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domenica 10 maggio 2009

Uomo nel buio di Paul Auster (Einaudi). Rec di Maria Beatrice Protino

Il nuovo romanzo di Paul Auster, ‘Uomo nel buio’, in Italia edito da Einaudi, è così convincente nell’ evocare lo stato di insonnia che, posto si riesca a reggere davvero la lettura per una sola notte, senz’altro si parteciperebbe volentieri alla colazione descritta alla fine del racconto, cioè: . Infatti, arrivato a questo punto, il lettore non solo è redivivo da una notte di veglia, ma anche da una notte in cui, fluidamente, ha egli stesso partecipato a un viaggio, a un’odissea interiore, condotto quasi per mano attraverso una narrazione intensa e abilissima.
Il protagonista, August Brill, critico letterario in pensione, ha 72 anni, e giace nel suo letto a casa della figlia, nel Vermont, per rimettersi da un incidente automobilistico che l’ha reso quasi invalido. In questa sua lunga notte d’insonnia – come gli accade ormai da tempo - tiene occupata la mente immaginando storie che lo conducono lontano dalla sua vita, da ciò che vorrebbe dimenticare: la recente morte della moglie, l'orribile assassinio in Iraq del fidanzato della nipote che laggiù lavorava in un impresa di costruzioni, il divorzio della figlia, il suo stesso incidente. Sdraiato nel buio, cerca di rifuggire l’idea del dolore personale e della sua famiglia e si racconta la storia di un mondo parallelo, di un'America che, pur rimanendo contemporanea a quella reale, non è in guerra contro il terrorismo, in cui non è avvenuto l’attentato dell’11 settembre, né la guerra in Iraq, ma è dilaniata da una guerra civile scoppiata nel 2000 durante la prima contestatissima elezione di Bush. Mentre il destino del protagonista della storia fantapolitica diventa sempre più incerto, la nipote, anch'essa insonne, raggiunge il nonno e August capisce che non può più sfuggire ai racconti veri, alle vicende della sua vita, ma cedere, lasciarsi andare al (così come recita un verso della poetessa Rose Hawthorne, più volte citato nel libro).
Sin dal titolo si evoca il silenzio alle infinite domande della vita e si narra del buio, della difficoltà di continuare a vivere se non costruendosi – quasi cinicamente - un’altra realtà e offuscando la distinzione tra ciò che è vissuto davvero e ciò che non lo è: si peregrina secondo modalità quasi kafkiane nei bassifondi di città ostili che sono simbolo di solitudine. Il racconto nel racconto, la narrazione che si mescola tra due mondi possibili, in un gioco di richiami e una fede incondizionata nella fluidità dell’esistenza e nel suo caos, nella sua mancanza di ordine, nel suo intrinseco affidarsi a imprevedibili giri di destino, fortuna e coincidenza, ma anche – imprevedibilmente, appunto - in un’inossidabile slancio salvifico della mente verso la speranza.
In tal modo, un romanzo che comincia come un racconto di morte, si conclude narrando di tre generazioni che, attraverso l’amore, riescono a riconciliarsi con il mondo.


Paul Auster è nato nel 1947 a Newark (New Jersey). Nato da famiglia benestante di origini tedesche, durante l'adolescenza inizia a scrivere le prime poesie. Si laurea nel 1969 alla Columbia University e tra il 1971 e il 1974 vive in Francia. Nel 1974 sposa la scrittrice e traduttrice Lydia Davis, dalla quale ha un figlio, Daniel. Il matrimonio dura solamente quattro anni. Dopo aver divorziato dalla Davis, sposa nel 1982 la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt, dalla quale ha una figlia, Sophie.
La sua carriera di scrittore di romanzi inizia nel 1979 con L'invenzione della solitudine, ma è solo nel 1985 che arriva la consacrazione a livello internazionale con la Trilogia di New York, composta da Città di vetro, Fantasmi e La Stanza Chiusa. Da questo momento Paul Auster diviene uno scrittore di culto e dalle poliedriche attività: scrive per il cinema (Smoke e Blue in the face) e diviene regista (Lulu on the Bridge).


