Ciao Enzo

Il mondo dell'informazione viene lasciato oggi orfano di una figura non solo di grande spessore e professionalità, ma di grande umanità. Sì perchè Enzo Biagi, ha rappresentato, come un altro grande del giornalismo italiano, faccio riferimento a Indro Montanelli, un esempio per una professione che ormai tende sempre più alla standardizzazione e alla formattazione automatica della notizia. Enzo Biagi, se ne va così, in silenzio, con grande signorilità, una qualità che lo ha contraddistinto sempre in ogni occasione. Se ne va un pezzo della nostra storia!

fonte iconografica da www.ilmolinello.it

martedì 30 ottobre 2007

Guido Ceronetti, La lanterna del filosofo.













Lungo le vie della città, quelle che disegnano lo spazio delle relazioni urbane, seguendo precise meccaniche configurazionali di molteplici flussi informativi fantasma che raccolgono, inghiottendole, storie che puoi più che altro immaginare, ti ritrovi a osservare per pochi istanti, frazioni di secondo forse, particolari che solo con una discreta dose di attenzione non perdi per strada. E così ti collochi all’improvviso nella condizione ideale di essere raccontato da una ruga, uno sbatter di ciglia, uno sguardo intenso schiacciato sotto le macerie di un cielo estivo. Affannarsi a comprendere che cos’è che non va nel mondo, qual è il veleno che circola nelle vene di tutti tanto da scolorirne la pelle, da far perder la gioia di afferrare una mano come segno di partecipata con-presenza, di aprirsi a un sorriso, ad un incauto donarsi nei potenzialmente sconfinati perimetri di uno spazio esistenziale che si apre sull’orizzonte della fiducia nel prossimo, giocare il tutto per tutto prima di scegliere i sentieri impervi, difficili, oscuri, dell’Ombra, sentirsi obbligati, non come infervorati da un dogma di fede ma da un trovare necessario l’essere e il divenire nella storia di ogni giorno agente morale, a reperire quel coraggio necessario nell’affrontare il delicato compito di gestione della massa critica dell’Indifferenza, insomma tentare di
avvicinarsi al nocciolo della questione continuando a porsi degli interrogativi, e compito più difficile, tentando di risolverli. Non quelli sclerotizzatti e museificati del chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando, giusto per non correre il rischio di divenire protagonisti grotteschi di una mediocre rappresentazione teatrale della vita che ci consuma istante dopo istante, giorno dopo giorno e per di più (oltre il danno la beffa!) di pessimo livello e gusto. E di consunzione parliamo, ogni qualvolta ci guardiamo allo specchio! Certo, dobbiamo pure in qualche modo sopravvivere, qualcuno il pane deve portarlo in tavola! E come se non con il sudore della fronte, e come se non rinunciando a passare più tempo con i propri figli, (l’aumento delle ore lavorative giornaliere ha disintegrato la possibilità del dialogo all’interno del micro-sistema familiare, dando spazio ad un nuovo corso nella storia della pedagogia che ha trovato più efficaci strumenti educativi e di costrizione psico-fisica per l’infanzia, nella figura imponente del Silenzio ludico iper-teconologico : Microsoft, Sony, Nintendo) o facendo a meno di leggere un buon libro, o di gustare un tramonto, o una cena romantica in due, o ascoltando della musica facendosi rapire dalle folli traiettorie direzionali delle note, emozionalmente consustanziali alla nostra sensibilità, o ancora semplicemente rinunciando a parlarsi, a fermarsi, a rispondersi. Possiamo dircelo francamente, senza tirare in ballo Foucault e la sua sintassi analitica e pratica circa i modi del Potere di incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, assoggettandone i corpi, e prosciugandoli delle loro forze (vedi Sorvegliare e Punire)! Luther Blissett prima e Wu Ming poi ad esempio in letteratura (solo in essa?) con il riflettere sulla categoria del condividuo hanno aperto una breccia nel sistema di controllo sociale, la prima fase di un progetto di gioia e libertà ancora più ampio e tuttora in progress, proprio a partire dal corpo e da tutto ciò che ad esso attiene rizomaticamente (la riconoscibilità identitaria come strumento di controllo e repressione consegnato nelle mani del Grande Fratello o del Pizzardone Astratto come lo si voglia definire!). In verità, in tanti, tantissimi sono a corto di energie, e presto moriranno dissanguati. L’aspetto fondamentale di tutto un apparato comunitario gestito e fondato su ideali da porcile, è che ha fatto in modo di far cadere nei sottoscala dell’esistenza, l’attaccamento alla vita, alla paura, all’orrore degli sbagli, all’insulto, al crimine, al dissenso, all’impegno, al disimpegno. In una parola non ci facciamo più domande, perché non siamo in grado di reggere la devastante deflagrazione di un ordigno paragonabile solo per gli effetti, ad un’arma di distruzione di massa che corrisponde a un solo nome: Verità! Chi si assume l’onere di intraprendere il viaggio alla Sua ricerca, dovrà essere dotato di così tanto amore per la conoscenza, da avere non solo un endoscheletro in adamianto, ma la possibilità di trasformare la sua superficie dermica in acciaio organico. Ed ecco perché non poteva sfuggire, come bussola in questo contemporaneo regno del caos, il libro di Guido Cernetti, La lanterna del filosofo, pubblicato da Adelphi, che negli ultimi trent’anni ha pubblicato alcuni dei libri più importanti di quest’autore, nonché tutte le sue versioni dei libri biblici e molte traduzioni poetiche, fra cui nel 2004, un volumetto di poesie di Costantino Kavafis, Un’ombra fuggitiva di piacere. Ceronetti apre quest’opera, (che raccoglie tra le altre suggestioni interventi dagli anni ’70 agli anni ’90, tra scritti critici e saggi prefattivi) con un “Ricordaci, Filosofia”, invito esplicito ad un gioco variabile di risorgimenti epigonali, prologo per la Costruzione del Nuovo Soggetto in viaggio a pag. 13 e 14 : “ Ora che il mondo dei non-viventi e dei male-viventi, in un delirio di conoscenze e di onniscienza inseparabili dalla sua condanna alla polvere e all’espiazione ti ha espulsa, buttata fuori dalla casa della coscienza e ti ha costretta a rifugiarti non si sa dove, in luoghi rivelati, perché determinato ad adorare e a servire soltanto degli idoli che hanno radici tra oscuri dannati – ricordaci, filosofia”. Quest’amore per il sapere nel corso del suo dispiegarsi storico, che tanti lutti addusse a noi comuni mortali, talvolta ha infervorato anime, cuori e intelletti di innumerevoli fanatici del pensiero, grandi assassini della ricerca speculativa che hanno sentito il crimine teoretico come pura Necessità, per tanta forza di pensiero. E in carrelata, scopriamo gli scheletri nell’armadio di uno Spinoza, l’assassino par excellence della libertà umana, tanto è perfetto more geometrico il regno di Dio in terra; o la suprema volontà di malattia di quel vampiro di Schopenahuer disposto a non propagare il proprio seme nel futuro della sua discendenza, proprio perché ineluttabilmente sentiva l’intima predisposizione a succhiare il sangue come azione catartica e narcotica alla sua incapacità di stare dritto sulla schiena; e perché no, dulcis in fundo, ci mettiamo in mezzo anche Lutero, un S. Francesco dai titillamenti demoniaci, prodigo e amorevole verso quelle creature di Satana, come i poveri licantropi (Lutero e il lupo, pag. 128). La storia del pensiero come gigantesco contenitore fognario ripieno di merda! E dopo tante illusioni, dopo aver vissuto per tanti anni incatenati in una caverna, avendo pagato, il biglietto per questo immondo teatrino delle ombre, dopo tanti anni passati a dire il rosario davanti al falò della Vanagloria e dell’Autocommiserazione, potrebbe pur uscire un motto di stizza, un rimbrotto senza alcuna traccia di acrimonia, certo, per questa sfigata razza umana, proprio come Goya quando commentava il suo 58° Capricho: “ Chi viva tra gli uomini sarà fottuto irrimediabilmente; se vuole evitarlo dovrà andarsene ad abitare sui monti e anche quando sarà, là conoscerà che il vivere è solo una fottitura” (pag.48). Ma come è possibile allora trovare il proprio centro, quella calma piatta nell’occhio del ciclone, se neanche nell’impero della Filosofia, dove nugoli di arpie si agitano tra i buoni propositi della collettività, regna la quiete? Potrebbe allora, ci dice sottovoce Ceronetti, venirci in aiuto la Poesia, con quel suo fare incantatore, così letale nell’illudere (altro che velo di Maya), nel promettere paradisi fiscali sui sensi di colpa di tanti poeti e poetesse che con la loro testa cinta di alloro e la cetra, lucidano piuttosto lapidi e celebrano altri poeti oramai scomparsi, preparandogli l’altarino, dal momento che più a fondo stanno scavando, mai stanchi, grandi fosse comuni della Memoria. No! Nemmeno la Poesia, può assurgere al ruolo di machine de guerre contro le forze del Male. “ Perché non valgono niente, i poeti, più niente? La malattia è profonda, viene di lontano. Non è soltanto il loro numero insensato: fossero anche tre o quattro in tutto, che cosa cambierebbe nel Disvalore? Neanche la lingua c’entra molto: la spossata vacca Italia ha i capezzoli della lingua morti; mungiamo artificialmente; parole fumano da uno schermo; scambi di rimozioni di ogni vero, i nostri dialoghi: « Oh come stai?». « Ti vedo bene sai?». « Mi separo da mia moglie».” “ La poca umanità degli autori non è il solo responsabile. A volte, di umanità ce n’è, e anche molta; è il bavaglio occulto che è insormontabile. Ci vorrebbe dell’urlo – ma che urlo! Non sarebbe neppure più poesia … No, neanche l’urlo sfugge al bavaglio … Eppure avremmo bisogno di sentire, attraverso la città, l’urlo di qualcuno che interpretasse le pene di tutti, invece che i clacson inferociti e le sirene della forza e del soccorso materiale” (pgg. 55 – 57,58). E non può che essere questa la malattia succhiasangue, la stessa ammorbante l’intero genere umano: il mercato, quello delle grandi corporation, della pubblicità, la macchina macina neuroni del merchandising, a ogni costo, senza se e senza ma, del possesso senza limiti e decoro, del feticismo delle lamiere cromate e dei motori potenti!
“ L’economia rateale riesce a collocare il demente al suo posto di lotta prima che abbia messo da parte il denaro per conquistarselo. Pagando una sola rata, qualunque tristissimo prodotto uterino entra legalmente in possesso di un involucro omicida che può lanciare dove vuole, contro chi capita; adoperare come feritoia o catapulta, spavento di deboli, deposito di droga o di fucili, letto da stupro. Ogni macchina senza occupanti può significare una trappola di superiore efficacia: riempita di esplosivo col congegno a tempo, all’angolo di una strada, davanti a un caffè, a un teatro, a un grande emporio, aspetta l’ora migliore, in cui la folla è più fitta, per far vedere di che cosa è capace l’idealismo umano” (pag.66). Non sfugge il riferimento colto alla filosofia del feticismo da carrozzeria di Ballard e il suo Crash. Ma allora non c’è proprio niente da fare! Dobbiamo aspettare immobili la fine del mondo o la guerra dei mondi che verrà, forse sentiamo come necessaria nella circolazione oceanica della Storia, quella Terza Guerra Mondiale che si combatterà con le clave come diceva Einstein? La premonizione, perché di premonizione e non riflessione si tratta (vissuta in stato di trance) quando Hobbes, sentiva vicino, secondo i tempi della teologia cristiana un semplice sbatter d’ali, l’inverarsi del Leviatano, del Super Stato-Corpo … il mondo delle multinazionali odierno nello star system del mercato spettacolare a ragione può chiamarsi Leviatano! Dovremmo forse passare intere giornate a flagellarci, recitando a cantilena i passi dell’Apocalisse di Giovanni? Ad una prima lettura di questo volume di Ceronetti, ci si sente un po’ preda di certi malumori, sgocciolamenti psicotici inevitabili per chi vive o cerca di vivere oggi, e alla fine quasi vorresti farti venire un sorriso sardonico alla Stirner, perché hai scovato la tana di un nichilista della porta accanto, di quelli peggiori, quelli che hanno nel DNA il distruggere per distruggere. Ma non sarebbe onesto, soprattutto perché Ceronetti consegna nelle mani del lettore non solo una particolarissima lucidità dolorosa di uno sguardo che coglie fino in fondo l’insensatezza e il ciarpame del quotidiano, ma anche una indiscutibile ricetta di lotta, non antidoto perché ci potrebbero sempre essere degli effetti collaterali indesiderati, e per essere ancora più obiettivi un kit di sopravvivenza, quando scrive: “Il tango, il tango, il tango, ci dà la certezza che la coppia umana esclusivamente di amanti ( di amanti senza ombra di famiglia) è iscritta nell’esistenza, che il suo modello ideale pre-esiste a tutto e che su questa terra tale Idea si è fatta, tra abissi di solitudine e di dolore, carne-carne che canta, singhiozza e vola. Come uomo solitario sei fango, ma coppia sei tango” (pag.121). Ed anche se per qualcuno può non essere tango, ma jazz, blues, heavy metal, l’invito all’ascolto, o al saper ascoltare l’altro, è manifesto, chiaro, cristallino, perché dal recupero della capacità di ascolto a partire da una coppia, per poi ad arrivare alla comunità di un paese, di una città, di una metropoli, di una nazione, di un continente, parlare e saper ascoltare insieme, riflettere, sentirsi partecipi di un momento orizzontale di costruzione della democrazia (ce n’è poca in giro) in cui i disagi della vecchietta che vive accanto a me, non mi riguardano! Maledetto imperativo categorico del Dividi e Comanda! Comunque, un libro non solo da leggere e da meditarci in più di qualche occasione, ma un piccolo promemoria da portare ovunque con sé, come una bussola … state certi che non smarrirete mai più la strada!

