domenica 31 ottobre 2010

Il libro del giorno: Streghe di Carlo Codacci Pisanelli (Libellula edizioni)












Nel presente volume sono stati raccolti i risultati di una ricerca sul campo che, dopo un attento riesame e snellimento del testo, si vuole restituire alla gente del Salento, come un prezioso bagaglio culturale costituito dai coloriti racconti trovati e registrati.L’ obiettivo della ricerca si è focalizzato sulla figura delle macàre e sulle loro attività magiche, ricostruite attraverso i racconti della tradizione orale contadina.

Dai racconti di un recente passato, che risale agli anni del dopoguerra, si passa ad un’analisi degli attuali maghi e guaritori, cercando di rinvenire un filo conduttore fra le antiche e le moderne pratiche magiche.Il materiale etnografico raccolto ci ha portato a seguire tre linee guida principali: i racconti sulle macàre e le loro capacità di trasformarsi in animali; i racconti su fatture, malocchi e macarìe; le attività terapeutiche. La figura delle macàre si presenta come un’immagine poliedrica dalle varie sfaccettature sulla quale si riflettono le problematiche della società contadina del dopoguerra. Allo stessotempo, però, le macàre, nel loro ruolo di mediatrici culturali si presentano come le detentrici di un antico sapere simbolico e le uniche capaci di ristabilire situazioni al limite dell’ordinario e e di restituire un ordine alla realtà.

The Shadow effect – il potere del nostro lato oscuro a cura di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson (Sperling e Kupfer)

Tempo, Spazio, Essere sono pura illusione. Prima riusciamo a mettercelo in testa prima eviteremo inutili perdite di tempo che rischiano di farci perdere importanti passaggi destinali. Cerco di spiegarmi meglio. Quando si fa riferimento all’illusione che ci circonda non voglio riferirmi a nulla che sia un capzioso rimando alla scoperta di “quanto sia profonda la tana del bianconiglio”, ma semplicemente voglio riallacciarmi a quanto sostenuto in miei precedenti interventi sul New Thought e la Fisica Quantistica di Fred Alan Wolf. Il Passato il Presente e il Futuro sono solo possibili scenari di quello che la forza della nostra mente è in grado di creare, ovvero la possibilità di incidere su eventi accaduti in passato per modificare il presente e manipolare gli sviluppi di plausibilità onto/fenomenologiche, dipende dalla visualizzazione di ciò che desideriamo. Dunque “horror vacui” derivanti dalla spaesante presa di coscienza del “qui e ora”, i sensi di profonda inadeguatezza che scaturiscono dall’osservare l’orizzonte di un futuro incerto e avvolto ancora da una folta coltre di nebbia, melancolia, tedium vitae, e quant’altro sono pure costruzioni mentali. Il “trucco” se così lo si può definire, è nel “visioning”, ovvero nella visualizzazione. Ma quando ci avviciniamo a entrare in possesso dei “segreti” che potrebbero farci diventare artefici totali del nostro destino, ecco che sul cammino dell’autorealizzazione ci si mette l’Ombra. Elemento fondante un’abbondante porzione delle nostre vite , in numerose culture essa viene spesso associata al male, in contrapposizione simbolica alla luce che incarna il bene. Ma l’Ombra è anche Silenzio, che placa affanni, che ricostruisce ogni delusione e tristezza, che insegna la riduzione alla totale Semplicità. E sebbene per molti Ombra e Silenzio sono solo fonte di attrazione verso la Deriva, verso il Declino, verso l’Autodistruzione, verso la Rabbia, verso l’Abominio, verso la Tentazione, verso il Tradimento, in realtà sono presenze amiche che possono trasformarsi in validi alleati, per fare della propria vita un’opera d’arte, per fare in modo che l’energia pregna di oscurità, una volta dislocata in dimensioni di pura polarità positiva, diventi nelle nostre mani un potere straordinario. Il libro di cui mi sto occupando ha per titolo “The Shadow effect – il potere del nostro lato oscuro” a cura di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson ed è edito da Sperling e Kupfer. Ecco che allora questi immensi guru spirituali hanno fuso in un unico canto di speranza e forza, le loro diverse sensibilità per studiare il fenomeno dell’Ombra in tutte le sue sfaccettature, scandagliando le abissali tenebre dell'anima e definendo con tratti precisi un'entità come l’Ombra per definizione sfuggente . L’opera sembra continuare quelle che sono le linee guida teoretiche seguite da personaggi del calibro di Joe Vitale, Ronda Byrne, Roy Martina e molti altri, ovvero i maestri fondatori della seconda rivoluzione del “Nuovo Pensiero”. I passaggi logici illustrati in questo volume sono perfettamente collegati l’uno all’altro e questo rende - oltre all’utilità di illuminarci con verità profondissime – la lettura piacevolissima.
Libro assolutamente consigliato!

