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martedì 8 luglio 2014

Grandi sorelle di Nino G. D'Attis (Lupo Editore). Intervento di Nunzio Festa



Dal mondo di Passignaro Salentino al mondo della disco e dei flash che ammazzano. Teresa, sorella minore, cubista nei locali notturni quando non bada a un anziano professore. E la maggiore Ester, bodybuilder e personaggio chiacchierato degli ambienti romani. Da Passignaro allo scandalo. Sono le protagoniste, compreso lo scandalo, del romanzo dello spericolato Nino G. D’Attis. La solitudine di due sorelle, che avranno destino ovviamente diverso. A forza d'estremo disorientamento nelle cose del mondo. Mentre i flussi di coscienza di Teresa fanno il racconto della sconfitta. Il racconto della minore delle "Sorelle Ficainfiamme". Per l'altra disperazione, questa volta del povero padre Pietro; papà che per difendere l'onorabilità delle due figlie diede un biglietto d'ingresso al pronto soccorso del paesello al presentatore di grido Dubini. Tutto messo su you tube. Alla comoda cifra di 68.634.369 visualizzazioni. In realtà Teresa Malina, a differenza della sorella Ester, passata tra gossippate ecc., è protagonista positivo della storia. Ovvero l'unica figura, nemmanco la madre..., prova fermamente a contrastare la "decadenza" del presente. Dove, comunque, la sua famiglia squazza. Fino alla morte, per dire, del poverà Pietro. Le figure più belle del romanzo, comunque, sono la madre delle Ficainfiamme e il professore che, nell'immaginazione di qualcuno ?, da consigli ed esperienza, chiaramente, a una Teresa già cubista per sbarcare il lunario nella suo domicilio romano. Scattano flash in continuazione. Ma, soprattutto, dalla penna vibrante di D'Attis nascono situazioni che tra luccichio del moto e lettura della psciche formano un effetto imperdibile.

mercoledì 4 giugno 2014

La volpe meccanica, di Mariolina Venezia (Bompiani). Intervento di Nunzio Festa



La voce della donna è l’immagine dell’animale idealmente in gabbia ma realmente libero. Il romanzo breve di Mariolina Venezia, “La volpe meccanica”, si differenzia, nuovamente, dagli altri dell’autrice materana. Perché la lucana Venezia sta seguendo una linea di gialli che vedono protagonista quella Imma Tataranni - già entrata nell’immaginario collettivo d’almeno un pezzo degli amanti della lettura. Ché non siamo tornati alla saga “Mille anni che sto qui”, sicuramente l’opera più riuscita di Venezia; visto che stiamo adesso in un genere che supera sicuramente quel giallo già vissuto però senza necessariamente riprendersi completamente il noir di certe scene dei racconti urbani scritti in gioventù e, pure non volendo dedicare tutta l’esperienza al noir o, tanto meno, al thriller. Ma che stiamo leggendo?: abbiamo letto una prova letteraria che parla di cosa vuole e fa una donna che a primo acchito apparirebbe soltanto vittima di se stessa, prima che delle situazioni e, dunque, dell’insoddisfazione da fallimento personale. Ecco, quindi, intanto la passione infuocata e infuocante per un uomo più giovane di lei, Andrea, fratello del marito della donna, che finalmente lascia il segno in un'esistenza “grigia, imprigionata in un matrimonio deciso a sangue freddo”. Epperò oltre la passione esiste tanto altro. Descritti i baci e tutto il resto del tradimento, la voce stessa della protagonista della storia passa ad ascoltarsi. La promozione del testo parla di “thriller dei sentimenti, all’inseguimento di una verità che trascende i fatti e diventa un’indagine esistenziale”. Andando molto vicino al senso massimo del libro. Questo noir molto leggero seleziona azioni e parole per restituirci in tutta la propria forza e, ovviamente, oltre le sue debolezze, la libertà d’una volpe meccanica che sceglie di togliersi per qualche frangente vitale dalla casa chiusa dentro la quale s’era incastrata.

