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venerdì 31 luglio 2009

Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini (Lupo editore) – rec. Di Silla Hicks

Non vorrei sembrare rude, ma davvero ci sono cose che non capisco, e una di queste è l’amore. Perché io c’ho provato, e provato davvero, a far funzionare le cose, a trovare un senso che giustificasse tutto, la famosa unica ragione per cui valga la pena di vivere e di morire di cui parla Marquez, quello di Macondo e del gigante Josè Arcadio, ma anche di Amaranta, e di Firmina Daza che si fa attendere una vita.
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.

AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)

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