sabato 30 ottobre 2010

Il libro del giorno: Il Diacono di Andrea G. Colombo (Gargoyle Books)
















Siamo porte. Ciascuno di noi, ovunque sul pianeta. Varchi spalancati attraverso cui il Male puo' irrompere e infettare la nostra realta'.
Sino a oggi, i varchi erano tenuti sotto controllo da una Volonta' più alta e da un delicato equilibrio di forze. Ma come predetto dalle profezie, l’equilibrio e' stato spezzato e qualcosa di estremamente pericoloso e' riuscito a passare. Qualcosa di cosi' antico da non aver lasciato negli uomini neppure il ricordo di se'.
E'in mezzo a noi, ora, e si trascina dietro tutto l’orrore che per millenni e' stato faticosamente tenuto alla larga da questa realta'. Forse non c’e' piu' alcuna via d’uscita. Forse non c’e' abbastanza Bene sulla Terra per contrastare tutta la malvagita' che sta per contaminare questo mondo.
Forse, la salvezza e' nelle mani di un monaco senza memoria, senza nome, senza passato. Un uomo la cui vita e potere sono un enigma che deve essere risolto in fretta, prima che sia troppo tardi. I suoi confratelli lo chiamano semplicemente Diacono ed e' il piu' pericoloso e temuto esorcista che sia mai apparso sulla Terra, dai tempi di Gesu' Cristo.
Non resta piu' molto tempo ormai. Lo scontro finale e' prossimo. Non ci sara' alcuna pieta'. Per nessuno. Il tempo della mietitura e' giunto.

L’eroe dei due mari – di Giuliano Pavone (Marsilio X, 2010, 303 pagine, 17 euro)












Per parlare dell’Italia di oggi non si può prescindere dall’essere acidi, e un po’ malevoli, visto che tra “guardonismo” televisivo e “bunga bunga” vari il senso della perdita di orientamento è plausibile. In Italia la letteratura degli ultimi anni ha prodotto molti “beautiful monsters” dalla corrente “Gioventù cannibale” di Daniele Brolli sino al rigore del collettivo Wu Ming, per non parlare del fetish hard core di una Isabella Santacroce. E poi ci sono ancora i romanzi di Gaetano Cappelli, Niccolò Ammaniti e Melissa P. Ma esiste anche una geografia del sentire letterario, che ad esempio vede in Puglia la baresità di un “Capatosta” di Beppe Lopez edito ora da Besa, e la Taranto de “Il Paese delle spose infelici” di Mario Desiati. Ma ora la casa editrice Marsilio ci dice che Taranto è la città anche di Giuliano Pavone che pubblica “L’eroe dei due mari”. Il libro è una folta selva di anedotti, storie e malumori che si agitano sotto la cappa di una città massivamente decadente e velenosamente italsiderea. Metafora di quello che accade oggi nel nostro Paese? Sicuramente, ma vediamo di entrare nello specifico. Un evento improvviso, immenso e dalla portata quasi galattica sconvolge la città della Marina Militare: Luìs Cristaldi, fuoriclasse brasiliano dell’Inter, vuole mantenere fede ad un voto singolare e bizzarro. Luìs Cristaldi vuole giocare una stagione, GRATIS, nel Taranto, piccola squadra della C1 ripescata in B per chissà quale scherzo del destino, e che ora giustamente sogna la A. L’esaltazione dei tifosi tarantini raggiunge livelli parossistici, tanto da lambire anche porzioni della società civile addirittura lontane dal calcio e da tutto il suo mondo fatto di miliardi, pubblicità e “pubbicità veliniche”. Si tratta di un libro scritto non solo bene, ma che fornisce diverse chiavi di lettura e dunque può essere letto a più livelli: si parla di Puglia in maniera poeticisima; si parla di voglia di farcela partendo proprio dal mondo del calcio calato in contesti socio/economici non proprio floridi; si parla di malesseri non troppo latenti che raccontano di personaggi strani, scapestrati, scavezzacollo vari e multicolori, di disoccupazione, di margini e marginalità; si parla di giornalismo sportivo con i suoi se e i suoi ma … Fondamentalmente Giuliano Pavone ci regala una brillante narrazione che può leggersi come una parodia di una parodia della commedia all’italiana, ma che lascia un po’ di amarezza, una volta terminato il libro, perché la lucidità con cui vengono descritte quelle latitudini rivela come non tutta la sporcizia può essere nascosta sotto il tappeto … naturalmente chi ha orecchie per intendere …