giovedì 8 dicembre 2011

Maria De Filippi, di Emanuele Kraushaar con prefazione di Giulia Belloni (Alet). Intervento di Nunzio Festa
























Forse due riconoscimenti nella stessa recensione, più quello all'autore del testo recensito, sono troppi; ma per dire del recente e davvero imperdibile – scusatemi qui la banalità (oggi eccezione che conferma la regola) - “Maria de Filippi” di Emanuele Kraushaar ci concediamo l'ulteriore lusso. Dunque un plauso a Giulia Belloni, che oltre ad aver inventato la collana Iconoclasti e scelto  in qualità di direttrice della stessa questo testo raro, ha definito giustamente il libro “oggetto non identificato”. E mai parole, come si suol dire, furono più adatte. Perché non solamente non riusciamo a dirne il genere, per questa sconvolgente pubblicazione. Ma di più perché, e arriviamo in un certo qual modo al secondo riconoscimento, la natura del testo per affinità ci conduce a un altro abbastanza recente e superbo testo: “Cartoline dai morti” di Franco Arminio. Epperò già occorre spiegare. In quanto Arminio parla, dando loro voce, dei paesi e dei suoi morti-viventi. Mentre Kraushaar parla dei viventi-morti del paese/televisione, ovvero del pubblico succube per esempio dell'Uomini e Donne di Maria de Filippi e succube soprattutto del 'personaggio' “Maria de Filippi”. Kraushaar e Arminio inoltre si somigliano per accenti e prossimità di scelte. Dove l'affinità sta nella differenza. Cioè Arminio fa parlare i suoi morti alla stregua di Kraushaar che fa parlare vivi ugualmente defunti. Grazie a quest'operazione, in pratica registrando situazioni del programma che fa ascolti su ascolti e soprattutto le vite di chi esiste in ragione di questo, il giovane autore romano scrive un libro che apparentemente con poco ci dice tutto del fenomeno “Maria de Filippi”. Che davvero il libro d'esordio dello scrittore Kraushaar studia con occhi nuovi e linguaggio scioccante una delle cause di demenza del cosiddetto italiano-medio. Destini e in special modo disperazioni che mettono sulla porta o immettono oltre la porta della celebrità e delle sue menzogne, essenzialmente soggetti privi di socialità. I paragrafi sono molto brevi. Colpiscono al pari di bruciature di sigarette. Però il loro calore lo ascolti. Sei in grado di vedere i motivi e i linguaggi delle disperazioni. Emanuele Kraushaar fa sentire “la De Filippi” come nessun giornale mai riuscirà. La analizza senza torcerle un capello. Girandole intorno e osservandola seduta di fronte alle sue invenzioni in carne e ossa.    

martedì 22 settembre 2009

Anteprima: La casa di Angela Bubba (Elliot Edizioni, 2009). Recensione di Nunzio Festa

