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domenica 30 agosto 2009

La luna dei Borboni di Vittorio Bodini


Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni casa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi di morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

Quando tornai al mio paese nel Sud,
io mi sentivo morire.


da Foglie di Tabacco (1945/47) in La Luna dei Borboni ed altre poesie (Milano, 1952)

"Come un grande amore. Così come accade per ogni grande amore; così come sempre ogni grande amore si confronta col dissidio, con l’incomprensione, tra Vittorio Bodini e il Sud c’è stata la tensione lacerante di ogni grande amore. C’è stata la passione ebbra, l’illusione dell’eternità di quell’amore, c’è stato il desiderio prorompente, l’ansia, la frenesia, la sensualità spossante, poi l’intenzione dell’addio, la separazione. Poi il ritorno malinconico. Poi l’allontanamento. Un altro. L’ultimo: nostalgico, pietoso, soffocato dal rimpianto. Mai, però, ci fu l’indifferenza. Mai ci fu l’estraneità, il sentirsi slegato da ogni vincolo, affrancato da una sentimentale soggezione, spiantato dalla terra, abbandonato dal sogno e dall’ idea di una nuova vita per una terra e per i destini che dentro quella (questa) terra si generano e si dipanano, si annodano e si aggrovigliano, si ritrovano o si disperdono, si differenziano o si rassomigliano. Così come accade per ogni grande amore, Vittorio Bodini ha vissuto il Sud con una contraddizione carica di energia inquieta, con un alternarsi di attrazione e di rifiuto, tra l’istinto di fuggire e il desiderio di tornare, fino a raggiungere l’esasperata e al tempo stesso lucida coscienza di un’assoluta, irreversibile, drammatica volontà di morte nella lontananza.“Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese/ così sgradito da doverti amare”.

di Antonio Errico tratto da Salento Poesia diretto da Mauro Marino

domenica 7 giugno 2009

Seconda lettura di Silla Hicks su Stralune di Antonio Errico (Manni)