da www.musicaos.it

mercoledì 24 ottobre 2007

Babsi Jones e lo spazio tragico della scrittura

La funzione Burroughs in Sappiano le mie parole di sangue


di Rossano Astremo


da www.vertigine.wordpress.com



Quattro donne sotto assedio a Mitrovica, in Kosovo, durante il conflitto più dimenticato della storia moderna: la guerra fratricida nella ex Jugoslavia. Un’inviata scrive al direttore della testata per cui lavora pagine di un reportage che mai sarà spedito. Ci sono passi di rara bellezza in Sappiano le mie parole di sangue, l’esordio di Babsi Jones, edito da Rizzoli, nell’onnivora collana 24/7, pagine in cui Mitrovica diviene la parte di un tutto, luogo del tragico che s’annida in ogni guerra. E’ questo spazio tragico che l’io narrante di slmpds cerca di mettere in scena, attraverso l’accumulo di parole su un taccuino prezioso, ultimo oggetto da custodire assieme ad una copia sdrucita dell’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Ma le parole non possono raccontare una guerra. Il reportage non verrà mai spedito perché è un manufatto che non rende giustizia a ciò che gli occhi vedono, a ciò che la bocca assapora, a ciò che il corpo sente.Ed ecco che Babsi Jones costruisce un quasiromanzo nel quale si sente fortemente l’influenza della teorie elaborate da uno dei grandi maestri della letteratura del Novecento: William Burroughs.Il Verbo è il male assoluto, ciò attraverso cui niente può sfuggire all’essere dell’identità: Burroughs postula un rovesciamento della logica implicita in ogni ontologia. Attraverso l’essere, l’uomo è prigioniero della lingua, definitivamente separato dal “teatro biologico”. Egli è contaminato dal virus del linguaggio. I suoi libri compiono una mirabolante descrizione di questa contaminazione. Il conflitto manicheo che vi si trova sempre soggiacente è quello del corpo contro il “meccanismo verbale”, che lo rende estraneo a se stesso. Per sfuggire all’intossicazione prodotta dalle parole, al quadro di controllo che, imponendo delle linee associative, rafforza questa possessione, lo scrittore deve rompere il cerchio magico, spezzare le tavole della legge associativa, confondere le piste discorsive per uscire dall’algebra del bisogno e abolire la dipendenza assoluta dalla funzione asservitrice della comunicazione linguistica.Babsi Jones ha scritto il suo quasiromanzo tenendo ben presente l’insegnamento di Burroughs. Decostruire dall’interno il linguaggio, depotenziarne il suo quadro di controllo. L’inviata non spedisce il suo reportage perché il genere è un insulso meccanismo di soggetti-verbi-complementi inadatti a sprigionare l’orrore della guerra. La guerra, ogni guerra, è indescrivibile, inenarrabile. Sappiano le mie parola di sangue è la rappresentazione di questo fallimento narrativo. Le parole non dicono, sono stracci lacerati dai quali zampilla liquido di morte.

venerdì 19 ottobre 2007

I libri nel borgo


















LIBRI NEL BORGO
IMMAGINARIO MEDITERRANEO E CULTURE MIGRANTI
Specchia, 26/27/28 ottobre 2007

Iniziativa promossa da:

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
DIREZIONE GENERALE PER I BENI LIBRARI - ISTITUTO PER IL LIBRO
A.N.C.I. (ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEI COMUNI ITALIANI)

COMUNE DI SPECCHIA

Al via la seconda edizione di Ottobre, piovono libri. I luoghi della lettura, un progetto e un appello lanciato dall’Istituto per il Libro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in Italia, in stretta collaborazione con la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, l’Unione delle Province d’Italia, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani. La campagna di promozione, unica nel suo genere, è stata ideata, nel 2006, per rilanciare, incentivare e valorizzare la rete di strutture e iniziative che sono impegnate nel nostro Paese quotidianamente nella promozione del libro. Dopo il successo dello scorso anno, con gli oltre 260 eventi in tutta Italia raccordati sotto il segno della campagna, questa seconda edizione si presenta con un successo raddoppiato che ha superato le aspettative: circa 500 eventi per oltre 480 “luoghi della lettura” su tutta la Penisola, dai più piccoli e intimi (biblioteche civiche, scolastiche, centri anziani, asili, circoli culturali...) ai più affollati e visibili (fiere, festival, piazze e parchi letterari...), uniti tutti, per un mese, in un unico programma di promozione della lettura.