venerdì 29 ottobre 2010

Il libro del giorno: Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo per le edizioni ETS. A cura di Sandro Montalto















In occasione della pubblicazione del nuovo romanzo di Umberto Eco "Il cimitero di Praga", le Edizioni ETS sono liete di segnalare il volume:
"Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo" a cura di Sandro Montalto.

Con scritti di:
Paolo Bertetti, Sandra Debenedetti Stow, Paolo Fabbri, Gio Ferri, Margherita Ganeri, Sandro Montalto, Gianni Vattimo, Franco Cardini, Paolo Isotta, Giulio Andreotti, Eugenio Carmi, Maurizio Costanzo, Paolo Domenico Malvinni, Renzo Paris, Aldo Rosselli, Paolo De Benedetti, Pier Paolo Ottonello, Ennio Peres, Giuseppe Varaldo, Achille Varzi, Philip Weller, Gianluca Salvatori, Enrico Solito.

L’estrema libertà è la principale virtù (altri diranno: difetto) di questo libro, nato per omaggiare Umberto Eco al di là di ogni occasione accademica o genetliaco. Libro errante – come errante è il pensiero di Eco – non pretende di rendere conto della vastità degli interessi del professore, nonché dei suoi contatti, delle sue collaborazioni, dei debiti che il mondo culturale in genere ha con lui, grazie alla sua attività vorticosa ma equilibrata, caratterizzata da arguta intelligenza, ma anche da luciferina rapidità di intuizione. L’unico impulso a collaborare al progetto da parte degli autori è la volontà di omaggiare un pensatore con rilassato piacere e senza affanni. Per questo motivo essi sono solo una minima parte di coloro i quali avrebbero voluto (e potuto) farlo. Per lo stesso motivo alcuni campi di interesse del Nostro non vengono trattati, mentre altri fanno diverse comparse sotto diverse ottiche. Sempre in virtù della grande libertà che attraversa le pagine di questo libro, accade poi che alcuni illustri autori si siano espressi sconfinando dal loro abituale ambito di competenza, il che giova molto a un volume come questo.

Pagine: 300; Prezzo: € 23,00

IL SUD DEL PRIMO 900, LE DONNE E IL DESTINO NEGATO. INTERVENTO DI ROBERTO MARTALO'














L'amore, la fede, il potere in un paesino del Sud Italia ai primi del '900: La badessa di San Giuliano offre molti spunti di riflessione. Entrata spontaneamente in convento per emanciparsi dalla nobile famiglia e per sfuggire a una vita già designata dai genitori e dall'asfittico ambiente del suo paese d'origine, suor Crocifissa, al secolo Lucrezia Jacobellis dei baroni di Terracciano, diventerà badessa di San Giuliano sia per le sue capacità umane e morali che per la sua abilità di amministrare i beni, doti che la faranno apprezzare dalla maggior parte delle suore. Improvvisamente la vita la mette dinanzi a situazioni e soprattutto sentimenti sconosciuti: innanzitutto l'amore per Pietro Forzano, che la porterà ad avere una tormentata relazione di passione e dolore al tempo stesso; quindi il rancore e le gelosie di uno sparuto gruppetto di suore, istigate dall'invidia e dall'avidità di Suor Benedetta, divenuta monaca non per vocazione o scelta propria e desiderosa di avere il potere al punto da mettere in giro voci false sul conto della badessa e sulla vita che si svolge nel convento. Infine la falsa umanità del vescovo che non è capace di leggere nei cuori delle povere sorelle perché troppo preso a pensare alla sua immagine e alla sua rispettabilità. Marisa Di Bello ricostruisce in forma romanzata una storia vera, testimoniata da un fitto carteggio tra Curia e Convento; una storia che si offre come paradigma della condizione sociale delle donne nel nostro Meridione agli inizi del secolo scorso quando nel Nord, e ancor prima in altri Stati europei, esse già contavano qualcosa in società non solo come madri di famiglia ma come soggetto pubblico in grado di portare sviluppo alla comunità. Fa tutto questo con estremo garbo e grande sensibilità, offrendo sempre il punto di vista femminile. Ma questo romanzo presenta anche altre chiavi di lettura: infatti, non solo ci parla delle difficilissime condizioni delle donne dell'epoca, ma ci dice anche come per secoli la nostra società abbia rinunciato all'apporto delle donne, impedendosi dunque di crescere. Ancora, è uno scritto sulla sincerità della fede e sul suo significato: molti preti e molte suore si erano dati al clero non per vocazione ma per ricavarne vantaggi terreni e materiali. Infine, è una narrazione sul potere che acceca gli uomini: come dice la Di Bello “Potere, demone sempre in agguato che semina infelicità e sofferenze tra i popoli. Che soffoca gli ideali dei puri e spegne vite incolpevoli”. Una storia dunque che fa luce sull'uomo e sui suoi sentimenti e passioni, che ancora oggi possono far soffrire.
La Badessa di San Giuliano di Marisa Di Bello (Besa Editrice, 263 pag, 20 euro)