La casa, dell’appena ventenne ed esordiente Angela Bubba, è la fotografia d’una famiglia. La narrazione di vite che vivono il grembo assoluto della Calabria. Dal dorso d’un piccolo paese, Petronà, che però allo stesso tempo potrebbe essere molti altri suoi luoghi fratelli e affratellati. Siamo in una goccia di marginalità. La giovanissima autrice del romanzo sceglie d’utilizzare il suo stile baroccheggiante e profumato al sapore del pane dolce e salato, al servizio della famiglia d’Anselmo e Lia; gli scossoni, per la verità, non sono molti. L’opera nasce con l’obiettivo di dare ricordi e testimonianze, specialmente di donne (ma questo si dirà più avanti) – ed è l’elemento con molta probabilità più significativo – frasi estratte dalla stessa normalità d’una delle famiglie numerose del Sud in special modo fatto di passato. La trama passa animi e situazioni di tutte e tutti: Anselmo, Lia, Maria, Pina, Mina, Aurora, Benio. Come d’altri prossimi e non solo. Al di là degli aspetti che i maschi e gli uomini mostrano e/o manifestano, dall’avvinazzarsi e il bersi la malattia d’un marito tutto ‘d’un pezzo’, fino alla maturazione d’un figlio che passa dall’isolamento della prima fase della sua vita alla presa d’un ruolo in seguito alla morte del ‘capofamiglia’, il valore che con prepotenza viene fuori è quello della donna. Innanzitutto Lia. Moglie che è costretta da quello che accade, tanto per cominciare per i comportamenti del marito ma non solamente per quelli, ad assumere il ruolo principale. Nonostante sembri che debba sempre essere il primato del padre a gestire “la casa”. Lia, che non di rado si scontra con le figlie, è la vera protagonista del romanzo di Angela Bubba come della verità contenuta in molti pezzi del Meridione nel quale la storia è ambientata. Bubba spiega perfettamente, grazie a descrizioni e dialoghi, in virtù d’una buona padronanza della lingua e delle stesse vicende, in che maniera la famiglia di questo libro, molto gradevole e sicuramente importante anche se a tratti di difficile lettura per momenti di stallo, sia il posto stesso dove le donne soffrono e spesso decidono, dove le donne conoscono tutto e sanno nella maggior parte dei casi quali sono i bisogni e quali i desideri. Il pregio più grande cresciuto nella “casa” è il dire di nuovo della dignità della donna che in tante vicende e per tante situazioni nel terzo millennio si vuole ancora calpestare con foga.

La casa di Angela Bubba, Elliot Edizioni (Roma, 2009), pag. 365, euro 16.50

domenica 19 luglio 2009

Balla Juary. Sferragliando verso sud, di Fabio Izzo, prefazione di Gianluca Morozzi, Il Foglio (Piombino, 2009). Rec . di Nunzio Festa

Inutile prendersi in giro o far finta di non capire: Juary era quel giocatore dell'Avellino che inventò un modo più strambo del normale d'esultare dopo la rete: un balletto intorno alla bandierina del calcio d'angolo. Inutile prendersi in giro, ancora; perché “Balla Juary. Sferragliando verso sud” è pure la storia d'un innamoramento, o quantomeno d'una infatuazione. Diciamo, visto che è comunque inutile passeggiare su certe cose fingendo, che questo nuovo romanzo di Fabio Izzo – autore del meglio riuscito e completamente diverso (per stile, forma, contenuti, vivacità...) “Eco a perdere” - prova a essere una creazione letteraria che tenta di guardare a cose che non tutti guardano. Cosa, però, appunto riuscita a metà. In quanto, per esempio, se è vero che d'un protagonista del sud a nord e del nord a sud non s'era forse mai letto, e anche vero che lo si deve poter leggere in tutto il suo Significato. Ma, per fortuna, l'autore riesce bene, e utilizzando una lingua meno 'innovativa' e sperimentale del recente passato, a presentare una rappresentazione d'almeno un paio di dinamiche che oggi sono parte della vita realte. Tanto per cominciare, l'influenza e il rapporto fra genitore e/o genitrice con figlio e/o figlia, in special modo guardando alla sensibilità o insensibilità persino del mammone, come il sempre attuale processo di ritorno e d'andata verso sud che vuol dire emigrazione per lavoro specialmente in direzione nord. Ancora, Izzo dice ma non racconta se non in parte e in maniera parziale che significa tifare al Meridione e che significa farlo più sopra del Mezzogiorno. Il romanzo sarà servito in particolare allo scrittore stesso, che difronte all'immensità di certi temi comprende o comprenderà o ha compreso che serve soffermarsi maggiormente oppure non pensarci proprio sopra su tanto. Non esistono vie di mezzo. L'autore, che recentemente è stato premiato al concorso Dialoghi con Pavese del Premio Grinzane di Cavour, ha molto davanti e doti da far vivere.