Il suggestivo centro storico di Specchia, uno dei “Borghi più belli d’Italia”, situato nel cuore più antico del Basso Salento, ospita la prima edizione della rassegna culturale “Libri nel Borgo. Immaginario mediterraneo e culture migranti”.

L’iniziativa, promossa dall’Assessorato alla Cultura e dall’associazione Diotimart, in collaborazione con la Libreria Idrusa di Alessano, prevede un ricco e articolato programma di eventi dedicati ai temi dell’emigrazione, della memoria, delle radici e dell’integrazione tra le diverse culture. Si punterà l’attenzione sugli esiti letterari, storici, linguistici e sociali scaturiti dall’esperienza migratoria, dando particolare risalto agli autori cosiddetti “migranti”, cioè scrittori che, una volta emigrati in Italia, si sono cimentati con la scrittura in italiano.

VENERDì 26 OTTOBRE

Chiesa dei Francescani Neri, ore 20.00

Incontro con l’autrice

Simonetta Agnello Hornby

Introduce

Anna Rita Merico (scrittrice)
Con la partecipazione di
Silvia Famularo (giornalista)

Simonetta Agnello Hornby, nata a Palermo, avvocato minorile e giudice, ha concluso gli studi giuridici in Inghilterra. Risiede da trent’anni a Londra, dove attualmente è presidente del Tribunale di Special Educational Needs. Il suo studio legale nel quartiere di Brixton lavora per lo più con la comunità nera e musulmana. Si è occupata della donna nel mondo arabo ed è autrice di testi legali dedicati all’infanzia. Il suo primo romanzo, La mennulara (la “raccoglitrice di mandorle”), è stato un vero e proprio caso letterario, presente a lungo ai vertici delle classifiche ed è stato tradotto in dodici lingue. È una grande storia siciliana, che si dipana nell'arco di un mese – dal 25 settembre al 23 ottobre 1963 – nel paese inventato di Roccacolomba, in provincia di Agrigento. Il successo si è ripetuto con La zia marchesa e Boccamurata, ambientato nella Sicilia di oggi.

SABATO 27 OTTOBRE

Chiesa dei Francescani Neri, ore 10.30
Matinée per gli studenti delle scuole superiori:

Incontro con l’autrice
Simonetta Agnello Hornby

Introduce
Silvia Famularo (giornalista)

Chiostro del Convento dei Francescani Neri, ore 18.00
Inaugurazione mostra fotografica:

“Scatti dal vicino Oriente”
immagini dai reportages di Duilio Giammaria

Intervengono:

Duilio Giammaria
(giornalista – Rai)

Prof. Stefano Cristante
(docente di Sociologia della Comunicazione – Università del Salento)

Duilio Giammaria è inviato speciale esteri per la Rai Tg1. Lavora dagli anni ottanta nei principali programmi di approfondimento delle reti Rai, realizzando numerosi reportages premiati nei festival internazionali. Ha seguito gli avvenimenti nelle principali aree di crisi del mondo. È autore del libro “Seta e veleni. Racconti dall’Asia Centrale”, Feltrinelli, 2007


Chiesa dei Francescani Neri, ore 20.00
“Letteratura OltreConfine”

Incontro con l’autore
Gezim Hajdari

Introduce
Stefano Donno (critico letterario)

Letture
Giovanni Piero Rapanà

Musiche
Admir Shkurtaj

Gëzim Hajdari si è laureato in Letteratura Albanese all’Università di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma. La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in italiano e in albanese. È poeta, narratore, saggista e traduttore. E’ormai riconosciuto da critici e dalla stampa nazionale e internazionale come una delle voci poetiche più significative dei nostri tempi. È vincitore dei premi letterari: “EkseTra”, “Montale”, “Fratellanza nel mondo”, “Dario Bellezza”, “Grotteria”, “Trieste EtniePoesie”, “Ciociaria”, “Popoli in cammino”, “Multietnicità”.

Ha pubblicato: Erbamara, Antologia della pioggia, Ombra di cane, Sassi contro vento, Corpo presente, Stigmate, Spine nere, San Pedro Cutud: viaggio negli inferi del tropico, Maldiluna, Poema dell’esilio, Muzungu: Diario in nero. La sua ultima raccolta poetica è Peligorga, pubblicata da Besa nel 2007.

DOMENICA 28 OTTOBRE
Piazza del Popolo, ore 10.30

TeatroBlitz/Fondo Verri
Che Fortuna…sono qui

teatro-poesia in un atto unico dentro itineranze urbane
Testi da: D. Campana / A. Verri / M. Gualtieri / S. Toma / V. Bodini / E . De Candia

di e con
G. Piero Rapanà - Roberta Marini Gianni Minerva

musiche originali eseguite da
Rocco Nigro

canti
Nadia Martina

Salone del Castello Risolo, ore 18.00

“Letteratura OltreConfine”

Incontro con

Mircea Butcovan Mihai

autore del libro “Allunaggio di un immigrato innamorato”, Besa, 2006

Leonard Guaci

autore del libro “I grandi occhi del mare”, Besa, 2005

Introduce

Stefano Donno (critico letterario)

Mihai Mircea Butcovan è nato nel 1969 a Oradea, in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale nell'ambito del recupero dei tossicodipendenti e dell'interculturalità. Vincitore nel 2003 del premio "Voci e idee migranti", ha pubblicato il romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa 2006), e con la raccolta di poesie Borgo Farfalla (Eks&Tra 2006) ha vinto, nel 2006, la XII edizione del Premio Eks&Tra. Narratore e poeta, alcuni suoi testi sono inseriti nelle antologie Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (a c. di Mia Lecomte, Le Lettere 2006), A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy (a c. di Mia Lecomte e Luigi Bonaffini, in uscita presso le ed. Green Integer di Los Angeles), Nuovo Planetario Italiano.

Leonard Guaci è nato a Valona (Albania) nel 1967. Ha iniziato la sua attività letteraria con numerosi scritti sui giornali albanesi. Nel 1990 si trasferisce a Roma dove vive e lavora. Da allora ha collaborato con i periodici «Lo Stato» e «Il Borghese» e con il TG1. Con Panciera Rossa, nel 1999 ha vinto il premio internazionale di letteratura «Antonio Sebastiani».

I grandi occhi del mare è il suo secondo romanzo.

Salone del Castello Risolo ore 20.00

Incontro con

Maksim Cristan
autore del libro “(Fanculopensiero)”, Feltrinelli, 2007

A seguire
concerto letterario tratto dal libro omonimo

Chitarra e voce:
Maksim Cristan

Chitarre:
Tommaso Manfredi

Chitarra, charango, violino, voce:
Juan Violineiro

Maksim Cristan è nato nel 1966 a Pola, in Croazia. Cresciuto nella Iugoslavia comunista del maresciallo Tito e arricchitosi rapidamente dopo il crollo del regime e l'introduzione del libero mercato, Maksim a un certo punto ha mollato tutto, è scappato dal suo paese ed è venuto in Italia per ricominciare. Per strada.