giovedì 28 ottobre 2010

Il libro del giorno: Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno (Mondadori)















Nell'appartamento di Samuel Pontecorvo fa irruzione la bella cognata Anna, disperata: Filippo, unico fratello di Samuel e marito di Anna, è scomparso. Durante la lunga notte in cui Samuel e Anna si fronteggiano: intorno a loro danzano i fantasmi degli anni che li hanno condotti fin lì. Quelli dei genitori di Samuel e Filippo, la loro ascesa e la loro rovina: lo scandalo che ha segnato per sempre il padre Leo, oncologo travolto da accuse infamanti; la reazione della moglie, rifugiatasi nel rigore dell'ortodossia religiosa. E quello di Filippo, giunto alla fama internazionale per aver restituito "charme allo sdegno civile e sex appeal alla protesta umanitaria" con un film d'animazione che denuncia un planetario traffico di organi di bambini. Ma, soprattutto, c'è il rapporto Ira i due fratelli uniti sino alla simbiosi durante l'infanzia e poi avviati lungo percorsi sempre più speculari.

Cicatrici, di Gianluca Morozzi (Guanda). Intervento di Nunzio Festa





















In una città del Nord, forse Milano, un uomo ha compiuto un omicidio in pubblico. E, quest'uomo ormai colpevole, spiega la sua vita e la sua azione alla psicologa chiamata a periziarlo. Ma prima, e ovviamente, dopo, e certamente durante questo “Cicatrici” - nuovo libro del mai giustamente amato autore bolognese Gianluca Morozzi, un padre irlandese massacra quasi la sua intera famiglia. Ed è da qui, anzi, che comincia la storia. Vicenda, tutta, che se inizialmente sembra condita e poi persino ammantata di pretestuosità, si sviluppa con una leggere, scioltezza, scorrevolezza impareggiabile. Alla Vitali delle opere migliori, per far capire. E, infine, sotto una certa luce che porta al noir e che nel contempo ci porta fuori dal noir. Per dire d'un'avventura che prende in ogni accento. Soprattuto a targhe inattese. Ad azioni impensabili. Fitta fitta, in toto, di colpi di scena. Che mai si comprenderà che cavolo c'entri infine il padre d'Irlanda con il quasi anonimo, quanto buono, Nemo Quegg. Nemo, protagonista del romanzo, è finito (si diceva) in gabbia per un delitto atroce. Ha accoltellato, davanti a tanta gente, persino bambini, un uomo. Con freddezza e premeditazione. Senza meritare, d'altronde, l'infermità per mente alluvionata. Morozzi, lo scrittore che normalmente stupisce con trame prese da una fantasia in continuo rinnovarsi, di nuovo mette insieme la brillantezza del suo stile asciutto e scattante con una trama che disegna vicende su vicende. Nonostante non s'arrivi a pagine da scartare, specialmente. Questo nuovo romanzo è suddiviso in: prologo (il massacro), la strana storia del tipografo triste, 1942 e oltre, Karmageddon; e si prenda pezzo per pezzo al fine di sapere più esattamente. Che solo in Karmageddon sappiamo dove nasce l'idea della storia e da cosa la storia davvero sia attraversata. A questo punto è da scrivere o no? No. Almeno per adesso. Ma con l'invito a leggere. Perché la trovata è di quelle, similmente al passato, geniali. Se in “Blackout” il sangue sgorgava più fortemente e nel frattempo rigenerava gli episodi a ogni loro piccolo relax, in questo “Cicatrici” quello che passa Felice, uomo o donna?, sangue a parte, è persino più travolgente. Sconvolge. Che, di fondo, esiste una linea, chiaramente spiegata, utile a farci comprendere persino il motivo d'una certa sottomissione. O di un certo tipo, più esattamente, di sottomissioni. I caratteri di questa storia, quelli dei personaggi insomma, si mischiano al netto delle loro fluorescenza psicologiche. A questa ragione sarà quello che non s'è scritto qui a giustificare ogni cosa. Il prolifico Gianluca Morozzi, che ha in cantiere attualmente diverse altre opere, è tornato davvero allo spessore di “Blackout”. Mettendo fuori questo noir (noir insolito?), dove un tipografo triste sente una strana, sconosciuta, musica. E s'innamora. Un medico s'innamora, però, d'una strana, 'sconosciuta', tirocinante d'ospedale. Dall'altra parte del mondo, nei sogni, altro avviene. Cose comuni. Ma già sentite? Portare esempi, grazie.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il libro del giorno: Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali di Piero Gobetti a cura di Guido Davico Bonino (Edizioni Controluce)













