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sabato 29 settembre 2018

Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Libri consigliati

Freud e la Psicoanalisi
Gli Archetipi dell'Inconscio Collettivo Voto medio su 2 recensioni: Da non perdere
Il Libro Rosso - Liber Novus Voto medio su 3 recensioni: Da non perdere
Opere - Vol. 17: Lo Sviluppo della Personalità
Opere - Vol. 18: La Vita Simbolica
Realtà dell'Anima Voto medio su 1 recensioni: Da non perdere
Tipi Psicologici Voto medio su 1 recensioni: Buono
Opere - Vol. 7: Due Testi di Psicologia Analitica
Introduzione alla Psicologia Analitica
Psicologia dell'Inconscio. Ediz. Integrale
Ricordi, Sogni, Riflessioni Voto medio su 3 recensioni: Da non perdere
Goethe e la Psicoterapia
Opere. Vol. 15: Psicoanalisi e Psicologia Analitica
Complesso Archetipo Simbolo nella Psicologia di C.G. Jung
Diario di una Segreta Simmetria
Jung il Mistico
Introduzione a Jung
Jung Voto medio su 1 recensioni: Da non perdere
Pauli e Jung

lunedì 24 agosto 2009

Gianni Ottaviani presenta ARCHEOPATIE II


















La mostra coincide con il 50° anno di attività dell'artista Gianni Ottaviani , Milanese di adozione ma di origine Picena. In tale periodo Ottaviani ha operato sia come pittore-scultore sia come curatore ed organizzatore di eventi artistici nazionali ed internazionali, come tra l'altro:
Dal 5 ottobre 1995 al 2 ottobre 1996 mostra personale " Archeopatie " a cura del Comune di Milano-Settore Culura e Spettacolo e Civiche Raccolte Archeologiche nella sede del Museo Archeologico. Nel 2005 su incarico della Direzione del Ministero della Cultura della Turchia ha sovrinteso all'organizzazione della " Ia Biennale Internazionale d'Arte " di Ankara della quale è stato anche Presidente della Giuria.

Questa esposizione al Vittoriano con 66 opere tra singole e polittici corona la seconda fase della sua ricerca iniziata negli anni '80 che consiste, come dichiarato nella prefazione al catalogo edito dalla Editoriale Giorgio Mondadori, nello "…scavare nella memoria,documentare,ricostruire e riappropriarsi ". La sua è un'operazione quindi sulla memoria, sui frammenti, sui reperti del vissuto che ognuno di noi si porta dietro, spesso nell'inconscio.
" Archeologia dell' Io" forse l'avrebbe chiamata Freud. In quest' occasone l'artista esporrà anche una grande opera di mt.7x1,50 eseguita negli anni 2005-2006 formata da 17 pannelli ,dedicata al Cavallo suo soggetto preferito in precedenti periodi creativi, che gli è stata ispirata dal detto Islandese " Un uomo da solo è un mezzo uomo, un uomo con un cavallo è un uomo e mezzo".
Per realizzare l'opera Ottaviani ha effettuato una ricerca,quasi archeologica, su come è stato rappresentato nei pù disparati campi dalla preistoria ad oggi (arte,artigianato,pubblicità,giocattoli ecc.) quello che è stato un indispensabile mezzo per lo sviluppo dell'umanità. Il Circolo Ippico " Il 13 Rosso " di Rignano Flaminio in simbiosi con l'opera dell'artista proporrà il giorno dell'inaugurazione un suo particolare omaggio al Cavallo con una manifestazione ippica e in costume all'esterno del Vittoriano.