Tutti gli eventi sono a ingresso libero.
Info: Diotimart 320 2838681 – Libreria Idrusa 0833 781747

nelle foto Maksim Cristan, Gezim Hajdari, Simonetta Agnello Hornby da www.feltrinelli.it e www.el-ghibli.it

sabato 13 ottobre 2007

Omicidio di Stato: il caso Stilos

Più che un allarme, la definirei una vera e propria emergenza. Non appartengo alla schiera di gente che segue con attenzione gli inserti dei quotidiani nazionali che si occupano di libri. Ce ne sono davvero tanti e tutti di ottimo livello tanto che fare una selezione mi procurerebbe non qualche difficoltà. Ma vedere come da qualche settimana non trovo in edicola una delle più interessanti riviste che si è occupata seriamente di letteratura, poesia e saggistica, mi fa pensare a un vero e proprio omicidio di stato... sotto lo sguardo indifferente dell'editoria libraria, oggi più che mai distratta. Parlo di Stilos diretta da Gianni Bonina. E adesso ...?

venerdì 12 ottobre 2007

Il matematico pertinente ... ovvero Piergiorgio Odifreddi


Se mi ritrovo a pensare, anche solo per un attimo, a come stanno andando le cose, intendo per noi comunità civile, società , stato, nazione, mondo, mi vengono in mente i soliti luoghi comuni: le famiglie italiane non arrivano a fine mese se non indebitandosi, il precariato selvaggio, morti violente lungo le strade, il terrorismo internazionale, le armi di distruzione di massa, le istituzioni e la politica lontane dalla gente e dai loro bisogni, etc, etc. Ed è però arduo, riflettere anche solo superficialmente sulle questioni sopra menzionate, liquidandole come luoghi comuni, dal momento che basterebbe solo poco per non incominciare a valutare i diversi aspetti sotto la lente di discipline che superficiali non sono come la sociologia, l’antropologia, la filosofia, l’economia, l’etica. E se ancora cerco di distrarmi, perché esausto dal rumore assordante di ciò che è fuori di me, stanco dal dover assolvere all’imperativo categorico di popperiana memoria, che la vita è un risolvere problemi, cercando di scovare un buon libro istintivamente rivolgo la mia attenzione alla letteratura, alla poesia, con tanto di strizzatine d’occhio a Truman Capote (sia lode alla Minimum Fax che lo ha degnamente editato e fatto conoscere in chiave più massivamente pop!!!) a Don De Lillo, al grande Valerio Magrelli per la poesia. Ma in fondo rimango con un pugno di mosche in mano: il mio stomaco brontola ancora, quasi come se un prolungato digiuno avesse fiaccato anche l’appetito intellettuale. Indubbiamente da più parti si avverte l’esigenza di trovare un equilibrio rispetto al mare magnum di informazioni, distopie, aberrazioni, false ideologie, bugie, e inganni in cui siamo immersi sino al collo ( e penso che i più sappiano quale sostanza organica ricopre con la sua densità e olezzo le nostre membra!) . Un equilibrio che deve essere cercato in maniera logica, quindi per passaggi o meccanismi geometrici del pensiero, che ne recuperino perlomeno quella dimensione di esatto funzionamento. Riprendere dunque a pensare correttamente, a togliere di mezzo tutte quelle ombre nella nostra vita, che anche solo lontanamente puzzano di muffa e marciume. “Il matematico impertinente” di Piergiorgio Odifreddi, edito da Tea, rappresenta a mio avviso un ottimo libro grazie al quale finalmente chi lo legge può iniziare a fare delle meticolose “pulizie di fine stagione” nella sua testa. Chissà da quanto tempo la spazzatura non veniva svuotata! Il libro si suddivide in diverse sezioni che espongono il punto di vista dell’autore sulla storia, sulla politica, sulla religione, sulla logica, sulla letteratura, sulla matematica, e sulle scienze. Un punto di vista ricco di argomentazioni, portate avanti con grande rigore e un linguaggio altamente divulgativo tanto che perfino a me, che di formule, diagrammi, e numeri non ne capisco un accidenti, ho avvertito un senso di soddisfazione nel seguire passo dopo passo Odifreddi, mentre espone e spiega ai lettori, tra cui il sottoscritto, “L’equazione di Erwin Schrodingher (giugno 1926)” a pag.300 del suo lavoro.
E’scontato consigliare il libro di Odifreddi, il cui ultimo lavoro “Perché non possiamo essere cristiani” per i tipi di Longanesi, vende più di 100.00 copie in due mesi. La gente vuole saperne di più da un autore che sa amalgamare nei suoi scritti ironia, leggerezza, acume, implacabilità analitica anche su questioni delicatissime come la religione, le religioni, di come spesso nella storia la teologia (quella cristiana nello specifico) sia stata base e strumento di morte per la divulgazione scientifica e per il pensiero scientifico, come nel caso del processo a Galileo, o il barbecue in onore di Giordano Bruno, dove la carne in cottura era quella del filosofo, mentre il cardinale Bellarmino, comodamente in relax nei suoi appartamenti ecclesiali, si chiedeva se Gesù Cristo, in base alla fisica aristotelica, nella sua ascesa verso il cielo, dopo aver spirato sulla croce, avesse oltrepassato o meno il cielo delle stelle fisse. Andando nel dettaglio, il messaggio che Piergiorgio Odifreddi lancia attraverso la forza esplosiva della sua scrittura, si concretizza nell’esortare la gente a non essere passivo spettatore del mondo, solo incameratore acefalo di informazioni, ma attore coinvolto praticamente nel mettere in discussione tutto ciò che aveva dato per acquisito e scontato, e mettere le proprie sinapsi in moto sintonizzandole sulla frequenza della razionalità e della consapevolezza: “ (…) i mezzi buffoni hanno vita dura, perché la gente preferisce di gran lunga seguire quelli interi, in uniforme o in borghese” (pag.291). Il volume è strutturato in una serie di saggi monografici suddivisi per categorie, con un prisma talmente vasto da far capire esattamente quali sono le capacità analitiche, argomentative, e gli interessi di Piergiorgio Odifreddi: tanto da poter masticare e digerire le sue riflessioni sulla Bibbia e Gesù Cristo, su Noam Chomsky e Jhon Nash, sulla letteratura (il procedere matematico in Nabokov e Saramago), sulle scienze come il bellissimo paragrafo “Il genio buffone” dedicato al fisico eccentrico e geniale, Richard Feynman: “Il 28 gennaio 1986 la navetta spaziale Challenger esplose in diretta televisiva, e la NASA istituì una commissione d’inchiesta. Quattro mesi dopo un fisico, membro della commissione, mostrò in diretta televisiva le cause del disastro, immergendo semplicemente in un bicchiere d’acqua ghiacciata una delle guarnizioni di gomma della navetta, e mostrandone gli effetti: uno smacco per la NASA, che aveva cercato inutilmente di metterlo a tacere, ma un successo strepitoso per lui, che divenne noto al grande pubblico nel giro di dieci minuti. Quel fisico, che i colleghi conoscevano benissimo da più di quarant’anni, si chiamava Richard Feynman …” (pag. 288). Insomma un “discorso sul metodo” alternativo, brillante, nuovo, paradossale che mantiene viva l’attenzione del lettore e lo induce finalmente a indignarsi, per tutto ciò che non va, quasi come ad aver assunto lucidamente la consapevolezza di aver perso la capacità di riconoscere i problemi. In realtà l’unico grande problema rimane l’uomo nocivo per se stesso, pericoloso per la sua specie! Un memorandum utilissimo inoltre per mirare verso un altro obiettivo sensibile: la ricerca della verità, ad ogni costo seguendo quel senso di armonia e fluidità che solo un’euteoresi può dare: “ (…) verità e bellezza, lungi dall’essere contrapposte, sono in realtà complementari, e possono confluire mirabilmente: non soltanto in un senso superficiale, secondo cui la verità ha una sua bellezza e la bellezza una sua verità, ma nel senso profondo che a volte le verità più pure e astratte si rivelano dotate di una bellezza sensibile e concreta” (pag.219).Qualcuno una volta ha scritto di questo libro: “Un benefico massaggio per il cervello”. Come potergli dar torto…