Con Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali viene avviato un progetto di Opere scelte in tre volumi di Piero Gobetti (1901-1926). Il primo volume raccoglie, come il sottotitolo esplicita, un’argomentata e ampia antologia di interventi di questo grande intellettuale e pensatore politico, prematuramente scomparso per mano del regime fascista, sia sul fronte della letteratura che su quello del teatro. Attraverso le tre riviste dirette e fondate da questo febbrile “operatore culturale” nell’arco di sette anni – dal novembre 1918 alla morte a Parigi nel febbraio 1926 – Gobetti interviene sui nodi cruciali dell’attività letteraria ed editoriale italiana (fu, com’è noto, editore in proprio) – dal vocianesimo al futurismo, dalla “scoperta” dei narratori russi a quella degli scandinavi – e, succeduto come critico teatrale ad Antonio Gramsci sul torinese “Ordine Nuovo”, sulla tirannia dei primattori, come il positivista Ermete Zacconi, sull’esigua tradizione italiana, su Pirandello e i grotteschi, sino alla precoce valutazione del teatro francese di ricerca, da Paul Fort a Lugné-Poe ad Antoine.

Il volume, curato da Guido Davico Bonino, già docente di Storia del Teatro all’Ateneo torinese, è arricchito da una sua ampia introduzione.

Fanfarije, di Assunta Finiguerra. Prefazione di Franco Loi (LietoColle). Intervento di Nunzio Festa
