GIANNI OTTAVIANI _ ARCHEOPATIE II
Mostra personale, Complesso del Vittoriano - Roma
10 - 23 settembre 2009
inaugurazione 10 settembre ore 18

domenica 16 agosto 2009

Fortune e miserie del counseling filosofico. Di Mimmo Pesare (seconda parte)

















Scomposizione, ricomposizione, disamina e indagine. Attraverso questi quattro step, dunque, sarebbe possibile cristallizzare l’interpretazione di tutti i possibili casi umani e portare una soluzione ai relativi dilemmi. In questo modo, continua Lahav, sentimenti quali la mancanza di fiducia, il senso di melanconia, il pudore eccessivo e la sensazione di non farcela, lungi da una visione come quella di Hillman, secondo il quale tali passioni deboli sono altrettanto ricche e costituiscono chiavi di lettura privilegiate della propria anima, possono essere modificate in direzione cognitivista, armeggiando, cioè, all’interno della propria visione del mondo!
Al contrario della più condivisibile lezione di Achenbach, secondo il quale il counselling consisterebbe in una continua reinterpretazione di se stessi e del mondo, dunque in un’ottica ermeneutica, Lahav ritiene invece che la meta di tale pratica sia la formazione di un’immagine stabile di sé (cfr. p. 32), della propria vita, da adottare come visione del mondo nuova di zecca e che sostituisca la propria originale visione del mondo malandata. La consulenza filosofica, pertanto, costituirebbe una soluzione umanistica a chi “chiede un senso alla propria esistenza”. Questo, nell’opinione di chi scrive, rappresenta l’elemento di maggiore problematicità: un senso. Secondo Lahav la phronesis, la saggezza pratica che il counselling dovrebbe dispensare, sarebbe equivalente del senso, di “un” senso, ossia dell’unica chiave d’accesso a una normale razionalizzazione del proprio vissuto. Il’y a du sense, amavano ripetere negli anni Cinquanta gli esistenzialisti di matrice fenomenologica: c’è del senso, c’è un senso per ogni cosa e trovandolo si accede alla verità.
Probabilmente, però, la fluidità contemporanea di cui si diceva all’inizio, mal si presta a un tipo di rassicurante contenitore come quello suggerito da Lahav; pare difficilmente proponibile, oggi, una visione della saggezza come struttura soterica. Una salvezza preconfezionata e, in qualche modo, “impartita” appare né più né meno che una pallida versione laica dei catechismi elargiti negli oratori del boom economico italiano...poco cambia il fatto che tale approccio alla propria vita sia nobilitato dai contenuti alti del pensiero filosofico, poiché il messaggio di fondo è che esiste un senso come risposta alle cose, e questo senso viene dall’esterno. Tale concezione soterica del counselling mina alla base i processi dinamici di costruzione del Sé, che, invece che arroccarsi dietro i baluardi di una legittimazione di senso unitaria e salvifica, crescono e si strutturano attorno a una visione della propria vita quale racconto e costruzione graduale e continua, come nella lezione di Kohut (1978).
Risulta molto pericoloso, infatti, barattare un periodo di crisi personale con una soluzione cognitiva alle vicissitudini interne che il processo di crescita individuale impone come stepping-stone psico-emotiva. Questo perché se nella visione del mondo del consultante, la saggezza del consulente viene avvertita come antidoto ai propri malesseri, si va a colludere con la mancanza di senso del primo. Un esercizio come quello del counselling, pertanto, non dovrebbe rappresentare la nostalgia unificatoria in una presunta normotipia da “maestro di vita”; al contrario – e prendendo umilmente il contributo dell’epistemologia psicoanalitica – il counselling dovrebbe educare, servendosi dei concetti (e non di altri strumenti che non possiede) a un abbandono al pluralismo evenemenziale insito naturalmente nella casualità della vita umana. Quest’ultima, in senso profondo, è fondamentalmente una costruzione interminabile (Freud 1937).
Per questa ragione il pericolo più concreto che viene da una razionalizzazione del vissuto, come auspica il contributo di Lahav, è quello di creare un gap per il quale nei momenti di assenza di razionalità (e la vita quotidiana ne è piena!) la reazione emotiva del consultante sarebbe di burn-out, ossia caratterizzata da una impossibilità di contenere la situazione traumatica. Allo stato del discorso, dunque, si sarebbe di fronte a una dicotomia tra la tentazione di una saggezza soterica e sistematrice, da una parte, e una educazione all’abbandono nei confronti della multiformità della vita, dall’altra. Quest’ultima, nell’opinione di chi scrive, e seguendo la lezione di Kohut, costituisce una possibilità più concreta di contenere ed elaborare il proprio vissuto problematico; un atteggiamento, insomma, più che una “soluzione” (apparentemente) decisiva come quella di assumere una visione del mondo diversa dalla propria. Del resto, come riteneva lo stesso Jaspers (1919), ogni visione del mondo, non importa se espressa in forma mitologica o concettuale, inerisce all’intima esistenza di chi la professa e nell’esistenza di ognuno di noi coesistono le cosiddette situazioni-limite, cioè ossia quei “luoghi” in cui l’esistenza sperimenta lo scacco della ragione cartesiana, il naufragio verso il nulla ma insieme anche la possibilità di una esperienza di vita “autentica”:
Situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere irrimediabilmente la propria scelta, di dover morire (...) Esse non mutano in sé ma solo nel loro apparire; nei confronti del nostro essere hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a guardarle in faccia con coraggiosa chiarezza, senza poterle spiegare o giustificare in base a qualcosa. Esse sussistono con l’esserci stesso. (Jaspers 1932, p. 678)