da www.musicaos.it

lunedì 8 ottobre 2007

Visite inattese di Stefano Cristante




La poesia merita luoghi, spazi di confronto e di sperimentazione.
La pagina è stretta, la voce preme, nascosta dietro ogni rigo, presa in ogni virgola, in ogni “a capo”, in ogni scarto di ritmo.
La voce dei poeti è oggi, ancora una volta, necessaria a scaldare le Arti nel confronto con i “capricci” del Tempo.
Voce di poeta è quella di Stefano Cristante, sociologo della comunicazione e della politica, in libreria con una raccolta di versi edita da Besa nella collana Lune Nuove: “Visite inattese”, dedicato “A chi non sa amare”. Versi volti al dire in una tessitura che gioca la poesia tra necessità e disincanto. Un “diario poetico” dove l’osservazione e l’analisi del reale si riversa in una lingua densa di significazioni intime, di interrogazioni: “Io non voglio abbandonarmi ai ricordi. / Io non voglio piangere. / Vorrei sapere perché / abbiamo scelto quelle strade, / quelle lame piantate sul selciato, / perché le abbiamo guardate, / così poco attraenti, / così velenose.”
Un dialogo aperto con il Mondo, cose piccole e cose grandi, intrecciate, strette nel mormorare del pensiero, si fanno scrittura, scherzo e sferza, tuono e ticchettìo di pioggia. Un quotidiano che non si basta nel suo ordinario costruisce questi versi, li spiega in una ritmica sapiente che rende la poesia cosa possibile, utile all’incontro, non lingua segreta o vezzo stilistico, monumento inutile dell’autocelebrarsi: “Sì, io vivo adesso, con tutte le mie pene, / io vivo adesso / occluso al mio futuro / superato il passato come macchina lenta / perso all’ingegno del segreto / svelato il paradigma antico / come enigma: oggi, / mondano arrampicarsi / allo specchio del giorno / quello di Oggi / che ha ucciso Ieri / e che nessun Domani prega.”
Bellissimi i versi che Cristante dedica al Salento. Così recita “Dimora”: “Per me abitare non è appartenere. / E’ amare la mia terra / per quante vie di fuga mi regala. / […] Intendo le volte / che arrivo alla fine di questa terra / e i miei occhi sono obbligati a vedere / solo cielo e mare e nient’altro. / Intendo quando parole greche / entrano d’improvviso nell’autoradio / e mi prende l’idea che questa terra / appoggiata sul mare come una ninfea / viva se stessa come un’isola remota / lontana da ogni paragone / lontana da ogni altra terra / per quanto magnifica.”
Una poesia distesa, chiara e chiarificatrice, che prende andature “classiche”. Di quel classicismo della poesia italiana del Novecento militante ed impegnato. Danilo Dolci, il sociologo-poeta che a Partinico inventò lo sciopero alla rovescia e l’università dei poveri cristi di Spine Sante, è sponda efficace per comprendere il “perché poeta” di Stefano Cristante. Certo egli non ha la stessa “santità” del triestino che si fece siciliano. La natura del loro “sacrificio” è differente, così le urgenze del tempo che attraversano, la maieutica che dispiegano, ma non l’affinità di funzione e il travaglio intellettuale. Il tormento provocato dallo stare sempre vigili, mai quieti al cospetto del Mondo. Mai domi dell’aver compreso e, se lo si è fatto, si e pronti a sgualcirsi, rovinarsi, a tornare nell’interrogazione. “Gareggiandomi contro / lascio dietro a me / spirali di angoscia / e fiumi di equivoci. / Io vivo nell’errore, / attendo la violenza come rimedio / la metto in pratica / la sento / la trasmetto. // Esiste un solo antitodo / uno solo / ma io / - come voi - / ne ho scordato il nome.”
C’è speranza, non c’è speranza? Questo non sappiamo dirlo. C’è amarezza ma: “Come blitz o colpo di stato / il buon umore sale al potere nel mio cuore. // E io non so attendere gli eventi / - eleggendo un governo-fantoccio dei miei sentimenti - / o se organizzare la resistenza armata / al nuovo usurpatore / degli umori neri precedenti. / L’economia interna dei miei nervi / s’adatta assai bene / a quel malessere vago e dominante. // Ma ora - nel frattempo - / il buon umore ha preso il sopravvento.”
di Mauro Marino
fonte iconografica da www.iltaccoditalia.it

venerdì 5 ottobre 2007

Fuori di penna

Riprenderà il prossimo martedì, 9 ottobre, nella saletta degli eventi della Libreria Guida Capua a Palazzo Lanza, il laboratorio di scrittura creativa per bambini e ragazzi “Fuori di penna”.
Dopo il successo degli scorsi anni, l’ormai collaudato laboratorio di scrittura creativa “Fuori di penna”, ideato e condotto da Silveria Conte, aperto a tutti i bambini delle classi terza, quarta e quinta elementare e delle scuole medie inferiori, ritorna con una interessante novità.
Al consueto percorso tra avventure, storie buffe e filastrocche, che ogni anno affascina sempre più bambini, si affiancherà per i più grandi (ossia per coloro che frequentano la scuola media inferiore) un percorso che porterà alla creazione di una vera e propria redazione giornalistica, che darà vita a un mensile a misura di ragazzi.
Il laboratorio “Fuori di penna” si svolgerà all’interno della libreria Guida Capua (Palazzo Lanza, c.so Gran priorato di malta 25, Capua) tutti i martedì: dalle 17 alle 18 per i bambini delle ultime tre classi della scuola elementare, e sempre il martedì dalle 18.30 alle 20.00 per tutti i ragazzi delle scuole medie.

Per informazioni: Libreria Guida di Capua, c.so Gran Priorato di Malta – cortile Palazzo Lanza – te-mail: guidacapua@liberto.it; ass.architempo@libero.it.
fonte iconografica da www.dba.unito.it

giovedì 4 ottobre 2007

Spot Book 1














SILVANA BEDODI


LUCREZIA, I TUOI SOGNI

Amori e passioni di una donna del ’500 schiava delle convenzioni.

Chi si accosti a Lucrezia, i tuoi sogni! di Silvana Bedodi resterà colpito dalle vicende di Lucrezia Buonvisi e della sua vita lacerata tra il rigido rispetto delle regole imposte dalla tradizione familiare, le convenzioni, e un amore vissuto tragicamente: figura di spicco e di grande spessore nella Lucca del Cinquecento.
Un’opera scritta con grande eleganza e ricchezza di riferimenti storico-letterari, possiede la stessa freschezza di una piéce teatrale. Il romanzo è un vivacissimo documento sui danni che le convenzioni sociali determinano sulla sorte degli individui, anche in una società, quella rinascimentale, che sovente nasconde numerose zone d’ombra.
La Bedodi guida il lettore con mano sicura nei meandri di un’anima, quella della protagonista, lacerata dalla stizza di avere perduto la vita in nome del decoro e delle normecoercitive di un società ipocrita.


SILVANA BEDODI (1956) vive e lavora a Cuneo. Appassionata di studi classici, si diletta a scrivere soprattutto su argomenti storici. Pellegrino di Provenza è stato il suo primo romanzo.

mercoledì 26 settembre 2007

Saramago e il partito democratico: Tutti candidati! Ma proprio tutti!










C’è stato un tempo in cui a sinistra della sinistra, della sinistra, si discuteva se si era marxisti leninisti o marxisti-leninisti. Un trattino di differenza che smorzava o esaltava il senso di una appartenenza, di un’identità, nell’affollato parterre della contestazione dei caldi anni settanta.

Quel trattino via via s’è trasformato. Ne sono nate sigle, appartenenze, identità e, in esse, tante sfumature, modi e stili, in un metabolismo cannibalico incapace di corrispondere all’utopia dell’unità. Valore sperato ma mai veramente perseguito dalla sinistra.

Oggi siamo al governo con una compagine che sembra avere nostalgia di quel vuoto dibattito sul trattino, di quella astrazione che vestiva l’eskimo. Ogni tentativo di semplificazione sembra essere vano e tutti, proprio tutti, hanno voglia di esserci, di apparire, di frazionare e franare il sogno di un progetto chiaro, capace di corrispondere alle esigenze di un’Italia sempre più mortificata e piegata nella sua sostanza etica e culturale.

Toglierla a Berlusconi e al berlusconismo per ridarle senso, direzione e futuro, sembrava essere il punto di partenza di un profondo rinnovamento. Così non è stato. Prodi, ostaggio delle necessità e dei distinguo, ha partorito il mostro: un governo sovradimensionato esposto a quelli che via via sono diventati gli strali dell’ “antipolitica”.

Neanche il partito democratico è utile all’abbisogna, anzi!!! Al suo interno, a partita chiusa in vista del confronto per l’elezione del segretario e degli organi di direzione, mostra una mastodontica moltiplicazione di componenti e di candidati. Vecchio e nuovo frullato insieme, affidato alle macchine elettorali di gruppi e sottogruppi. Quello che più fa sorridere sono i distinguo. I “per” e i “con” moltiplicano le liste: innesti, partenogenesi, clonazioni. Tutto a freddo, al riparo dalle passioni che vogliono sostanza, inconti veri, abbracci, inni, pelle d’oca e condivisio

Agli occhi di chi sta a guardare appena fuori dalla soglia dei partiti tutto appare incomprensibile, inutile, vano, ininfluente. Un’astrazione che sembra svilire quella conquista democratica che sono state le primarie, usurate e sovraesposte in una funzione solo strumentale priva di sostanza e di desiderio politico.

Quello che l’invettiva dell’antipolitica smuove non è qualunquismo. E delusione! Frustrazione anche. Il profondo sconforto che ha colto tutti coloro che con entusiasmo avevano scelto il centro-sinistra con la speranza di vedere un’Italia diversa, altra, volta ad una nuova stagione.