Balla Juary. Sferragliando verso sud, di Fabio Izzo, prefazione di Gianluca Morozzi, Il Foglio (Piombino, 2009), pag. 137, euro 12.00.

giovedì 16 luglio 2009

Amnesie amniotiche, di Pasquale Vitagliano, LietoColle (2009). Rec. di Nunzio Festa

I versi che Pasquale Vitagliano ha raccolto in “Amnesie amniotiche” sono un passo di testimonianza, vergate da un 'plurale collettivo' vissuto negli occhi e negli oggetti dell'io. La silloge è essa stessa testimonianza, non poesia civile ma comunque poesia che fa parte della più 'alta' civilta. Una scrittura, quella di Vitagliano, che riesce a sganciarsi, anzi essere sganciata e/o non allacciata invece alla bassa retorica (non di figure ma di parole e sensi e immagini e sviluppi) – certamente diventando cuore che fa anche originalità proprio grazie a questo. Il volume, diviso in otto sezioni e corredato da opere di Mark Rothko, è la prove poetica di un editor e giornalista, leccese di nascita ma che vive a lavora in provincia di Bari, già presente sul spazi telematici e in alcune antologie. Le liriche s'alternano per scelta stilistica, pure; in quanto, per esempio, l'autore predilige la versificazione breve e a tratti frammentata/spezzettata mentre in altre ricorre a un versificare più prosastico. Dove troppo cerca di rendere tangile il presente-futuro, però, la raccolta perde qualcosa. Per analizzare un momento più intimistico, si prenda “ansima”, dalla sezione “salmi”. “Sotto il silenzio / la mansuetudine, / come le vene increspate / sotto un cartiglio autistico, / come le gravine / sotto il viadotto. // È la faccia nuda / che cerca di nuovo / il vento salato / della veduta di Byron, / quando fece volare / al cielo il naso finto / di un'esanime maturità. // È questo pennacchio, / che ho cercato / di giocarmi sull'isola / dell'asino bianco, / con l'anima cieca / della baldoria, / che solo la morte / non si scorda. // Quando l'ho perso / c'era una donna: / era lo specchio muto / della mia obesità. / Di questa faccia / mi sarebbe bastato / conoscerne il nome / e invece... // Ho voluto pure / guardare”. La chiusa è bella soprattutto perché lascia aperto un pensiero. Vitagliano, dopo aver composto questa poesia, potrebbe quindi guardare maggiormente a questo tipo d'espressione, leggendo ancora di più e lasciando leggere ancora di più d'irrequietezza e, in qualche modo, di continue ricerche proprie del poeta. E attraverso il personale, sappiamo, che il collettivo si forma, o comunque tenendo sempre conto d'esso. Con la forza d'immagini superiori, per fare un esempio, appunto: quell'asino bianco.

Amnesie amniotiche, di Paquale Vitagliano, prefazione di Giovanni Nuscis, LietoColle (Como, 2009), pag. 92, euro 13.00.

sabato 27 giugno 2009

Colui che gli dei vogliono distruggere, di Gianluca Morozzi (Guanda). Rec. di Nunzio Festa