Se, allora, la consulenza filosofica si deve rivolgere all’esistenza del consultante, questa deve essere interpretata in senso ermeneutico e secondo la sua chiave etimologica più profonda: e-sistenza come “posto eccentrico”, dove cioè, convivono situazioni “normali” e situazioni-limite. E siccome la filosofia “lavora” coi concetti e non con strumenti terapeutici che appartengono ad altre scienze, l’unico vantaggio che può venire da un approccio filosofico ai dilemmi umani è esclusivamente il riconoscimento di tali situazioni limite e la possibilità di “nominarle” attraverso i concetti. Come scrivono, infatti, Deleuze e Guattari (1991), “il filosofo non è chi dispensa saggezza, ma chi forma concetti” (p. 25).
I concetti, al massimo, possono essere elementi mediatori di come ci rappresentiamo il mondo e di come percepiamo il nostro vissuto, non certo produttori di Weltanschaungeen a domicilio. Per questa ragione, probabilmente, il ruolo del consulente filosofico come dispensatore di visioni del mondo, non solo mal si presta a una cura animi che deve necessariamente fare i conti con altri saperi e altre competenze (per non creare più danni di quanti ne voglia lenire), ma oltretutto cozza con lo stesso spirito originario della filosofia socratica, che tendeva a trarre fuori dal soggetto la propria personalissima saggezza e non, al contrario, a instillarne una, per così dire, “esogena”.
Del resto già Freud, nella lezione 35 dell’Introduzione alla psicoanalisi (1917), non mancava di esplicitare tutto il suo sospetto e il suo sarcasmo per un’accezione di Weltanschaung come sinonimo di “determinismo”; questo perché, secondo lo psicoanalista viennese, il lato più pernicioso di una visione del mondo intesa come antidoto alle insicurezze e alla sofferenza, è quello di presentarsi alla mente come una “macchina erogatrice di verità e norme” (p. 218). E la verità, secondo Freud, ha come suo contrario non la menzogna o la non-verità, ma la ricerca, cioè il nucleo stesso dello spirito filosofico. Se allora l’errore metodologico della filosofia è quello di sopravvalutare la portata conoscitiva delle operazioni logiche, un’esperienza quale quella jaspersiana delle situazioni-limite dovrebbe essere non solo “non risolta”, ma esperita quale sorgente di auto-chiarificazione e auto-interpretazione senza soluzione di continuità a vantaggio della propria peculiarissima costruzione interiore.
In questo senso, la consulenza filosofica non può sostituirsi alla psicoanalisi come sua versione light, né potrebbe probabilmente ritagliarsi un suo campo d’azione autonomo basato sulla “produzione e vendita” di visioni del mondo take-away o di “immagini stabili di sé”: la costruzione di sé è un processo fondamentalmente emotivo e non esclusivamente cognitivo – come si tende a pensare – , pertanto se la filosofia lavora coi concetti, un consulente filosofico che voglia rispondere coerentemente allo statuto epistemologico della disciplina che ha deciso di abbracciare, potrebbe essere più utile ai dilemmi di chi decide di affidarsi alle sue foucaultiane cure trattando i concetti come alleati (Deleuze, Guattari 1991) delle emozioni, cioè come catalizzatori e chiarificatori di esse, e non, al contrario, come strumenti di stabilizzazione e di correzione del vissuto personale della gente.