Il paradosso è che dopo dieci anni di disastroso governo la destra appare essere salvifica. Ma di questo, nel Pd e nella sinistra, nessuno sembra preoccuparsi. Dopo il “trattino”, il dibattito speriamo si volga al “che fare”, ma temo che i tempi saranno lunghi. Nell’attesa del parto di ottobre a tutti consigliamo, a monito, la lettura del “Saggio sulla lucidità” di Josè Saramago, meglio attrezzarsi!

fonte iconografica da www.claudiocaprara.it

di Mauro Marino

venerdì 21 settembre 2007

Gli Este ... energia di vita





















Dal 21 settembre 2007 al 4 ottobre 2007


Gian Luca Amaroli, Anna Maria Angelini Chiarvetto, Roberto Ascoli, Fiorenzo Barindelli, Christophe Bouquin, Marco Cannata, Lucia Corbinelli, LeoNilde Carabba, Luca Chiesura, Franco Di Pede, Anna Galli, Anna Giussani, Francesca Licari, Gionatan Lombardi, Giò Marchesi, Antonio Massari, Maria Antonietta Michelon, Attilio Milani, Cinzia Reggiani, Tiziana Robbiani Trevisan, Angelo Sblendore, Paola Scialpi, Jorge Sicre, Elisa Troccoli
Galleria 9 Colonne - SPE Il Resto del Carlino (Ferrara)

Via Armari, 24 Ferrara (Italia)

ore 9 - 12.30 / 15.00 - 18.30 sabato e festivi chiuso


Nell'ambito della XXIV SETTIMANA ESTENSE tra le manifestazioni culturali collaterali La Galleria 9 Colonne/SPE/Il Resto Del Carlino, non poteva non essere partecipe alle manifestazioni che vede il 2007 l'anno degli Estensi. Nell'ambito delle manifestazioni culturali collaterali, indette dalla Camera di Commercio di Ferrara per la XXIV Settimana Estense, in collaborazione con la Carife, la direzione artistica della SPE ha dato vita a questa vivace rassegna ideata e a cura di Grazia Chiesa, con l'appoggio del ferrarese Gian Luca Amaroli, invitando, a creare un'opera attinente al grande casato, artisti scelti per la loro cultura e per la loro attenzione e ammirazione verso gli Este. Alcune opere sono figurative e rappresentano in modo preciso personaggi, castelli, eroi del grande casato. Altre sono libere interpretazioni in cui giocano frammenti di decorazioni ambientali tipiche dell'epoca e anche riferimento agli ornamenti e ai gioielli delle grandi dame. Le foto presenti sono un corale omaggio alle tradizioni e al folclore colto della Ferrara di oggi perpetua con ammirevole sostegno sia del pubblico che del privato.Si tratta di una esposizione ricca di spunti e ritmata da un comune interesse verso Ferrara, la sua tradizione, la sua terra. Anche a Copparo, nella Torre Estense, la D'Ars Agency è partner della rassegna che si inaugura nello stesso giorno dell'apertura di questa mostra. Una rassegna che dà onore a Dante Bighi, grande designer copparese, e fa conoscere la collezione d'arte contemporanea che questo grande uomo ha raccolto anche su suggerimento del famoso critico francese, suo grande amico, Pierre Restany, e coordinata negli anni dalla sezione eventi della D'Ars Agency.
fonte iconografica da www.arte.go.it

giovedì 20 settembre 2007

Mirella Floris e le sue strisce di vento















Argini...



…di stoltezza
dei nostri
fiumi d’anima
bloccano il corso
Forte la spinta,
tenace l’andare,
severo l’impegno…
a plasmare la storia
il corso scorre.
fingere di ridere per sempre,
simulare festa e allegria nello sfacelo,
così pure
può andar bene

MIRELLA FLORIS scrive da sempre, esprimendosi in vari generi, dalla poesia al romanzo, all’articolo giornalistico.
Ha già pubblicato: Lampi d’estate, un libretto di poesie intense e musicali; Lampi del tempo, una raccolta di liriche che indagano problematiche e sofferenze del nostro tempo;La terrorista, romanzo giallo che narra vicende di lotta armata tra l’Italia e il Marocco; e, per i tipi di Besa, Venuta dal mare, romanzo giallo particolare, con un racconto nel racconto, leggibile “tutto d’un fiato”.
Cura gli inediti per www.libreriadonna.com e opera nell’ADI (Ass. Donne Insieme) e nell’Od@P (Officina delle Parole) delle quali è fondatrice e presidente.
Con Strisce di vento ha vinto il secondo premio Elsa Morante (Roma 2006) e il Premio speciale della giuria Istituto Italiano di Cultura (ICI) Napoli nel 2007.
Il suo sito personale è http://www.mirellafloris.com/

giovedì 13 settembre 2007

Michelangelo Zizzi cura un Laboratorio di scrittura creativa

















Dell’Eroico Furore
Corso avanzato di II livello

(Fucine letterarie)


Scrittura Creativa e Consulenza filosofica

Ideato e condotto da Michelangelo Zizzi.


1 La questione dello stile: sporcarsi le mani
2 La questione dello stile: contaminazione, entropia e integrazione.
3 Una passione infinita. La figura narrativa e la figura poetica: relazione, intensità, concentrazione. (Laboratorio di scrittura)
4 La rimozione dei blocchi immaginativi ed emozionali nell’agire letterario. Fluidificazione e consolidamento oltre la congestione stereotipa. (Laboratorio di scrittura)
5 Poesia e movimenti concentrici: il concetto di ripresa, discontinuità e riconnessione immaginativa. La fecondazione emotivo – sentimentale. (Laboratorio di scrittura)
6 Generi narrativi: noir, giallo, rosa, fantasy, favolistico, storico, di formazione, borghese, ecc. (Laboratorio di scrittura)
7 I linguaggi e lo stile: catabasi dell’identità e sua riformulazione. (Laboratorio di scrittura)
8 Narrativa: incipit, exitus, dialoghi, personaggi, storia. Oltre il flusso di coscienza: gli intermezzi e il lavoro di ricognizione dopo le tecniche di abbandono. (Laboratorio di scrittura)
9 Narrativa: il regista, il filosofo e la scrittrice: come tre persone scrivono un romanzo. (Laboratorio di scrittura)
10 Incontri con massimi scrittori, giornalisti e critici nazionali.
11 Risultati, confronti e rapporti con editoria e pubblico.


Il corso si articola in 11 incontri di full immersion di 3 ore ciascuno, è riservato a scrittori semi – professionisti e già praticanti ed è finalizzato all’immissione nel mondo editoriale. Il calendario verrà reso noto dopo l’incontro promozionale, fissato per il giorno martedì 18 settembre alle ore 18, 30 presso il Fondo Verri di Lecce.

Info: 328/3292451
fonte iconografica da www.francois.darbonneau.free.fr

martedì 11 settembre 2007

Marcello D’Orta e le sue Fiabe sgarrupate!