Il cinico rimescolare con la mente gli eventi reali per ‘ri-crearsi’ in una vita parallela non possono tuttavia risolvere il dramma dell’esistenza: forse solo la speranza nell’amore può salvare dall’oblio.

Il libro del giorno: New Italian Epic di Wu Ming (Einaudi)

Questo libro racconta come e perché, negli ultimi anni, molti romanzi italiani si siano attratti e incontrati fino a formare una vasta nebulosa, un "campo elettrostatico" letterario. È la nebulosa della "nuova epica italiana-, come ha proposto di battezzarla Wu Ming dopo il primo avvistamento, nella primavera del 2008. Come un corpo celeste, attendeva solo di essere "scoperta" e descritta. Non è un movimento di autori, ma un dialogo tra libri. Opere diverse, ma costruite su un comune sentire, una rinnovata fiducia nella parola e nel raccontare, un'etica della narrazione che porta a unire attitudine pop e ricerca di storie complesse, sguardi obliqui sulla realtà e visioni di mondi alternativi, sovversione della lingua ed esperimenti "transmediali". Ad aprire questa raccolta è l'ormai noto "memorandum" sul New Italian Epic, in una versione riveduta e ampliata. A seguire, due lunghi interventi esplorano la dimensione sociale e politica di questo nuovo approccio al mestiere di raccontare. Mestiere descritto come pratica di resistenza, perché "l'unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative".

"Forse Wu Ming sta insistendo così tanto (tanto da pubblicarci un saggio) sull’epica, perché è soprattutto la sua produzione che può dirsi epica. Ogni scrittore-critico non può che proiettare la propria estetica sulla produzione altrui, quando la analizza. È il destino dello scrittore-critico, insito nel suo stesso statuto. Ma paradossalmente è proprio uno dei caratteri più marcati dell’epica (la matrice collettiva e, nella sua vita orale, l’anonimato), quello che meno prende in considerazione Wu Ming. Perché? Semplicemente perché queste caratteristiche sono presenti nella tradizione poetica, mentre sono pressoché assenti in quella narrativa"

dal sito Absolute Poetry a cura di Lello Voce
da http://lellovoce.altervista.org/

(Appunti per la nuova epica italiana postato il 2009-02-22 14:50:42 da Valerio Cuccaroni - http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1694)

casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp

New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro di Wu Ming


2009, XIII-208 p., Einaudi (collana Einaudi. Stile libero)

sabato 9 maggio 2009

Hammerstein o dell'ostinazione. Una storia tedesca (Einaudi) di Enzensberger Hans Magnus. Rec. di Silla Hicks