Bibliografia:

Achenbach, G, 2005, Il libro della quiete interiore, Milano, Apogeo.
Achenbach, G., 1984, Philosophische Praxis, Köln, Dinter.
Achenbach, G., 2001, Lebenskönnerschaft, Freiburg - Basel - Wien, Herder.
Achenbach, G., 204, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo.
Birnbacher, D.; Krohn, D., 2002, Das socratische Gespräch, Stuttgart, Reclam.
Contesini S., Frega R., Ruffini C., Tomelleri S., 2005, Fare cose con la filosofia, Milano, Apogeo, 2005
Deleuze G., Guattari F., 1991, Qu’est ce que la philosophie?, Paris, Minuit; tr. it., 1996, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi.
Dill, A., 1990, Philosophische Praxis, Fischer, Frankfurt.
Freud S., 1917, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, in ID., 1968, Gesammelte Werke, 18 vol., Frankfurt a.M., Fischer; tr. it., Introduzione alla psicoanalisi, in Id., 1969, Opere, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri.
Freud S., 1937, Konstruktionen in der Analyse, in ID., 1968, Gesammelte Werke, 18 vol., Frankfurt a.M., Fischer; tr. it., Costruzioni nell’analisi, in Id., 1969, Opere, vol. XI, Torino, Bollati Boringhieri.
Galimberti, U., 2005, La casa di Psiche, Milano, Feltrinelli.
Heidegger M., 1943, Vom Wesen der Wahrheit, tr. it., Dell’essenza della verità, in ID., 1976, Wegmarken, Frankfurt a. M., Klostermann; tr. it., 1987, Segnavia, Milano, Adelphi.
Jaspers K., 1919, Psychologie der Weltanschauungen; tr. it., 1950, Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio.
Jaspers K., 1932-1955, Philosophie; tr. it., 1978, Filosofia, Torino, UTET.
Kohut H., 1978, The search for the Self, Madison, Conn., International Universities Press; tr. it., 1982, La ricerca del Sé, Torino, Bollati Boringhieri.
Lahav, R., 2004, Comprendere la vita, Milano, Apogeo.
Lahav, R.; Tillman, M., 1995, Essays on Philosophical Counseling, Lanham/New York, Univ. Press of America.
Màdera, R.; Tarca, L., 2003, La filosofia come stile di vita, Milano, Bruno Mondadori.
Marinoff, L., 1999, Plato, not Prozac!, Harper Collins, New York; tr. it., 2000, Platone è meglio del Prozac, Casale Monferrato, Piemme.
Marinoff, L., 2002, Philosophical Practice, San Diego, California, Academic Press.
Pollastri, N., 2004, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano, Apogeo.
Raabe, P. B., 2000, Philosophical Counseling. Theory and Practice, Westport, Praeger.
Raabe, P. B., 2002, Issues in Philosophical Counseling, Westport, Praeger.
Raabe, P., 2006, Teoria e Pratica della consulenza filosofica, Milano, Apogeo.
Rovatti, P. A., 2006, La filosofia può curare?, Milano, Raffaello Cortina.
Ruschmann, E., 2004, La consulenza filosofica, Messina, Armando Siciliano.
Sautet, M., 1995, Un café pour Socrate, Laffont, Paris; tr. it., 1998, Socrate al caffè, Milano, Ponte alle Grazie.
Schuster, S., 1999, Philosophy Practice, Westport, Praeger.