Assunta Finiguerra c'ha lasciato poco più d'un anno fa, il 2 settembre 2009. I due libri postumi pubblicati da due diversi editori (Mursia e LietoColle), una buona opera comunque, non bastano a farci svilire la forma più amara dell'assenza. Perché manca tutto l'anima sentimentale della poetessa Assunta Finiguerra. Nonostante rimarrà la sua parola. O almeno parte d'essa. Come, tra le altre cose, fa intuire il poeta, anch'egli dentro il 'dialettale', Franco Loi. E disistima a parte e in generale per la stessa poesia in dialetto, dunque, i versi di Assunta Finiguerra da San Fele, provincia di Potenza, c'hanno insegnato a non snobbare l'espressione in lingua regionale. In lucano per dire. Che la Basilicata, in effetti, a mille rivoli di dialetto eppure sonorità che altri avevano tentato persino d'offrire, in un passato più remoto, al mondo intero. Qualche anno fa, tra le altre cose, Assunta Finiguerra, prima d'essere bloccata e martoriata dalla malattia, decise d'accettare l'invito e/o proposta di fare da giurata al Premio Letterario “La città dei Sassi”, di Matera. Occasione per la quale accettò con garbo e durante la quale ci stette vicino con forza e attenzione/i. Ora che LietoColle, editore da sempre amico della Finiguerra, ha deciso di dedicarle questo importante volume, ma che è essenzialmente un omaggio alla poesia di qualità, alla vera poesia, ci si trova difronte a un corpo di testi che vedono tornare le 'dadate' sillogi “Rescidde” e “Solije”, insieme agli inediti componimenti dell'eponima “Fanfarije”. E prima di soffermarci proprio su quest'ultima, è necessario ricordare che tra le diverse pubblicazioni in vita, Finiguerra ci lasciò una trascrizione-trasposizione nel suo dialetto del nazionale “Pinocchio” (LietoColle). “È sscesë a lunë indë Sandë Félë / rë cchianë nda rë vvijë forë i pannë / restënë a gguardà i cuorvë ngiélë / ca strafochënë ciacëlijannë.” (È scesa la luna dentro San Fele / i sassi nelle vie fuori dai panni / restano a guardare i corvi in cielo / che si alimentano ciarlando”. Diceva un tempo la poetessa. A boccate d'irriverenza. Chissà, per esempio, tanto per ricominciare, se il suo Dio (invocato e fatto ballare) l'ha trovata davvero 'vestita' da “capro con il cuore di agnello”. Inutile parlare, citare, testimoniare i riconoscimenti ricevuti dalla poetessa di San Fele. Dunque meglio perdersi in “Fanfarije”. Che abbiamo in mano, tra l'altro, grazie al lavoro meritorio di Diana Battaggia: già vicina all'autrice lucana in molti momenti. Nella memoria presente d'endecasillabi accovacciati nell'intimità universale, frustata dalla tristezza, dal dolore dalla malattia pigliamo il sorriso della provocazione. Il gusto dell'ironia onirica. Dove il sesso è 'forzato'. Forzoso. Perché naturale è, per aggiungere, messo a contrasto della sofferenza. Ma a mo' di provocazione altissima, dunque. E Assunta Finiguerra ci spiega come nonostante il corpo a corpo, anima ad anima persino, con la morte intravista dalle finestre mezze abbassate, si possa creare versi alle quali il mondo intero deve abbeverarsi. Che le sonorità, su tutto assonanze e consonanze, quando non proprio rime, sbriciolano lo stesso muro del sanfelese per entrare nelle lingua italiota: mai così vissuta, infine, da galli e da gente (ambiente) comune. In nome d'una reale liricità. Le lettere italiche dovrebbero dare di più alla poetessa Assunta Finiguerra. Oggi, per giunta, che sapendo quanto nella vita finita presto aveva detto ci si dovrebbe accorgere dell'incisività di poesie indietro e avanti al tempo, accovacciate nel presente cangiante. I componimenti di Assunta Finiguerra, ognuno dei suoi testi, ci riferisce almeno una parola imperdibile. Indimenticabile.

martedì 26 ottobre 2010

Il libro del giorno: Dimmi chi sei, Marlowe di Frank Spada (Robin edizioni)













Il detective Marlowe è momentaneamente parcheggiato in una clinica di Loco Hermoso, in territorio messicano. In convalescenza dopo un intervento chirurgico, si gode le cure dell’incantevole Miranda, l’infermiera dei sogni proibiti di ogni malato. Lasciato il Messico e rientrato a casa, Marlowe riceve una telefonata dalla signorina Conchita, sorella gemella di Miranda. Ugualmente bella da mozzare il fiato, la señorita rifila alla curiosità del detective strane storie di certi amori proibiti, costringendolo a seguire un caso pieno di sorprese e soprattutto a fare i conti col suo doppio, quel gemello siamese che lui s’è trovato cucito alla coscienza.
Tra molti “pollicini” e interminabili sigarette, spuntini al Minnie’s bar dove oltre al cibo c’è sempre un balconcino da apprezzare, in sella alla sua Olds Marlowe segue la pista di due antichi gioielli che uniti simboleggiano la vita eterna e per i quali più di qualcuno è disposto a uccidere.
Sequenze da film e colpi di scena, tra richiami letterari e acrobatiche metafore, non ultima quella che vede il detective con la sua baby alla tempia, mentre il jazz della West Coast si fa più acuto…

La casa editrice Kurumuny finalista al Premio Internazionale "Cesare De Lollis con 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini








La giuria del Premio Internazionale "Cesare De Lollis" giunto all'ottava edizione ha reso noto i titoli delle opere finaliste che concorreranno all'assegnazione del primo premio. Le opere finaliste per la sezione narrativa sono: La prima notte solo con te di Arnaldo Colasanti (Mondadori); Fare scene di Domenico Starnone (Minimum fax), Eva dorme di Francesca Melandri (Mondadori), Rosso Floyd di Michele Mari (Einaudi), Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek (Guanda), Devozione di Antonella Lattanzi (Einaudi), Vento di tramontana di Carmelo Sardo (Mondadori), Storia della mia purezza di Francesco Piccolo (Mondadori), Una terra spaccata di Emilia Bersabea Cirillo (Edizioni San Paolo), L'anno delle ceneri di Giuseppe Schillaci (Nutrimenti).

Per la sezione saggistica le opere finaliste sono: Senza vergogna di Marco Belpoliti (Guanda), Pane nostro di Predrag Matvejevic (Garzanti), Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria (Einaudi), Il mostro mite di Raffaele Simone (Garzanti), Città flessibili di Corrado Poli (Instar libri), La fiamma rossa di Gianni Mura (Minimum fax), Filosofia fuori le mura di Giuseppe Ferraro (Filema), Il mio circuito si chiama Paradiso di Carlo Nesti (Edizioni San Paolo), 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini (Kurumuny Ed.), Breviario di italiano di Lucio D'Arcangelo (Solfanelli).

Sul passaggio – L’indugiare poetico nei versi di Anastasia Leo (Il suono dell'orologio, Luca Pensa Editore). Intervento di Eliana Forcignanò












Vi è nel ticchettio degli orologi l’ossessione martellante del tempo che scorre e che questi strumenti sono chiamati a misurare, a quantificare e, nel contempo, a segnare come già stato: un autentico paradosso sancire con un’emissione di suono e, dunque, con un movimento vitale – sebbene meccanico – la morte, il non più. Quando l’ora scocca, l’ora è fuggita e già Aurelio Agostino rifletteva sulla dimensione effimera del tempo: il futuro non è ancora e il presente trapassa subito nel passato, che cosa rimane se non il carpe diem di oraziana memoria, l’invito a cogliere la rosa prima che appassisca perché, come scriveva Mimnermo, siamo come le foglie che il vento disperde nello spazio di un soffio. Dì là dalle citazioni colte, esistono uomini e donne che sono o si percepiscono profondamente inadatti a vivere l’attimo: si tratta di soggetti che hanno un respiro più lungo dell’istante, la cui profonda esigenza è quella di raccogliersi estasiati dinanzi alla bellezza anche per una durata indefinita e di trincerarsi nella propria interiorità a meditare sulle inspiegabili epifanie del male per un tempo che non conosce limiti – ciò che, nel linguaggio comune, si definisce “ruminazione” – né interruzioni. Inspiegabili le epifanie del male perché il male è accidente nella persona non sostanza: qui si potrebbe obiettare che ciascuno è in grado di compiere il male e che, dopo la cacciata dall’Eden, l’umanità si trova in una condizione peccaminosa sulla quale soltanto la Grazia può intervenire, ma, allora, perché, nel ricevere il male, si soffre in maniera così accanita fino a volerlo allontanare e respingere? Se il male fosse sostanza umana, esso non dovrebbe generare tanta sofferenza nell’uomo, benché la stessa ragione, che pure appartiene alla sostanza dell’uomo, procuri talvolta sofferenza e tedio esistenziale. Forse, il male è accidente necessario cui nessuno può sottrarsi né come artefice né come vittima. Nemmeno alla morte possiamo sottrarci, ma questo non vuol dire che la accettiamo, che rinunciamo a interrogarci su di essa e a includerla nel novero dei mali anche se morire significa esser uomini, scrivere la parola fine lì dove vi è stato un inizio, anche se si tratta di una scrittura dolorosa che non vorremmo mai vergare sul foglio. Foscolo sapeva che tutto ha fine, ma quando anche gli avelli saranno erosi dal tempo, rimarrà pur sempre la poesia a esortare chi la legge o la ascolta al compimento delle “egregie cose”. Magra consolazione per i contemporanei ora che le “egregie cose” in cui impegnarsi sono finite, ammesso che, in passato, ce ne siano state in abbondanza. Si torna, così, al discorso avviato in precedenza: meglio vivere l’attimo, godere il meglio del tempo che ci è dato e non stare a interrogarsi troppo sul futuro. Progetti a lunga scadenza avvelenano l’animo perché è impossibile sapere se si realizzeranno o meno e l’attesa esacerba la pazienza, sfianca la fiducia, devasta le energie o, almeno, così accade ai più che abdicano ai loro sogni in favore di un’esistenza tranquilla e improntata al godimento delle gioie domestiche. Alcuni – pochi in verità – spiriti preferiscono l’attesa al compimento: attendere significa donare un respiro lungo alla realtà, sorbire l’agrodolce dell’immaginario, incontrare altre attese, talvolta venate di quella piacevole trepidazione che avvolge come una coltre e mantiene vivo il calore di una speranza immalinconita appena dal timore di non raggiungere mai la meta. È la storia del viandante che cammina per raggiungere la dimora dell’amata lasciata tanto tempo prima: calpestando il suolo passo dopo passo, si chiede se la donna lo aspetti serbando intatta la memoria dell’ultimo amplesso e, intanto, lui stesso ricorda il tempo trascorso insieme e si compiace di ricordarlo in maniera così nitida, quasi fosse scolpito nella sua mente. Accanto alla speranza si aggiunge il ricordo nel quale l’attesa si discioglie e si prolunga fino a divenire, nelle vicende d’amore, languore e struggimento. Tornano alla mente i carmi dei poeti ellenistici composti dinanzi alla porta chiusa dell’amata: anche in questo caso, le liriche nascono dall’attesa che i battenti si aprano al desiderio dell’amante. E il connubio di amore e morte è sempre presente nella poesia di ogni tempo, perché la poesia si colloca nel tempo: ogni istante che passa, ogni istante che trascorre senza che la porta dell’amata si dischiuda è un istante donato alla morte.