Quando sono arrivato qui, oltre vent’anni fa, mi capitava spesso. Camminavo per strada, e li sentivo, i vecchi, sussurrarmelo alle spalle, il loro dialetto che non capivo, solo qualche parola comprensibile, tagliente, il sibilo di un coltello, all’altezza delle scapole, stramaledetti tedeschi, ce l’avevo scritto in faccia, chi ero.
Col tempo, avevo imparato ad evitarli, ad incassare il collo nelle spalle se proprio dovevo passare davanti alle loro panchine, ma non ho mai pensato di rispondere, di difendermi. Sapevo, già allora, cos’abbiamo fatto. Abbiamo, tutti. Anche quelli nati nel ’72, come me, che la notte dei cristalli non erano nemmeno nella mente di dio (ammesso che quella notte ce ne fosse uno).
Oggi non c’è più tanta gente che ricorda. I ragazzini fuori dai licei non sanno nemmeno che ci sia stata, la Shoà, e forse per questo bruciano le bandiere di Israele. Sono e sembro ancora un tedesco, parlo con il mio accento e porto i miei occhi e i miei capelli, ma non c’è rimasto più quasi nessuno a considerarli il segno del demonio. Di quelli che abbiamo invaso e trucidato, non è rimasto che qualche capitolo nei libri di scuola, ma è nelle ultime pagine, e si sa che la maggior parte delle classi non finisce il programma, così per tanti studenti italiani le SS restano i cattivi di qualche film: non voglio dire di chi, tra loro, si tatua le svastiche, adesso. Sinceramente, spesso, non voglio nemmeno pensare che esista. Perché io sono uno stramaledetto tedesco, e so. Io, e tanti come me, sappiamo di parlare la lingua di chi ha scritto l’abominio di Mein Kampf. E non riusciamo a perdonarcelo, anche se è stato prima di noi: ne portiamo gli occhi azzurri come un lutto, sappiamo di essere nipoti di chi l’ha lasciato fare. Per questo, ci ho messo un po’ prima di trovare il coraggio di leggere questo libro. Perché parlava di quella parte della storia del mio paese che vogliamo dimenticare, di quel bagaglio ingombrante che ci fa vergognare del nostro accento e delle nostre facce, che ci fa desiderare di chiedere scusa, come se potesse valere a qualcosa, dopo milioni di innocenti morti. Perché l’ho sfogliato, riconoscendomi nelle foto, e ho pensato che sì, le razze esistono. Noi, ci assomigliamo. Marie Therese è identica a mia sorella, e io ricordo parecchio Eugen Ott, o almeno lo ricordavo, prima che tutto andasse a rotoli, perchè adesso, coi capelli rasati e venti chili meno, più che un ufficiale del Reich ricordo un deportato, e non c’è bisogno di dire che mi fa piacere, questo, o che mi farebbe piacere, anzi, se fossi ancora capace di gioire di qualcosa..
Ma poi ho cominciato a leggere, e l’ho finito, questo libro, e ho ringraziato dio (sempre ammesso che non sia bestemmia pensare che dio ci fosse, in quegli anni) perché questo libro non parla di SS, o anzi, ne parla, ma parla anche di persone che non si sono fatte abbindolare dal mito della superiorità ariana, che hanno cercato di fermare la follia, che l’hanno combattuta, e pazienza per com’è andata a finire, se ci sono stati gli Hammerstein allora non tutti i tedeschi hanno colpa, ma solo quelli che hanno seguito un pazzo: non è stata la Germania, ma solo una parte, a cercare di distruggere l’umanità del mondo. Non sono una famiglia perfetta, gli Hammerstein, esponenti della Reichswher, nobili eleganti e viziati, il padre che arriva a rimproverare alla figlia bambina di aiutare la servitù piuttosto che bighellonare coi fratellini: piuttosto anticipatici, per quell’aria intrinseca di superiorità che i nati ricchi di tutte le latitudini hanno, sono altezzosi persino nella critica a Hitler, il “caporale impazzito”. Per loro conta saper stare a tavola ed avere una cultura adeguata: disprezzano i burocrati e giudicano volgare l’attivismo nazista, e l’apparente lassismo nell’educazione dei figli, il lasciar loro una sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, da “repubblicani liberi”, sa dello snobismo supremo dell’èlite che si ritiene al di sopra delle regole, proprio mentre l’impone al resto del mondo. Sono gattopardi, gli Hammerstein, anche nella resistenza all’ascesa del male, che doveva apparire loro volgare e, prima ancora che crudele, e sopra tutto ottuso, ignorante, “basso”: scordare in metropolitana la corona funebre inviata da Hitler al patriarca morto è il gesto simbolo del loro disprezzo per un regime che non reputano al loro livello, che “invillanisce” il loro Paese, e che per questo, sopra ogni cosa, non possono riconoscere. E restano aristocratici, anche quando la storia di questa famiglia finisce per intrecciarsi con l’attentato a Hitler nel ’44, la rete di resistenza, coi relativi legami con la Russia, e i figli diventano clandestini partigiani, conoscono i campi di sterminio, mentre le figlie sono spie in giro per il mondo, autentiche pasionarie, estremamente libere e moderne, anche usando il metro di oggi.
E’ un romanzo, ed insieme è tutto vero, le foto, le lettere e le testimonianze di chi ci ha parlato accanto a postume interviste immaginarie, narrazione complessa e corale, tanti, troppi personaggi, e su tutti il vecchio leone, il generale che accettò il patto col diavolo delle relazioni con Mosca e che riteneva che la paura non fosse mai essere un’ideologia, ma anche sua figlia, Marie Therese, la piccola Esi che ride sulla sua moto e vuole trasferirsi in Israele dove vive la sua migliore amica del Ginnasio, che si chiama Wera, ed è ebrea, e che ritroverà da vecchia, nel ’71, dopo il Giappone e la California, e una vita che contiene la sceneggiatura di una dozzina di film.
Perché non si può riassumere, questo libro, che non è una storia, ma la storia, un affresco che rapisce e spaventa, anche, per la musica di Wagner che ne è colonna sonora, opera di accetta e di cesello come le nostre facce, mascelle quadrate e nasi diritti, epopea di una casata che non si è rassegnata alla fine del mondo civile, che ha lasciato la sua Donnafugata per ricacciare indietro l’avanzata della barbarie.
Un libro tedesco, come le persone che racconta.
Perché è così che siamo, nel bene e nel male, sempre: persone che non si rassegnano, che s’impegnano allo spasimo quando credono in qualcosa, e la perseguono a qualsiasi costo, perché avere uno scopo è tutto ciò che chiedono, e non conoscono la resa.
Cocciuti fino alla ferocia figli dell’ostinazione.