sabato 13 giugno 2009

L'ultimo dandy di Klaas Huizing (Nutrimenti Edizioni). Rec. di Vito Antonio Conte

Siete stanchi del vorticoso inseguirsi, spesso senza alcunché di autentico, degli umani e delle cose terrene? Ne avete abbastanza di strade, specie se mal costruite, di vie smerdate, edifici fatiscenti e intere città che crollano, sbriciolandosi come le vite di chi, per un motivo qualunque (a volte, senza motivo), le abita, aggiungendo vuoto alle vuote teste (ché il danaro -in fine- è segatura) di chi le ha tirate su come se fosse un gioco, quello della torre di quaranta carte (napoletane o piacentine, poco importa), perdendosi in qualche cazzo di paradiso fiscale prima del primo vento? Altra domanda retorica: siete esausti di sentire ripetere le stesse identiche parole a ogni nuovo disastro, evitabile o no? E un'altra domanda inutile: ne avete le palle piene di tutte le speculazioni (e rimarco “TUTTE”) sul sangue e sul dolore e di quelle (speculazioni) che non lasciano neppure che madre Natura cicatrizzi le ferite? A retoriche domande, scontate risposte (auspico!). E allora generiamo un gran bel black-out. Compresa la contraddizione!?! Nessuna retorica qui. Bene, muoviamoci. Vi porto, se volete, nell'altrove che mi sono concesso (dopo aver fatto la mia misera parte!) nello strazio di questi giorni. Immaginate (per un attimo o, se preferite, per il tempo che vi pare) di trovarvi su una spiaggia, col mare davanti agli occhi. È una distesa d'azzurro che, sull'incerta linea d'orizzonte, trapassa un altro infinito dello stesso colore, solo un po' meno liquido, ma non c'è stacco, ché quegli azzurri si congiungono confondendosi. E se così è, avrete capito che l'ora è quella mattutina. D'etereo etereo. Poi, volgete lo sguardo d'intorno: non c'è altro che sabbia: di battigia, d'arenile, di dune. Siete ancora sulla Terra? Ribaltate l'oggetto del vostro guardare con una rotazione completa di 360°. Non ce la fate? La vertigine vi blocca? Vi si tappano le orecchie? Nessun problema: liberate il tutto masticando piano il momento, come se aveste una chevingum (senza ponti da attraversare, né altro). Immaginate che quella spiaggia, quelle dune, quella luce, quel nitore, quel mare siano oltre le nuvole, quelle bianche ovattate nuvole che preludono al meglio. Al cielo. È, senza dubbio lo è, un aldilà e lì c'è l'ultimo dandy, un uomo che -qualche tempo fa- è passato sulla Terra, su quella Terra, la vedete da quassù?, ch'è sempre più prossima a una carogna animale sulla quale volteggiano altri animali pronti al macabro banchetto finché si può, sino alle ultime briciole. Su questa spiaggia, invece, l'ultimo dandy passeggia rammentando quel ch'è stato e i suoi passi sono eleganti e leggeri, come gli abiti che indossa. Il dandy non ha lasciato nulla al caso: ha vissuto intimamente e individualmente ogni respiro, ha dato al mondo la sua parvenza, un gran bell'apparire, tormentato dall'etica esistenziale che covava nel profondo del suo essere sempre mal combaciante con quella comune, ha previsto sinanco l'anno della sua morte, fallendolo, e poi cercando e trovando quella (morte) che soltanto uno stupido poteva attribuire a terzi (quelli l'avevano ucciso già da un pezzo). Ha vissuto negli agi il dandy, amando Regina Olsen, amandola per sempre, amandola senza poterla avere, ché anche quando la possedeva era condannato alla sua assenza, rimpiangendola per via di una maledizione (ereditata dal padre insieme alle rendite) che soltanto nella sofferenza della rinuncia poteva spezzare. In un anelito di