Fra gli scrittori originali uno dei più originali. Morozzi, nuovamente, questa volta con “Colui che gli dei vogliono distruggere”, riesce a stupire. A distanza, controllata, con “Blackout”. Altro stupefacente romanzo dell'autore bolognese, che rimane l'opera migliore. Morozzi è stato capace di nuovo d'inventare una serie di personaggi, luoghi, situazioni che sorprendono e allo stesso tempo si lasciano ricordare. Il nuovo romanzo di Gianluca Morozzi è strutturato utilizzando tre diversi piani di ritmo narrativo, si sviluppa addirittura in tre mondi paralleli e perpendicolari quando non intersecanti ed è alimentato da vicende sentimentali tutt'altro che mielose. Dunque diversi stati della storia, anzi della trama, sui quali la storia stessa cresce e matura. Con la brillante trovata di creare persino diverse proiezioni dello stesso personaggio. Il romanzo è fitto di fantasia. Si muove nella fantasia. Ma, chiaramente, non tralascia pecche e buone cose della realtà; soprattutto, va detto, pecche. A seguire i supereroi di Morozzi ci si diverte e, alla fine, non si prova neppure un piccolo grammo di stanchezza. Tante volte, per fortuna, persino si ride.
Molte. Si dica, per necessità, che il volume è pieno d'umorismo. E, in questo campo come nella più semplice costruzione del narrare, Morozzi ha pochissimi rivali. La parte, tra l'altro importante, che parla delle vicende legate a questo musicista Johnny Grey è a dir poco imperdibile.
Lo scrittore con questo libro ha dato prova, se ce ne fosse ancora bisogno, di essere uno dei migliori narratori italiani d'oggi. Al di là dei giudizi sommari e/o complessivi, è semplice testimoniare grazie alla lettura come il filo steso da Gianluca Morozzi faccia camminare immagini e musiche, odori. E, soprattutto, provochi sensazioni varie. Causando nel sentire di lettrice o lettore, e mentre il filo si fortifica invece di farsi male, reazioni che a ogni modo fanno piacere. Morozzi è scrittore popolare e d'indubbio talento, nonostante la critica più con la puzzetta sotto il nasone non sia sempre disposta ad accettarlo. Per questa ragione è già da tempo cominciata l'attesa per la creatura che arriverà.


Colui che gli dei vogliono distruggere, di Gianluca Morozzi, Guanda (Parma, 2009), pag. 334, euro 16,50.

mercoledì 20 maggio 2009

Dieci brevissime apparizioni di Nunzio Festa (LietoColle)

Ricevo con molto piacere da LietoColle di Michelangelo Camilliti, un piccolo gioiellino, vuoi per la veste e la resa tipografica vuoi per il pregevole contenuto: “Dieci brevissime apparizioni” di Nunzio Festa nella collana “solodieci Poesie”. E non cambierei una virgola di questo mio primo giudizio,anche se si trattasse di una manovra economico-editoriale per risparmiare qualche lira, trattandosi per di più della cenerentola, in termini economici, del mondo delle lettere, ovvero la Poesia. Infatti come prima impressione il prodotto potrebbe risultare alquanto esiguo, povero, assolutamente non invitante all’acquisto! Una sovracoperta cartonata color avorio (a due colori, nessuna immagine di copertina) che racchiude un corpus di 16 pagine ciappate. Il tutto però ha una sua sobrietà, e una certa eleganza, che sicuramente si lascerà apprezzare e godere da chi ama le piccole cose di buon gusto. Per venire all’autore in questione, ovvero Nunzio Festa, e a questo suo ultimo lavoro, sono rimasto piuttosto colpito dalla sua prosa poetica. Il ritmo della parola non è ricercato, in quanto sembra prediligere una misura del tempo narrato, gestito da una forte visionarietà, che parte dal quotidiano, ma lo trasforma a suo totale piacimento, quasi a non riconoscerne lo statuto fenomenologico e ontologico. Prendiamo a pag. 3 il “Primo brevissimo”: “Aveva riconosciuto la sensazione di stare allerta, dove quel suo tempo era stretto infinitamente alla corda tesa e molle dell'Epoca, e se un giorno arriverà Epoque lei non se la troverà addosso. Neppure per misericordia. E il pentolino saliva colla stessa, alla velocità dello sguardo. Che di fugacità viveva, o aveva vissuto. La ragazza provava a rialzarsi, ma si risedeva. Scodinzolava, fremeva, sfregava. Friggeva, il suo tappeto. Allora decise, con calma, giunto il momento di ridere da sola; e guardò - per rivederlo - il suo film preferito La tramontana: quel film comico duemila volte letto e sentito”. Il punto di partenza teorico-letterario adottato da Festa per la strutturazione di questi componimenti sembra essere quello del problema della percezione dell’individuo nell’avvertire il luogo del proprio vissuto, dal momento che non se ne ha memoria né se ne può avere una, in quanto tutto è troppo sincopato per poter essere fermato, discusso, percepito, assaporato. Il rapporto tra sé e il mondo insomma è al di fuori di qualsiasi metafora per poter essere cantato. Lo spazio dell’abitarsi nel sociale, ha oramai una grammatica talmente stramba e strampalata da divenire grottesca e mostruosa. Per farla breve, il sintomo dell'attualità diviene parodia di una perenne messa in scena dell’esistenza. Il messaggio che Nunzio Festa vuol lasciar trasparire, e non tanto tra le righe, è che in fondo se ci si lascia trasportare dal senso di angoscia o di smarrimento che pervade ogni fessura della nostra contemporaneità, alla fine ci scorderemo anche di vivere, di sorridere, o perché no, di poter scherzare magari, a volte bonariamente a volte con ironia e sarcasmo, anche delle cose più sacre, quelle che i secoli, le tradizioni, i buoni e i cattivi maestri hanno rinchiuso nelle catacombe buie e abbandonate di una certa cultura. Si veda ad esempio a pag. 5 il Terzo Brevissimo: “Oggi è il compleanno del poeta. E non sa come servire in tavola gli auguri stesi al sole. Dunque si prende tutto quello che la gente mostra sul solco della sua pancia. Quindi, un secolo di birre. Il secolo delle birre brevi come lunghe. Il secolo delle birre, è questo. Il giovane poeta compie gli anni. Ogni volta il giovane poeta, il poeta giovane, si sceglie gli anni da compiere. Tutte le volte che accade - quasi tutti gli anni, tranne quando (nei bisestili) non ci sono anni - è una battuta. L'applauso era fragoroso. Le tentazioni d'inventarsi finte spalancavano porte, inizi di territori inesplorati. Ma l'esplorazione di questo poeta è cosa da puntino.” Si tratta a mio avviso di una piccola pubblicazione fresca e intelligente su come la mutevolezza dei paradigmi sociali e relazionali si possa affrontare facendo anche dei bei versi. Sono cinque euro spesi bene!