No, non mi sono dimenticato che chi parla è colui che ha tradito, né mentre leggevo né dopo. Ci ho pensato tutto il tempo, piuttosto, alle frasi scritte prima del racconto, finchè all’ultima pagina non ho finalmente capito che tutto sommato era un monito inutile, perchè non serve a niente continuare a pensare dove stava il giusto e dove l’errore, quando la guerra è finita e conta solo chi ha vinto. E non serve a niente dire nient’altro che una sola parola, soldato, termine vituperato e glorificato assieme che usiamo senza accorgercene per indicare le foglie che stanno sugli alberi d’autunno e che un soffio di vento basta a staccare e portare chissà dove. Perché è questo che è l’uomo che torna a casa, una notte qualsiasi dopo una guerra qualsiasi per trovare un mondo che non è più suo, in cui qualche brandello di muro è il monumento visibile del cimitero senza lapidi che si porta nel cuore. E pazienza se ha disertato, e pazienza perfino il perché, non ha senso incollare etichette a chi è corso in braccio alla morte con una granata stretta nella mano, perché altri potessero continuare indisturbati a dormire. È facile, facile, dio, dire che le guerre non dovrebbero esistere: ma esistono, invece, e ovunque, e qualcuno deve combatterle, e morirne, anche, privato di tutto se non di un vestito uguale che lo rende amico per alcuni e avversario per altri. Per questo i posti dove li mandano li chiamano teatri, perché possano pensare che sia tutto un gioco, tutto finto, e che nessuno verrà fatto a pezzi per davvero: quando capiscono il trucco è tardi, ora la chiamano sindrome da choch post-traumatico, tornano e non sanno chi sono, da dove vengono, hanno solo i loro incubi a farli compagnia. Ed è questo che è lui, quando torna, senza volto né nome né età per essere il soldato di tutte le guerre, con addosso una divisa che non è di nessun esercito, e per questo potrebbe essere quella di tutti, che non ha più nessuno da abbracciare né nessuno che lo aspetti, avrebbe fatto meglio a non tornare.
Vent’anni fa, John Rambo diceva che in Vietnam era un eroe, ma a casa non lo volevano nemmeno come guardiamacchine, mentre i suoi occhi lacrimosi di cane da caccia cercavano in quelli del suo ufficiale un appiglio qualsiasi per riconoscersi umani: e lui – il colonnello – gli metteva una mano sulla spalla, come ogni padre e ogni Paese dovrebbe fare e raramente fa, e se lo portava via, da tutto, gli ridava un senso nell’appartenenza a qualcosa, crepi Ho chi Min viva il corpo dei Marines, non sarai mai più così solo, non ti sentirai mai più così vuoto.
Ma quello era un film, e quella era l’America spaccona di Reagan, e il lieto fine ci doveva essere per forza, perché c’era ancora il bene e il male, era il mondo di Walker Texas Ranger, dove i cattivi sono i cattivi e i buoni i buoni e vincono sempre: invece, la vita è un’altra cosa, e anche questo racconto.
Colui che torna è un soldato, ed è solo, solo veramente, e non c’è più nessuno cui importi di lui, soltanto i suoi ricordi che impattando con la realtà si sgretolano, e forse non sono nemmeno mai stati veri: finirà coi carabinieri che lo portano in caserma, infreddolito clochard che dormiva su una panchina, sotto la neve.
Non è una storia facile, perché non finisce bene né smussa gli angoli taglienti di una tragedia individuale che diventa cosmica, e non è scritta in modo facile, anche, periodare cesellato e ritmico che sembra più adatto ad essere cantato che letto, continui refrain che impietosamente ti impediscono di non cogliere lo strazio di un’anima persa, che non ha nessuno dio che le tenda la mano e nessun colonnello che le prometta che andrà tutto bene, che se la porti via e le dia un’altra guerra per cui continuare, disperata ballata di un uomo che è solo una foglia, e l’autunno è arrivato e un mulinello di vento se lo porta via, appallottolandolo alla carta straccia della strada.
Non è una storia facile, e non si legge rapidamente, nemmeno, è impervia nella prosa (prosa poetica? Scusate, non so cosa sia. Diciamo che di sicuro ha un bel suono, ma che è difficile da dipanare nella testa e richiede continue pause per tornare indietro e non perdere il filo e contestualmente una buona dose di impegno per non farsi ipnotizzare dai ritornelli e perdersi nella sua musica) e ancor più nel contenuto, se si è capaci di dimenticare il monito del principio di ricordare che chi parla è colui che ha tradito e si riesce a vederlo uomo, sopra che soldato e disertore e qualsiasi altra cosa.
Perché a quel punto davvero diventa difficile non sentire nelle ossa il suo freddo e negli occhi le sue lacrime quando, dal balcone della caserma dei carabinieri, all’ultima pagina, finalmente vede, e capisce, ed è libero, e finalmente può andare, e lasciarsi tutto alle spalle, allontanandosi a piedi da quel mondo che è andato avanti senza di lui e che si scolora nella luce della neve.

LA STRALUNATA BALLATA DEL SOLDATO CHE EBBE IL CORAGGIO DI TORNARE


(STRALUNE, di Antonio Errico, Manni, San Cesario, 2008)