(HANS MAGNUS ENZENSBERGER – “HAMMERSTEIN” -2008, EINAUDI, TORINO)
LA PAURA NON E’MAI UN’IDEOLOGIA

lunedì 4 maggio 2009

Su John Fante. Intervento di Vito Antonio Conte

E... poi me ne sto in letargo per lunghi momenti. Mai quanto vorrei. Davvero. Come l'orso nella tana intanto che fuori l'inclemenza del tempo fa il suo. Così vorrei. Mi accontento di lunghi momenti. E faccio cose indicibili. E bellissime. Qualche tempo fa (questa posso dirla) ho rispolverato la mia (scarna) collezione di LP, vecchi vinili 33 giri, e tra questi: Teddy Pendergrass, Tiny Bradshaw, Randy Crawford, Count Basie, Jim Croce, Teddy Wilson, Paolo Conte, George Thorogood, Led Zeppelin e... King Crimson: “The Compact King Crimson”: un album doppio che raccoglie il meglio di questo gruppo e che allora non ho potuto ri-ascoltare perché il mio piatto-stereo l'avevo portato da tempo in campagna e, comunque, è (tutt'ora) privo di “puntina”... ho ordinato il CD dove ci sono i pezzi che amo di più: “In The Court Of The Crimson King”; adesso lo ascolto a go-go. Un'altra volta ho tirato giù tutti i libri della mia biblioteca: migliaia... In fine, ho ridisposto (secondo un ordine diverso da quello precedente) volume dopo volume nelle librerie fin quasi all'alba... Ogni tanto penso di liberarmi di ogni cosa. Talvolta l'ho fatto. Quella volta dei libri, pensavo: e se vendessi l'intera biblioteca al tizio romano di Ponte Milvio? Poi me ne sto in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Alla lettera “effe” c'è ancora Fante, John Fante... Ho letto i libri di John ché me l'ha consigliato Charles. Posso leggere mille e mille poesie di altrettanti poeti, ma quando rileggo un solo verso di Bukowski, ogni volta, mi dico: questa è la poesia che amo di più. Il resto è tale. Residuo. Capite perché quando Bukowski dice che tra i pochi che val la pena di leggere c'è Fante, gli credo. Se Fante “circola” ancora è soprattutto merito di Hank (tra l'altro, lo ha citato in “Donne” e gli ha dedicato una raccolta di poesie). Di “Dago Red” (Einaudi, Stile Libero) ricordo (chissà perché) l'ultimo racconto, “Ave Maria”, e sul libro non c'è traccia del passaggio dei miei occhi e delle mie dita. D'altro sì. A pagina 231 di “Chiedi alla polvere” (Einaudi, Stile Libero) c'è scritto: “7 giugno '05, ore 13:59, se / qualcuno / parla / male / della / mia / poesia / c'è...”, che non so più perché l'ho scritto. A pagina 238 di “Aspetta primavera, Bandini” (Einaudi, Stile Libero) è annotata una data e un'ora: “23 agosto 2005, ore 10:50”. A pagina 228 di “La confraternita dell'uva” (Einaudi, Stile Libero), secondo altri “La confraternita del Chianti”, c'è soltanto una data annotata a matita: “2.9.2005”. A pagina 154 di “Sogni di Bunker Hill” (Einaudi, Stile Libero), con una biro a inchiostro azzurro, ho annotato, tutto a lettere: “è il quattro settembre duemilacinque, c'è un cielo nuvolo e triste, neppure un alito di vento, alle diciotto e trentasei il fumo della mia sigaretta ruba l'aria residua, la mia bmw ha problemi di carburazione (forse il ciclere di minimo?), il sudore appiccicato sul viso, più tardi a Sud (ancora), verso le Centopietre...”. Pagina 152 di “Full of Life” della Collana Tascabili di Fazi Editore era bianca: sopra c'ho scritto: “16.9.2005, John bella storia, sei (non eri) forte... davvero (...)”. A pagina 206 di “A Ovest di Roma” (Fazi Editore, Collana Tascabili), dopo l'ultimo rigo del romanzo (“Era l'alba quando tornammo a casa”), è scritto (sempre di mio pugno) “24.X.2006”. Nient'altro. Appena dopo l'inizio di questa primavera ho finito di leggere “Un Anno Terribile” (Fazi Editore, Collana Tascabili, pagine 142, € 7,74) e in nessuna pagina è annotato alcunché: dirò qualcosa adesso. Qualcosa in più delle -a dir poco- lapidarie notazioni sui libri su citati. Sempre meno di quanto hanno già notato Gianni Amelio, Emanuele Trevi, Vinicio Capossela, Niccolò Ammaniti, Domenico Starnone, Fernanda Pivano, Alessandro Baricco, Sandro Veronesi e altri ancora. Sempre meno. Ché, lo sapete, a parte tutto, mi