sprezzo per le umane diatribe e di ricerca continua dell'assoluto. Da immalinconire. Da paralizzare. Da viaggiare. Da impazzire. Da morirne. L'antidoto lo trovò nella scrittura. Qui, i suoi passi incontrano quelli di Thomas, il quale gli chiede di condividerli, almeno per un po', ché sarebbe un gran bell'andare insieme (oltre che un vero onore), ché ha sempre stimato il suo vestire fuori dalle mode, con ricercatezza e raffinatezza ineguagliabili, ché ha sempre apprezzato il suo pensiero, ben oltre le speculazioni degli esistenzialisti. Soren, che ama l'adulazione, si fa accompagnare e confida a Thomas che, deluso dalle dicerie sul suo conto (che ancora circolano sulla Terra), va meditando di scrivere un'autobiografia. Thomas, raggiante di giubilo per essere stato messo a parte di questo segreto, si offre per raccogliere le confidenze di Soren e lo prega -in segno di grande affetto- di chiamarlo Tommy. Insieme percorrono larghi tratti del Celeste. L'ultimo dandy è Soren Aabye Kierkegaard, nel mentre Tommy è Thomas Mann, come dire: quando la teologia (nelle sue forme più alte) incontra la letteratura (quella da premio Nobel). Su questo sfavillìo di colori, i due si abbandonano a giochi bambini e a riflessioni sui massimi sistemi condite di una buona dose di ironia e con quel pizzico di autoironia che fa di un uomo un grande uomo. Qui, Soren disvela a Tommy le amarezze del pregresso vivere terreno, le tristezze dei salotti e dei circoli chiusi, le prepotenze dei potenti sui più deboli, la pochezza di una Chiesa sempre più secolarizzata e sempre meno depositaria della primigenia spiritualità, le malinconie del suo mai spiegato dolore fisico, l'origine dello stesso, forse rinvenibile (per trasmissione) nella maledizione che gravava su suo padre per aver questi bestemmiato iddio a cagione della sua (iniziale) povertà o per averlo (una volta diventato ricco) offeso seducendo la giovane cameriera (madre di Soren) a pochi mesi dalla morte della moglie, l'unico vero rimpianto e l'eterno pianto per il suo artato comportamento verso Regina Olsen, pronta a sposarlo contro ogni paventata maledizione e nonostante ogni attuata malefatta. Parlano i due. Di questo e d'altro, parlano. Invero, parla soprattutto Soren. E Thomas se ne prende cura, ascoltandolo e stimolandone la loquacità, talvolta anche accennando a sé e alle sue opere, delle quali, però, limita il dire a meri incipit, forse all'unico fine di aprire intimità a intimità, sì che i loro passi siano condivisione estrema. In questo Celeste liquido e gassoso ho incontrato Soren e Tommy. Sullo sfondo abbiamo lasciato Hegel che litigava con Schelling, Freud che rimbrottava Jung e una schiera di altri grandi del passato intanto che da un gazebo (manco a dirlo, di tela bianca) si diffondevano le note di Mozart e tutte le disgrazie del mondo affogavano nelle nostre risate e nella lettura. Nella lettura di questo libro che ha poco di filosofia e molto di vita. Il libro è “L'ultimo dandy” (Nutrimenti Edizioni, 2005, pagg. 200, € 15,00), di Klaas Huizing. Ora me ne torno alle quotidiane occupazioni, mi prendo cura dell'ordinario, ma non posso fare a meno di pensare che finita un'ossessione ne comincia un'altra. “D'altra parte, all'epoca, soffrivo meno di quanto forse credi. Ho curato la mia ossessione per il pensiero con l'ossessione per il lavoro... Mi sono curato da me. Sai qual è la parola chiave? Bagni di scrittura!”. Bagni di scrittura... Adesso, volendo, potete scendere. Con stile, però.
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