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sabato 25 febbraio 2012

Budapest Bank Connection di Antonello Giurgola (Icaro). Intervento di Vito Antonio Conte


Una volta ancora alle prese con forma e sostanza. Ancora una volta a cercare di delimitare il campo del quotidiano in cose dell’esistenza nelle quali è imprescindibile il rispetto della forma, ché questa e la sostanza coincidono, e altro giornaliero in cui la sostanza non può, mai, essere sacrificata per il mancato ossequio della forma. Credo che la sostanza dovrebbe essere sempre in primo piano e avere la giusta considerazione al di là di qualsivoglia involucro. Ma ci sono livelli del sociale dove la forma è sostanza e ignorarla finirebbe per assumere contorni estranei alla legalità. Il riferimento è, all’evidenza, all’osservanza delle leggi. E che le leggi vadano rispettate è come dire che il primo nutrimento del neonato è il latte. Se non fosse che ci sono buone leggi e cattive leggi. Se non fosse che, spesso, le leggi non esprimono lo spirito del tempo e di chi quel tempo abita. Se non fosse che, sovente, le leggi sono strumenti di conservazione del potere o espressione di lotte tra i poteri per il potere. Se non fosse che, di leggi, ce ne sono comunque troppe. Se non fosse che venire a capo di una normativa, in molti casi, è come trovare la via d’uscita in un labirinto sperso in un angolo imperscrutabile di conoscenza. Se non fosse che ogni annunciata semplificazione di qualsiasi sistema codificato si è risolta nella più becera complicazione del già scritto… Credo che poche chiare e compiute norme sarebbero sufficienti per regolare una civile convivenza, in uno alla necessità della loro fattuale applicazione… Non è questa la sede per disquisizioni di tal natura, ma l’intro ha senso per dire (anche e soprattutto) d’altre forma e sostanza: in questo caso l’inizio e la fine della riflessione risiedono in una lettura, nel senso che ho pensato alla forma e alla sostanza leggendo “Budapest Bank Connection” e di questo libro, in fine, vi dirò. Dopo un’altra brevissima digressione. Vi sono infiniti esempi di libri ben confezionati, privi di smagliature grammaticali e di refusi, in cui l’attenzione all’oggetto libro è superba, ma che, dopo la lettura, rimane solo quel che colpisce immediatamente l’occhio, senza scomodare altri sensi. Altri libri, meno belli a vedersi, custodiscono grandi contenuti. Inutile dire che preferisco questi ultimi. Se, poi, di un libro (che qualche domanda mi ha fatto porre…) conservo anche un buon ricordo estetico e la sua sostanza si è dipanata traverso una scrittura semplice pulita e senza refusi, è decisamente meglio. Ma, forse, è chiedere troppo e tant’altro ci sarebbe da dire… Nel caso di specie, con la consapevolezza di esprimere la mia personale opinione, “Budapest Bank Connection” ha una bella copertina, una sgradevole impaginazione, alcuni refusi macroscopici, una non condivisa scelta dei segni d’interpunzione, e contenuti di spessore. La sostanza è nella storia e di questo bisogna rendere merito all’Autore, Antonello Giurgola, alla sua seconda prova letteraria. La forma, a parere di chi scrive, avrebbe avuto bisogno di maggiore cura. L’Editore, Città Futura, prenderà questo mio appunto nella dovuta misura, ossia come monito a far meglio, unendo alla passione anche più attenzione. Per entrare nel vivo del libro, dirò che –per intanto- mi è piaciuto: un bel poliziesco che evidenzia la versatilità di Antonello Giurgola di cimentarsi (bene) con diversi generi letterari. Chi ha letto il suo libro d’esordio, “L’angelo di Lisbona”, si troverà spiazzato tra le pagine di “Budapest Bank Connection”, ché questo romanzo di genere è piacevolmente anomalo. Del poliziesco (il primo e più antico tra i sottogeneri del “giallo”) questo libro ha tutti gli elementi caratterizzanti: un omicidio (la morte violenta di un italiano a Budapest), un investigatore (il commissario Istvan, per gli amici Pisti, Kruger), le indagini (poco scientifiche e molto deduttive) e lo svelamento dell’intreccio con individuazione finale dell’autore del delitto in questione. Ma, non credo di sbagliare, il genere