piace sottrarre. Non vi dirò, quindi, che Fante è considerato tra i maggiori scrittori del Novecento americano, né che di lui e della sua scrittura si sono occupati, a diverso titolo, critici, artisti, scrittori e laureandi, i quali ultimi hanno speso la loro passione per le sue opere trasfondendola nelle loro tesi di laurea. Vi dirò, invece, di questo romanzo breve, inedito finché Fante è vissuto e pubblicato postumo per volere di sua moglie Joyce. Intanto c'è una bella copertina: “New Kids in the Neighborhood” (1967) di Norman Rockwell: tre ragazzi, due maschi e una femmina, davanti alla grossa ruota posteriore sinistra di un grande furgone (postale?) color avorio e, con loro, un cane seduto che rievoca un altro titolo fantiano: “Il mio cane Stupido”. Uno dei tre ragazzi è abbigliato da giocatore di baseball. E non è un caso. Tutta la storia di “Un anno terribile”, infatti, ruota intorno al diciassettenne Dom Molise e al suo Braccio mancino. Un ragazzo di umilissime origini che sogna di diventare un giocatore professionista di baseball, nonostante tutto il mondo, dal microcosmo in cui vive a quello che ancora ignora e che un giorno (sogna) non potrà fare a meno di parlare di lui tanto diventerà famoso, gli giri contro. Lo si comprende subito dall'incipit del romanzo: “Era duro, l'inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi” (mi ricorda qualcosa che non dirò per non citarmi addosso). Dom Molise è un lanciatore e non c'è avversità che possa distoglierlo dal sogno del baseball, non v'è umiliazione che possa ferirlo fino a far annichilire quel desiderio, non esiste condizione -per quanto miserrima- che possa far naufragare quell'illusione. Non il padre muratore disoccupato da mesi, non la madre ferita dall'assenza del marito, non la nonna e il suo dialetto abbruzzese sputato contro ogni cosa di quella giovane America, non i fratelli molto più concreti di lui, non la povertà amplificata dal tenore di vita del suo ricco miglior amico, non l'amore non corrisposto e irriso per Dorothy, non l'apparizione della Vergine Maria... “Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze. Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga”. Questo libro (che Fante non volle pubblicare perché pur ritenendo il “materiale attraente” non stimava la storia “importante”), come tutti i libri di Fante, disvela un'altra parte della sua vita e, una volta ancora, l'odio-rancore-amore verso il padre e la sua famiglia d'origine. Questo libro è l'ennesima ricerca della storia di una saga famigliare, cui non è celata nessuna sfumatura, ma nel quale -anzi- si rinvengono pezzi che s'inseriscono perfettamente nel grande puzzle della scrittura di Fante e ne completano un'epopea. Chi vuol saperne di più della vita e della leggenda di John Fante legga (anche) la particolareggiata biografia scritta da Stephen Cooper “Una vita piena” (per i tipi di Marcos y Marcos, 2001, pagine 327, € 18,08). Adesso lascerei scorrere “I talk to the wind” ...poi me ne starei in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Ma voglio dirvi un altro paio di cose: la prima: “e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell'epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela”. La seconda: mi accade, da un po' di tempo, di associare l'aggettivo “terrìbile” alle cose più importanti e più belle di questa esistenza e... non so cos'è (o, forse, sì); e chissà perché mi viene in mente che un giorno del 1980 Hank (Bukowski) andò a trovare John in ospedale (già minato dalla malattia che lo avrebbe progressivamente reso cieco, privato -per amputazione- delle gambe e portato altrove...) e (riferendosi a Camilla Lopez, splendido personaggio di “Chiedi alla polvere”) gli chiese: , Fante gli rispose: . Li vedo ancora ridere di gusto insieme. Circa tre anni dopo, l'otto maggio millenovecentottantatre, alle tre del meriggio, John si confuse con le rondini nel cielo che odorava di primavera. Qui, la primavera (ormai, mi dicono) porta soltanto rondoni. Io continuo a vedere le rondini.