Nunzio Festa è nato nel 1981 a Matera, dove attualmente lavora. Risiede a Pomarico (MT) con la sua compagna. Poeta, narratore, critico; lavora nel campo dell'editoria ed è collaboratore giornalistico. Collabora, inoltre, con siti internet, riviste e quotidiani. Suoi articoli, poesie e racconti sono stati pubblicati su riviste e in varie antologie.Nel 2004 ha pubblicato la sua prima silloge poetica E una e una, mentre nel 2005 la sua prima raccolta di racconti Sempre dipingo e mi dipingo. Diversi i riconoscimenti ricevuti. Nel 2006, il racconto breve "Da dentro la materia" è entrato a fare parte dell'antologia Storie d'acqua dolce (Eumeswil Edizioni). Nel 2007, la silloge poetica "Deboli bellezze" è entrata a far parte della collana curata da Silvia Denti, I quaderni Divini. Nel 2008 ha pubblicato racconti e poesie per diverse case editrici, fra le quali Giulio Perrone editore, LietoColle.

Festa Nunzio- "Dieci brevissime apparizioni", LietoColle - Collana Solodieci
Sottotitolo: brevi prose poetiche

martedì 24 marzo 2009

Fototessere del delirio urbano, di Antonio Veneziani, Hacca (Macerata, 2009). Recensione di Nunzio Festa