giovedì 30 aprile 2009

Stralune di Antonio Errico (Manni editore). Recensione di Elisabetta Liguori

Quanto c’è di noi alla fine di un viaggio? Questo sembra essere il tema principe dell’ultimo romanzo di Antonio Errico, Stralune, di recente pubblicato dalla casa editrice Manni. All’interno del viaggiare, direi, Errico è più catturato dal ritorno, che dalla partenza. Quale è la trama di questo viaggiare? Un ipotetico disertore sfuggito ad un’ipotetica guerra torna nella sua ipotetica casa ed al suo ipotetico passato, finendo per cedere all’inganno del raccontarsi, qui inteso come esito drammatico ma necessario di un qualunque percorso.
Perché questo titolo?
Un buon titolo è sempre o un’anticipazione o una conferma di quello che il testo contiene, in una sorta d’accordo preliminare tra lettore e scrittore. A mio avviso il titolo scelto da Errico per questo nuovo romanzo è una confessione appassionata, è la descrizione sincera di un occhio che scrive. Quella che l’occhio di Errico produce, infatti, non è solo poesia, né solo prosa. È voce pastosa che parla nel sonno, voce implicita, libera, fasica, simbolica. Sincerità ispirata, grondante fisicità. Del sonno ha la stessa vaghezza. La densità, l’indolenza rivelatrice, la visionarietà ombrosa che procede per fasi umorali, illuminando la notte. Da questo titolo è quindi naturale tornare al tema principale, dunque. Il tema del viaggio, dobbiamo dirlo, non può che confrontarsi con quello del tempo, da sempre caro ad Antonio Errico. Il tempo passato qui diventa soggetto attivo, attraverso il ricorso ad un ombra/personaggio. L’ombra insegue la narrazione, la stimola e la rende più profonda, consapevole e acuta. L’ombra avverte, l’ombra ripete, in un gioco sapiente di contrasti l’ombra riesce persino a far luce. L’ombra frammenta i luoghi nelle diverse voci che agitano il paese del ritorno. La madre, il padre, l’amata: queste voci si alternano stralunate; a volte prese dallo stupore, altre dallo sgomento, reagiscono come possono alla tirannia della memoria. Altro punto fondante la narrazione di Errico, infatti, è proprio la memoria, della quale il ritorno e il tempo attraversato si nutrono inevitabilmente. Memoria intesa come balsamo o come malattia? Il disertore, dopo i primi passi incerti nella notte e i primi silenzi angosciosi, comincia a domandarsi a cosa potrà mai servire il suo ritorno, cosa potrà ritrovare, salvare, restituire, sanare. È inevitabile domandarselo, per lui come per tutti, ma quello che più colpisce il lettore è che la risposta a questa domanda universale per Antonio Errico passa essenzialmente attraverso la conoscenza del proprio padre, l’osservazione della propria ombra, l’attesa dell’alba.
I propri passi ripetuti nella casa di famiglia, soprattutto quelli sembrano essere l’aituo fondamentale. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un altro romanzo che, se pure con toni del tutto diversi, affronta lo stesso tema. Penso a “ La madre che mi manca” di Joyce Carol Oates. In questo ultimo caso è la morte violenta della madre della protagonista ad obbligarla a tornare nella casa di famiglia, a calpestare passi antichi eppure incompresi, a toccare e ritoccare le vecchie mura deserte per tentare di comprendere tutto quello che è andato perso. Perché, per capire qualcosa di sé, è necessario ritornare, ma è pur vero che tutto quanto ci riguarda intimamente, tutto ciò che condiziona il nostro modo di essere, è accaduto quando eravamo troppo distratti e vivi per rendercene conto. Se è vero che il padre è l’origine, la ragione, il perché, l’ombra, è altrettanto vero che nulla sappiamo di quel “perché”, mentre accade. Cogliere a pieno il senso e il dettaglio di quella che è stata la vita dei nostri genitori è sempre gesto a posteriori. Non semplicemente memoria, ma ricostruzione tardiva. Dove ero io quando mia madre aveva quaranta anni e le cose più importanti della nostra vita si compivano? Dove eravamo noi? Chiedersi oggi “dove sono?” equivale per tutti a chiedersi “dove ero?”. La protagonista della storia della Carol Oates, come il reduce di Errico, tornano a se stessi dopo il tempo giusto, col giusto ritardo, e lo fanno per capire e capirsi. Entrambi toccano, calpestano, osservano i vecchi luoghi come se non li conoscessero affatto. Questo stupore stralunato, quindi, accomuna due romanzi seppur diversissimi per stili, atmosfere, ricercatezza del lessico, ambientazione, ma non solo questo. Anche il successivo bisogno di dimenticare le mura del passato, il loro richiamo da sirena, al fine unico di salvare la pelle ed il cuore. E se Errico è sud, lirico, elegante, pietroso, la Oates è America, spumeggiante, ironica, glamour, ma la vera narrazione è vita che va e ritorna come spola sul telaio. Sempre e ovunque.