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Il libro del giorno: Grotteschi e arabeschi di Vitaliano Trevisan (Einaudi)

Dall'incontro fra Vitaliano Trevisan e l'universo di Poe nasce uno sguardo limpidamente classico e insieme feroce, capace di narrare l'autentico orrore. Che si tratti di una famiglia oscena e di una madre moribonda che sa nascondere segreti - il più atroce dei quali solo al lettore sarà svelato - o di un uomo che vuol raschiare via dalla casa ogni traccia della donna che l'abitava, o del più spietato ritratto di artista italiano contemporaneo che possiate immaginare. In questo libro la lingua dello scrittore vicentino raggiunge un equilibrio e una originalità nuovi proprio mentre l'autore fa un salto all'indietro di due secoli e dichiara di ispirarsi al maestro del racconto: Edgar Allan Poe.

casa editrice Einaudi: www.einaudi.it

" (...) una scrittura davvero straordinaria, in cui periodi brevi e brevissimi si alternano ad altri ricchi di subordinate, l'invettiva si sposa con i toni pacati e riflessivi, l'iterazione ossessiva lascia il posto alla necessità citazionistica, al riferimento ad altri universi letterari ripresi e ricontestualizzati per raccontare in modo nuovo un mondo insensato e feroce"

Felice Piemontese

da Il Mattino di Napoli, p. 14, del 4/05/2009

Grotteschi e arabeschi di Vitaliano Trevisan
95 p., brossura
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero big)

sabato 2 maggio 2009

Il libro del giorno: Il campo di cipolle di Wambaugh Joseph (Einaudi)