Ho trascorso interi pomeriggi non più di un decennio fa, appassionandomi, pagina dopo pagina, alle avventure di Frodo Baggins, sin dall’inizio del suo viaggio per le terre oscure di Mordor, accanto ad Aragorn, Sam, Gandalf e il famigerato Gollum ( o Smigoll), tremando con loro al cospetto di figure sinistre come orchi e Uruk-hai, odiando l’ambiguità di Saruman, gioendo per ogni vittoria sul male, incarnato dall’immortale Sauron. In altre parole il più grande capolavoro fantasy mai scritto sino ad oggi: Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Come poi non lasciarsi solleticare dalle nuances similtolkieniane di C. S. Lewis e le sue Cronache di Narnia, un’opera dove fauni, minotauri, streghe, animali parlanti amano, gioiscono, combattono in una dimensione ed un tempo altri, in cui l’eterna lotta tra il Bene e il Male,viene arricchita (a vantaggio del lettore in merito alla godibilità complessiva del testo) da una notevole dose di descrizioni e caratterizzazioni che solo un illustre medievalista come Lewis poteva dare. Insomma, una serie di riferimenti necessari per introdurre un discorso sulla fiaba ( come non considerare gli esempi sopracitati appartenenti al genere in questione), una delle tante facce della letteraturaall’interno della quale solitamente il protagonista per portare a buon esito ogni impresa intrapresa, deve fare i conti con la paura, la truculenza e l’orrore. Prima di giungere al sudato riscatto, è sempre necessario pagare un pedaggio salato. E fare ovviamente i conti con il mito, oggi divenuta un’altra categoria che ha determinato un deciso salto di paradigma sulla cognizione del percepire la fiaba stessa, che sacrifica se stessa pur di diventare racconto puro, assoluto, nonché produzione del proprio corpo di narrazioni mitiche o mitopoietiche nella Storia. Ad esempio nell’odierna produzione letteraria italiana, quest’esigenza di raccontare, creare storie, attraversandole, cambiandone connotati, misurandosi nella fondazione di universi o multiversi mitopoietici, la riscontriamo in opere come New Thing di Wu Ming 1, Perceber di Leonardo Colombati, Neuropa di Gianluca Gigliozzi, Occidente per principianti di Nicola Lagioia. E come nelle fiabe, anche in queste opere prende corpo la vita nei suoi aspetti più decisamente realistici, con la consapevolezza che in fondo anche le nostre esistenze si collocano in un percorso fatto di innumerevoli difficoltà, e che solo grazie alla volontà di riuscire di ciascuno di noi, tutti gli ostacoli possono essere superati (forse…). Anche la famigerata questione della morale trova una sua collocazione in ogni processo narrativo di tipo creazionale: se dovessimo seguire Karl Popper e la sua teoria falsificazionista, sapremmo con certezza affermare che tutta la vita è un risolvere problemi, e che prima di confutare una teoria qualsiasi, occorre verficarne la sua rispondenza logica nei flussi informativi intercorrenti tra premesse e conclusioni ( se si esclude naturalmente l’anarchismo metodologico). Non è forse anche questa una sorta di morale? Ho avuto di recente l’opportunità di imbattermi nell’ultimo lavoro di Marcello D’Orta , dal titolo Fiabe sgarrupate per i tipi di Marsilio. Non molto incline alla tipologia letteraria di stampo umoristico, e non troppo contento dei precedenti lavori di quest’autore ( Io speriamo che me la cavo, Dio ci ha creato gratis, Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso e il Maestro sgarrupato) per un’eccessiva leggerezza di stile e di contenuto, l’opera, in questa sede recensita, sembra possedere una serie di peculiarità che la rendono veramente apprezzabile. A parte la profusione di citazioni colte nell’introduzione, giusto per rendere noto ai lettori l’interesse per la fiaba da parte di grandi personaggi come Jean de la Fontaine, Henry Bergson, Schiller, Freud, appare riuscitissima la detournazione simbolica fatta da Marcello D’Orta sulla struttura narrativa di classici della fiaba a partire da Cappuccetto Rosso, Il Soldatino di stagno, per arrivare a La Bella e la Bestia, Il Gatto con gli stivali, Il Pifferaio magico, e gli eterni La volpe e l’uva, nonché Il topo di campagna e il topo di città e molti altri. Passando così con disinvoltura da Hans Christian Andersen, ai fratelli Grimm, Charles Perrault, Madame Le Prince de Beaumont, Robert Browning, Oscar Wilde, il meno noto Giovan Battista Basile, Esopo, Fedro, e dulcis in fundo Jean de La Fontaine. A voler snellire la museificazione che da troppo tempo ha subito la fiaba, relegata nei sussidiari delle scuole, o come leggenda mito-iconografica ( la mamma o il papà di turno che leggono una fiaba al figlio ogni sera, prima del bacio della buona notte), ci pensa lo stesso autore, che non solo contamina ripetutamente ogni storia con del sano umorismo napoletano, ma si diverte a inserire elementi pop che vanno dai riferimenti cinematografici come la Febbre dell’oro di Chaplin, a Godzilla, ET, ai grandi della letteratura internazionale come Kafka, per non parlare della sottile critica sociale( per lo meno in chiave umoristica) realizzata in punta di penna.. Due esempi potrebbero rendere più chiare le idee. Il primo: “ (…) Il giorno dopo di buon mattino, il pifferaio scese in strada e cominciò a suonare. Intonò un motivo di sua invenzione, intitolato Chella zoccola’ e màmmeta e il successo fu strepitoso. Dalle case, dalle stalle, dai granai, dalle botteghe e dai campi uscirono folle dei topi: grassi e magri, bianchi e neri, vecchi e giovani; tutti insomma, e presero a seguire il flautista”. ( Il flauto magico, pag. 130). Il secondo: “ (…) Una volta un sorcio – ora sapete di che si tratta – ricevette nella sua tana, la visita di un amico, un topo proveniente dalla città. Questi veniva da Londra, dove i roditori sono divisi per classe: alla classe alta – Upper class – i topi di castelli, manieri e palazzi signorili; alla classe media – middle class – i topi borghesi; alla classe bassa – working class – i topi di condomini popolari” ( Il topo di campagna e il topo di città, pag. 161). Oltre la possibilità di definire un lavoro come questo, degno di attenzione, per l’operazione in sé che rappresenta, occorre spingersi su una considerazione a mio avviso necessaria da farsi in merito. Fiabe sgarrupate, contiene tanti e tali riferimenti letterari, filmici, provenienti dal mercato dello spettacolo, da poter essere un generatore di link di senso così ricco, tale da divenire un prodotto editoriale spendibile come libro di testo nelle scuole, fruibile e utile per un sostanzioso lavoro interdisciplinare. In fondo, potrebbe essere un inizio per un modo diverso di pensare la scuola oggi… e sarebbe già un qualcosa!


da www.musicaos.it

venerdì 7 settembre 2007

Il mondo di Afra di Luisa Ruggio


















Luisa, tu sei uno dei volti del giornalismo televisivo più conosciuti nel sud (e penso e te lo auguro a breve anche sul territorio nazionale), hai ideato e condotto diversi programmi, insomma ti sei fatta conoscere e apprezzare in questo campo, come una seria e valente professionista. Ma Luisa ha anche un altro lato, che è quello della passione per la scrittura, che stiamo apprezzando con il tuo libro d’esordio, dal titolo Afra, per i tipi di Besa.
Quando hai contratto questa malattia?
Scrivere ha sempre popolato la mia vita, incantandola. E’ stato il mio oracolo, la mia sola gioia di vivere, un’insonnia che porta troppo lontano e invita a ritirarsi dal mondo, anche quel mondo di cui sembro fare parte nello slalom continuo del mio lavoro di giornalista televisiva, che a me non svela nulla, è intrattenimento per gli altri, una specie di copertura per il laboratorio alchemico dove mi rintano da quando ero pressapoco una bambina, innamorata della combinazione impossibile delle parole. Quelle parole mi chiamavano come compagni di gioco in un cortile, come amanti in fumose camere d’albergo, come luoghi di elezione e salvifico smarrimento, le trovavo sulla vecchia Olivetti Lettera 35, dono di un vecchio signore col Borsalino blu, che era mio nonno. Un uomo del Sud, pratico e romantico allo stesso tempo, atratto dalla letteratura ma non al punto da lasciarsi sedurre dalla Bellezza. Io credo che mi abbia regalato quella vecchia macchina da scrivere per scardinarmi e insegnarmi che a volte i cardini del Palazzo di Armida nel nostro cuore e nella nostra penna non sono d’oro bensì di un vile metallo, come quello che muove le lettere da battitura. Perchè si scrive a colpi, a colpi diretti, cercando di dimenticare un corpo che ci è stato dato non perchè ci limitassimo a viverlo. E’ difficile lasciare che l’immagine di ragazza che nella vita fa ” la televisione ” passi sullo sfondo rispetto a quello che sono veramente, una ragazza che scrive. Sono più una che scrive che una persona viva. Ha detto Pavese: chi sa vivere non scrive e chi sa scrivere non sa vivere. Io non è che non abbia saputo vivere, il fatto è che mi è riesciuto di farlo meglio nei miei mondi.Afra. Una terra che rievoca per il suo calore il ventre gravido di una madre, un orizzonte esistenziale fatto di uva regina, di ulivi secolari dal profumo inconfondibile, di sudore, di amore, oscenità e tradizioni. Sì, perché Afra in fondo è la storia di una famiglia, in questo nostro Sud del mondo, dove si intrecciano passioni e sentimenti, rinunce pesantissime, incomprensioni e profondo sentimento, in un intreccio che coinvolge sentimentalmente il lettore sino in fondo, con uno stile davvero maturo e intrigante che qualifica come pregevolissima l’opera di questo tuo esordio.
Come è nata l’idea di questo libro? Da quanto tempo ci stavi lavorando? E ancora, ci sono stati lettori “VIP” che ti hanno dato qualche consiglio?
Non esistono consigli nella scrittura. Esistono i fogli di scrittura, i continui ripensamenti, il desiderio costante, feroce, di cancellare tutto, di domandarsi davanti alla prossima parola da scrivere che cosa si crede di fare. Non c’è scrittura se non c’è un problema, il libro è lì anche quando non siamo ancora in grado di parlarne, è l’ignoto che è dentro di noi, profondo e astratto, nella placenta dei giorni e nel lievito dei fatti della vita. Ho cominciato a scrivere Afra in un pomeriggio di primavera di tre anni fa, tre anni sono tanti per scrivere un romanzo, tre anni non sono niente per scrivere un romanzo. Ci sono romanzi che durano tutta la vita, che non finiscono mai, come certi quadri e questa è una cosa in pittura si impara presto: i quadri sono superconduttori di tempo perchè intrappolano la luce di cui è fatto il mondo, di cui siamo fatti noi. Luce e spazio vuoto. Mi piace applicare quest’immagine anche alla scrittura, i romanzi come superconduttori di tempo, come quel genio finito nella bottiglia che qualcuno ha trovato il modo di acciuffare, proprio come nelle favole arabe, le più antiche del mondo e così attuali quando si tratta di farsi un’idea della narrazione. Mi fermo spesso a pensare che in Oriente esistono ancora i narratori di storie, si fermano per strada, nei mercati, tra gli incantori di serpenti e di scorpioni, nella polvere di una strada di spezie e preghiere: laggiù ci sono ancora i cantastorie, i portatori dell’oralità di un tempo, i libri umani, con mani raggrinzinte come le antiche pagine di un codice miniato e scampato a un incendio. Se un consiglio ho trovato sono stati proprio i libri a darmelo. Ho un’inconsolabile voglia di leggere. E’ tutta colpa di Marguerite Duras se ho deciso che da grande avrei scritto. Poi, certo, nella mia carriera televisiva ho avuto modo di incrociare la strada di molti scrittori che amo, Erri De Luca, per esempio, Antonio Tabucchi, Rina Durante, Roberto Cotroneo. Credo che già il solo fatto di aver avuto il privilegio di una chiccherata e un paio di caffè con questi sultani della scrittura sia stato come carpire i segreti nella bottega del cesellatore.