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mercoledì 29 aprile 2009

Mario Desiati, Foto di classe (Editore Laterza). Recensione di Antonio Errico

Sono quelli perduti dietro a un sogno. Sono giovinezze passate all’improvviso. Sono forestieri nel proprio paese. Fatalisti o ribelli. Sono quelli che tornano e non trovano niente di quello che hanno lasciato, se non l’angoscia, il degrado, il Sud abbandonato ad un destino di disfacimento, di corrosione, di costante deprivazione di senso. Sono quelli di una foto di classe con la fissità degli occhi, l’immobilità del tempo, l’immutabilità dello spazio, poi cresciuti e risucchiati nel vortice generato dalle assenze, svuotati dalla consapevolezza dell’impossibilità di ogni azione, di ogni reazione nei confronti di una condizione bastarda, separati da se stessi da un baratro che spalanca distanze spaventose. Sono quelli che non hanno più conti aperti con nessuno, se non con la memoria, con i propri fantasmi che si affollano negli occhi a ricordare che il passato ha un volto dolcissimo oppure quello deforme di un demone maligno.
In “ Foto di classe” ( Laterza, 2009), Mario Desiati entra nelle loro vite. Ne decifra i destini. Ne svela le depressioni, i fallimenti, le delusioni. Qualche soddisfazione. Qualche rivincita.
Sono quelli che rappresentano una generazione che fugge o che resta in una provincia disperata e maledetta da una storia che ha trasformato la Magna Grecia in una succursale dell’inferno, quelli che prendono con se stessi l’impegno di ritornare di tanto in tanto per ubriacarsi nella bisboccia e dimenticare il motivo per cui sono andati via.
Perché c’è qualcosa – una forza misteriosa, un vincolo di sangue, un richiamo ancestrale – che li attrae verso l’origine, che ribadisce un’appartenenza, che li riporta costantemente – ossessivamente – verso il punto di partenza, li turba, li marchia come l’immagine del santo protettore della sua città che Lucio si fa tatuare sul bicipite, o come la malinconia sottile di Marianna, che si deposita dentro di lei, si stratifica, diventa ansia contratta, nudità di confessione, tenero abbandono.
Sono quelli che riescono a vivere in una condizione di lontananza rimanendo con il pensiero sprofondato nella loro infanzia, ancora frastornati da scoperte stuporose, dal calore di una mano di padre.
Questo libro di Mario Desiati è un viaggio nella coscienza di una perdita del tempo che una generazione ha avuto fino all’istante in cui quei volti e quei nomi che ne costituiscono la sintesi e il simbolo non cominciano a raccontare. Nella durata del racconto, nei minuti e nella dimensione dell’incontro, si verifica l’evento della riappropriazione, il ricongiungimento con una identità custodita nella profondità dell’essere. Chi racconta riattraversa luoghi, ritrova quell’universo di esperienza dell’età che va dalla adolescenza alla giovinezza, quella stagione terribile e meravigliosa in cui si induriscono le ossa e talvolta anche il cuore, che attribuisce ad ogni cosa che accade, ad ogni piccola felicità, ad ogni minuscolo dolore, un valore straordinario e assoluto.
Chi racconta accetta di confrontarsi anche con il rimosso. Talvolta con il rimorso. Più o meno consapevolmente sa che per ritrovare si deve anche disseppellire, a volte, che si deve sprofondare dentro di sé e scrutare lontano, fino a portare lo sguardo al limite del racconto, sulla soglia ghiacciata del silenzio.
Ecco. Questi compagni di scuola sono quelli che poi, alla fine, scelgono il silenzio. Anche Mario poi, alla fine, sceglie un silenzio impregnato di commozione malcelata. Cala il silenzio quando a conclusione del resoconto, si prende atto con lucida evidenza che della vita anteriore a quell’attimo rimane soltanto la possibilità di un ricordo rappreso, forse anche un rimpianto, più spesso un rammarico, uno smarrimento, una disperazione controllata, pacata, quieta. Una consapevolezza di ineluttabilità. In qualche caso un risentimento nei confronti di quella provincia a Sud che a tarda sera affida la sua gente ai treni che vanno verso il Nord, promettendo un benessere che qui viene negato, un’esistenza che non ha il travaglio della precarietà.
Questo è un libro che ad ogni pagina dispiega una nuova concezione e dimensione della meridionalità: non ha luoghi comuni, non ha artifici, non ha retorica. E’ concreto, essenziale, intimo e corale; a volte ha un tono inquieto, a volte rassegnato. Esattamente come sono i toni di quelli che sono rimasti o di quelli che sono andati.

Mario Desiati, Foto di classe, Editore Laterza, Collana Contromano, pp. 144

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