Los Angeles, 9 marzo 1963. Campbell e Hettinger, due agenti di pattuglia che lavorano da poco in coppia fermano un'auto sospetta. A bordo due delinquenti di piccolo cabotaggio con una lunga storia di reati e carcere alle spalle. I due criminali disarmano i poliziotti, li rapiscono e, dopo un lungo tragitto in auto sulle freeways intorno a Los Angeles, li portano in un campo di cipolle. Ed è nella polvere di una sterrata di campagna, nell'odore pungente delle cipolle, che si consuma la tragedia, tanto più atroce quanto più assurda: Campbell viene ucciso a colpi di pistola. Hettinger riesce a scappare. Nel giro di poche ore, i colpevoli vengono catturati, ma il finale della loro storia è ancora lontano e tutt'altro che consolatorio. Inizialmente condannati a morte, i due assassini affronteranno una serie di processi che, a vent'anni dall'omicidio, li porterà alla scarcerazione. Quanto a Hettinger, lascerà la polizia e trascorrerà tutta la vita in una spirale di dolore, rimorso e autodistruzione. Wambaugh racconta una vicenda vera e terribile da ex poliziotto, scrittore e profondo conoscitore della psicologia umana. Il risultato è una riflessione dolente sulle imperfezioni e i fallimenti della giustizia, e sul retaggio di sofferenze e crudeltà che accompagna ogni fatto di sangue, segnando l'esistenza dei colpevoli come delle vittime in modo irreparabile.

casa editrice Einaudi: www.einaudi.it

"Il libro è una riflessione sulla giustizia che non sempre funziona come dovrebbe e su come ogni fatto di sangue segna l'esistenza dei colpevoli e delle vittime in modo irreparabile. Una vera chicca l'introduzione di James Ellroy, ch vale già da sola un salto in libreria"

Dario Goffredo

da CoolClub n. 52, aprile 2009, p.48

Il campo di cipolle di Wambaugh Joseph
Traduttore Oddera B.
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero. Noir)

martedì 7 aprile 2009

MADREZMA - White Angel

In tutta sincerità ho dovuto prendermi il tempo necessario per ascoltare il lavoro dei Madrezma, e quando ci vuole tempo per metabolizzare un prodotto in ambito culturale o musicale, vuol dire che non si tratta di roba da poco.
O meglio richiede quel tanto di impegno per andare oltre rispetto a considerazioni superficiali che comunque vanno fatte per poter offrire un quadro quanto più esatto possibile. Sul loro myspace fanno un elenco di possibili influenze che nella loro musica si registrano, si percepiscono a pelle, ed è giusto visto che sono all’inizio e non si può certo parlare di maturità sia sul piano compositivo, che su quello prettamente tecnico. Devo comunque dire che il livello della band dalla batteria che non sdegna preziosi virtuosismi anche in controtempo, al basso e alla chitarra, risulta essere di un livello medio alto.
Il sound è vigoroso, a tratti acidulo, buona la resa vocale anche nei momenti corali, insomma come nella migliore tradizione dai Nirvana sino ai Subsonica. Interessante la ricerca testuale dalla quale traspira un forte decadentismo naturalmente di matrice post-moderna, macchiato di una giusta dose di noir, dark e filosofia punk (Abitudine e Schiacciami) Se fossero un libro potrei solo indicare un titolo: Costretti a sanguinare di Marco Philopat edito da Einaudi qualche anno fa.

Il loro myspace è http://www.myspace.com/madrezma
Il loro album ha come titolo White Angel


Il progetto MADREZMA nasce dall'incontro di Pablo Abbrescia (voce,chitarra), Dodo Sibillano (basso,voce) e Rino Petrosino (batteria) alla fine del 2007. Dopo meno di un mese si esibiscono per la prima volta insieme dal vivo e capiscono che non possono più farne a meno. Seguono quindi presto altre esibizioni live,tra cui quella in acustico al Teatro Kismet Oper di Bari,in occasione del "Controfestival 2007".
Alla formazione iniziale si unisce a gennaio del 2008 "il Dona" Alessandro Donadei (chitarra solista, col guanto) l'elemento mancante che rende esplosiva la reazione MADREZMA

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