è pretesto per raccontare altro. In “Budapest”, man mano che le indagini chiudono possibilità e aprono probabilità, emergono –parallelamente- scenari, umani e sociali, che con la morte di un lercio mafiosetto italiano di stanza in Ungheria poco hanno a che fare. Quel che prende la scena è un’altra fine: la morte di una società. Insieme alla morte dei sentimenti. Non so individuare la cronologia dei rispettivi capolinea. Forse vanno di pari passo. Ma so che riscoprendo i secondi si può sperare in una nuova società, migliore di quella passata. Ché quella narrata in “Budapest Bank Connection” è malata sino all’osso, dove il malaffare non è roba di delinquenza comune, ma sistema che ha fatto del danaro l’unica divinità in terra, strumento di controllo del potere per reggere i fili di chi quei fili ignora e di chi non ha mezzi per reciderli. “Budapest Bank Connection” è una speranza più che una denuncia. Episodi come quelli descritti in questo libro sono reali e ormai noti, basta voler aprire gli occhi. Che il mondo della Finanza abbia inquinato l’Economia e abbia iniziato a far tracimare l’Occidente è affare ormai chiaro, siccome sono alte le fiamme di Atene. Nessuno può far più finta di niente. L’incendio è divampato. Può estendersi dappertutto. La scintilla è scoccata negli Stati Uniti. La Grecia sta ardendo. L’Europa è a rischio, focolai sono sparsi ovunque. Bisogna rifondare regole e civiltà. Il problema prioritario, però, è che dobbiamo cambiare noi: bisogna rigenerare l’uomo. E si tratta di un mutamento radicale che importa una forte sterzata culturale… Tornando a “Budapest” è ovvio che non aggiungerò altro sulla trama, ché va gustata step by step sino alla soluzione del “giallo”, ma del commissario Kruger qualcos’altro va detto: quasi cinquantenne, burbero, disilluso, al limite del trasandato fuori siccome è privo di slanci d’entusiasmo dentro, sospettoso come dev’essere un buon poliziotto, “specie dei cambiamenti ancor più se lo riguardano, quindi non farà alcuna scelta, non ha voglia di sdoppiare la sua coscienza né di aggiungerne una seconda. È sufficiente quella che ha così com’è, in fin dei conti si è sempre dimostrata comprensiva e soprattutto indulgente; non tenterà mai il viaggio da una coscienza all’altra, non avrebbe nulla di turistico e per di più gli rovinerebbe l’appetito, avrebbe a che fare con parole come oblio, abbandono, rinuncia… Comunque la coscienza sporca non ha mai impedito a nessuno di riempirsi la pancia, mentre una pancia vuota mette a dura prova le coscienze più integre”. Schietto e, a modo suo, simpatico. Ma, soprattutto, vero! Come può essere autentico chi delle apparenze ormai se ne fotte. Forma e sostanza. La prima non ha più alcun significato. La seconda sta nel suo stare che preferibilmente non coincide col fare. Kruger fa soltanto il necessario. Tipo rispondere a una telefonata che gli annuncia un omicidio anche se avrebbe avuto voglia d’ignorare quel richiamo alla realtà. La prima tornerà a interessargli soltanto quando anche la seconda si risveglierà dentro di lui. Quando quella donna ch’era stata sua moglie gli parlerà di nuovo… e i sentimenti desteranno i sensi. Quasi che per riparlare d’amore fosse necessario acquistare un paio di scarpe nuove. Ché quelle vecchie hanno inciampato su quella strada e lui non vuol cadere di nuovo. Ché, in fondo, sensibile lo è sempre stato. È un bel personaggio Kruger. E, mi sbaglierò, ma –per quel poco che so- somiglia al suo Autore. O, forse, la cifra dell’Autore è disseminata in più di un solo personaggio. E tra i dialoghi che, cupi o esilaranti, epilogano spesso in un vaffanculo, a mo’ di saluto e contengono (spesso) aforismi che si stagliano sulle vie e tra i palazzi di una splendida decadente Budapest e scorrono sul Danubio con la svogliatezza di un giorno buio o con la forza di un sole che incendia la città a ovest di un pensiero che dissente dall’ovvio. Ché la soluzione non sta nell’ovvio. In questo caso, almeno, è ben distante dall’ovvio. Ché questo libro di ovvio ha ben poco. E, fosse soltanto per questo, merita di essere letto.

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