In Afra, c’è un forte desiderio di raccontare, o meglio un gusto del narrare che risponde a quell’istanza della mitopoiesi (della creazione del mito, quello del saper dire di una storia o di più storie) propria di una tradizione narrativa post-millennio. Ed Afra pare in verità più che un mito, un discorso sul mito, quello di un Sud del Sud del mondo. Tu a quale tipo di Sud appartieni?
Appartengo a un Sud che non esiste. Che invento di continuo e dal quale, qualche notte, mi lascio pensare, come sapendo che il Sud impossibile del mio cuore non si dimenticherà di me nei suoi continui, emorragici, slittamenti di memoria. Quando vivevo lontano dal Salento, a Milano, chiudevo gli occhi per ritrovare una bussola che mi indicasse almeno una delle verità che soffiano tra i due mari di questo Mediterraneo delle meraviglie che di meraviglioso in questi anni ha poco e niente, che vede nei suoi fondali pascere i morti di tante traversate dell’ultima speranza e ha cancellato le rotte per le città sommerse cantate dai poeti e dai disturbati del sonno. Appartengo a un Sud visionario, dove la Bellezza ha un valore panico e molti militanti della scrittura finiscono con lo scomparire come le vergini della Hanging Rock australiana nel bel film di Peter Weir tratto dal romanzo irrisolto di Joan Lindsay. Il tradimento di una Natura che entra in ogni cosa, come una donna che toglie il fiato e che continueremo a perdonare anche se sappiamo che ci mentirà sempre. Ma a volte sono i luoghi che ci tradiscono di più quelli che più amiamo. Il Sud è solo spleen, è una nostalgia, una sospensione, un parallelo ambiguo della veglia, al rallenti.
Sappiamo, Luisa, che tu hai avuto anche esperienze editoriali, in sedi più scientifiche, nel campo della saggistica psicologica e cinematografica. Lì i codici cambiano, occorre più rigore, più capacità di sviluppare in chiave analitica, quello che si vuole dire. Nella realizzazione di Afra, hai sentito un gap, tra quel tuo modo di scrivere e questo?
I saggi sul cinema e la psicanalisi hanno comunque richiesto e mantenuto ferma la mia vocazione narrativa. Sono soprattutto memorie, gli archivi di un rapporto con la sala cinematografica che è stata, presto nella vita, la mia seconda casa. Perchè negli anni di mezzo, tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, mio padre decise di rilevare la gestione di molte delle antiche sale cinematografiche salentine. Questo ha significato per me passare intere giornate al cinema, vedere una quantità di film impressionante, assaporare il contatto, psico-fisico, con il buio protettivo della sala, stringere alleanze con i vecchi proiezionisti resistenti all’avvento delle super-attrezzature dei multisala. E’ stato come viaggiare. Nei miei saggi ho solo riportato i diari di questi viaggi che si svolgono sempre nella mente di uno spettatore incallito, in quella felicità del non esistere che prende chiunque davanti a un buon film. Ho analizzato questo aspetto ma senza la tecnica dello scandaglio accademico, con la semplicità di chi riporta un paesaggio di dentro. Anche con Afra ho fatto questo, Afra si può leggere in molti modi, così come ogni film si presta a esegesi amplificate per ogni spettatore. Come negli antichi restauri dove è facile intuire un doppio sfondo, anche in questa storia c’è un altro panorama oltre a quello di una terra che accomuna tutti i personaggi, ed è un panorama umano, un panorama della mente dove forse parlare di psicologia può sembrare abusivo ma non lo è considerando il fatto che pur essendo avvistati quotidianamente nei luoghi che la vita ci ha assegnato, tutti noi, chiudendo gli occhi, siamo sempre da un’altra parte.
Entriamo in una sfera più personale … quali sono gli autori contemporanei in prosa e/o in poesia a cui ti senti più vicina, più legata, che ti hanno magari aiutata a superare alcuni ostacoli nella dimensione del quotidiano?
Avrei voluto conoscere Marguerite Duras, guardarla scrivere, anche sbirciando da una porta socchiusa. Così anche Anais Nin, e Jeanette Winterson, che vive attualmente in Inghilterra. Ho amato il primo Baricco, ma poi correvo a leggere Henry Miller. Ho divorato Marquez, ma poi mi sono ubriacata con Allen Ginsberg. Ho pianto per colpa di Meir Shalev, ma poi ho scoperto Amos Oz. C’è sempre un Tabucchi sul mio comodino, anche se è coperto dai capolavori di Maurizio Maggiani. Karen Blixen mi ha cambiato la vita, in tutti i modi in cui una vita può essere cambiata.
Questa domanda è d’obbligo … progetti per il futuro?
Scrivere. Cos’altro?
da booksblog.it

domenica 2 settembre 2007

Il potere di Noam Chomsky: distopia dell’ordine sociale









Il potere di Noam Chomsky, (Editori Riuniti) rappresenta un tentativo da parte dell’autore di trovare quelle coordinate teoretiche necessarie per effettuare un discorso sulla natura umana e l’ordine sociale nella storia. Interessanti gli studi in apertura del volume, sul linguaggio, passando in rassegna una serie di testimonianza che vanno da Von Humboldt, a Wittgenstein a Quine, sino a studi più contemporanei, con indomabile spirito di ricerca e di esplorazione per la costruzione di nuovi orizzonti che aiutino a comprendere come la facoltà più importante appartenente in maniera complessa e articolata alla razza umana (ma anche gli animali e le specie vegetali hanno un loro modo di comunicare attraverso altre tipologie di “linguaggi”), cioè quella del linguaggio e della nostra capacità di utilizzarlo per comunicare, riveli ancora numerose zone d’ombra sulle sue modalità generative, di applicazione e di finalizzazione che ancora devono essere studiate. Una parte considerevole del volume prosegue l’impegno di Noam Chomsky, a denunciare il potere, quello delle grandi corporation americane dell’ingegneria militare, che cerca di costruire un dis-ordine mondiale dove la dominazione del più forte sul più debole è la prassi da perseguire ad ogni costo. Qualche nome? Oltre gli U.S.A, Gran Bretagna e Australia. Interessante come queste nazioni nascondano sotto il fulgore accecante dei più alti idealismi ( l’intervento in tutto il mondo laddove il Male – il comunismo per intenderci- diffonde la sua influenza e il suo potere) un mero interesse per gli affari, senza alcuno scrupolo né limite. Il Male, per questi paladini della Giustizia, a volte assume connotazioni addirittura più subdole del nemico storico del comunismo … addirittura la Democrazia, un virus letale, da debellare con qualsiasi mezzo. Interessante l’analisi dell’affaire Timor Est fatta da Chomsky, in questa pubblicazione tradotta in Italia da Massimo Maraffa, redazionata con grande cura soprattutto per ciò che concerne le fonti citate, e che illustra come funzionano le logiche di dominazione neo-coloniale degli Stati più forti sui più deboli in ambito internazionale.

fonte iconografica da www.tmcrew.org

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