Tasselli da un cronico cronista della periferia. Antonio Veneziani, che Hacca rimette 'sul mercato' attraverso la ristampa del suo Fototessere del delirio urbano, ha una dote che pochi hanno. Veneziani, sa restituire – in poco tempo fatto di scrittura – a lettrice e lettore la prova che la situazione che ha raccolto con l'occhio non è altro che una piccolezza sconvolgente. Un gesto, quello di Antonio Veneziani, che pochi possono permettersi e sanno d'avere. E un gesto, quello raccolto, che la letteratura solamente è sicura di poter ripetere o quasi. Fototessere del delirio inzuppate nella bellezza d'una prosa poetica più naturale che della natura. Infatti, l'autore (che non abbiam voglia alcuna di ripresentare) con facilità e amara gioia racconta. Parlando, con racconti brevi, della periferia della vita, delle sue vicinanze con miliardi di solitudini rese più appariscenti grazie al ricorso all'accostamento con scatti allo scrittore. Ci sono, nel volume, bocconi d'erotico. Vibrazioni di passione. Eppure si tratta della stessa penna che soffre e non vuole negarlo. Con lo stesso editore, non a caso, Veneziani aveva dato alle stampe il suo Cronista della solitudine. In quella altro angolino della vita grande dell'autore le somiglianze con questa “nuova” opera sono diverse. I piaceri dati da Veneziani sono dolori e viaggi fra drogati e omosessuali. Dove poi un cenno al corpo e all'interno del corpo offre quel battito più strepitoso. Questo dandy non-dandy della letteratura italiana ha il di più del grandissimo e puro. La critica, spesso, affianca il suo nome a quelli di 'una scuola romana' che altro non era che un gruppo di persone fisicamente più in contatto, e idealmente più pronte a condividere (almeno fra loro). Però le differenze fra Veneziani, Penna, Bellezza, Pasolini e così viam, sono tantissime. A questo punto, molto meglio tenere a mente dell'originalità sprigionata da ogni lettera e/o consonante del Veneziani.

Fototessere del delirio urbano, di Antonio Veneziani, Hacca (Macerata, 2009), pag. 126, euro 12.00.

lunedì 9 febbraio 2009

Tra melma e sangue. Lettere e poesie di guerra, di Clemente Rebora, a cura di Valerio Rossi, Interlinea edizioni. Recensione di Nunzio Festa

Tra melma e sangue è un’opera da custodire. Rossi, il curatore dell’imponente lavoro, ha compiuto un’operazione che potrà essere segnalata per anni. Le righe di una recensione, lunga o breve che questa sia, non potranno mai presentare in maniera adeguata il volume. Che tanto per cominciare, le poesie sono tutte commentate. Eppure è indispensabile e doveroso dire. Clemente Rebora, il Rebora di queste poesie e lettere, da più parti definito tra i migliori poeti del Novecento italiano, suda versi in tempo di Prima guerra mondiale che fanno marcire ogni pur piccolissima idea sul fatto che la guerra possa non essere la più grande barbarie voluta dall’uomo. Siamo di fronte a un dramma e il dramma vitale di Clemente Rebora è scritto con poesia drammatica. Due pezzi estorti al libro servono per argomentare l’unico punto che forse con meno forza era venuto fuori. “La sciagura ritmava in lontananza; / Or s’avvicina. Il patrio terreno / In bilico, già crolla: / E’ un invito di danza… / Signori, alla coda!”. Il secondo: “Poesia, arpeggiante / Zanzara che succhi dal sangue, / Or ciascuno t’intende / E si difende”. I due estratti, in parallelo, ci spiegano di un elemento unico. La poesia di Rebora, nei contenuti, dimostra quello che la guerra provoca nell’individuo oltre che nelle categorie e persino nelle classi. Il canto individuale ma frutto di una sostanza collettiva, il canto spropositato in quanto pure privo a grandi linee di liricità, dice di quello che la guerra combina in ogni uomo e non solamente negli uomini tutti. La tanto citata spiritualità di Rebora è proprio questa prova. Il prima e il durante la guerra, con tutto il suo dopo, sono la poesia stessa di Clemente Rebora, anzi un pezzo della sua esistenza appunto provata dallo sconvolgente avvenimento. I versi di Rebora, ma persino le lettere, riproducono (termine qui utilizzato in chiave comunque salvifica per l’autore) l’animo dell’io di ciascun individuo a contatto con la tragedia.

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