Sembra che, nei suoi versi d’esordio, Anastasia Leo (Il suono dell’orologio, Lecce 2010) abbia ben presenti queste tematiche: tempo, male di vivere, amore, morte. Il tempo che scorre inesorabile – “La vita fugge e non s’arresta un’ora” – è un tropo della tradizione poetica e letteraria internazionale: di assolutamente proprio e peculiare, nella poesia di Anastasia, vi è l’inserto di figure familiari che negano l’avvicinamento dell’ora fatidica. “La vecchia nonnina” intenta a raccontare storielle e il padre “che non si rendeva conto” – o, forse, che non gradiva rendersi conto – dell’incedere della “età oscura”, età che rimane ambigua, indefinita. Considerando la giovane età dell’autrice – Anastasia frequenta il liceo – si potrebbe credere, a tutta prima, che “età oscura” sia l’adolescenza anche se la contiguità con la parola “morte” e con il “mantello nero” che avviluppa le parole e le avvolge come in un sudario lasciano presagire un’altra fase della vita, quella prossima al trapasso. Non fa meraviglia che a questo componimento ne segua un secondo sulle “parole senza senso degli uomini”: proferire frasi che non hanno senso – là dove non si tratta di nonsensi poetici, bensì di frasi dette per superficialità, per incapacità di attendere e valutare gli esiti di un discorso o di un processo vitale – è un modo non per ingannare il tempo, bensì per smarrirlo, per disperdere il nostro e quello dell’interlocutore. La vacuità di certi discorsi esclude ed elude dal proprio seminato la riflessione sull’esistenza che dovrebbe rappresentare il nostro unico fine, prima di esser divisi dall’albero come “foglie d’autunno” – e qui ritorna Mimnermo, ma s’intravedono anche gli echi del simbolismo francese – costrette a vagolare nell’aria non avendo una destinazione. E, tuttavia, non si può tacere un interrogativo: le parole devono necessariamente avere una destinazione? La poesia ha una destinazione che non sia ecolalia, ossia ripetizione dei sentimenti e degli intendimenti del suo autore e, dunque, destinata a lui solo? A chi pensava Baudelaire quando scriveva I fiori del male e la Plath? Vi è molto di somigliante a entrambi i poeti nelle liriche di Anastasia Leo, ma non è metodologicamente corretto imbarcarsi in una misurazione delle influenze poetiche, perché la poesia è questo: continuo rimando, continua corrispondenza di pensieri, forme e ritmi che vengono attinti dalla tradizione per essere costantemente rielaborati – si veda L’angoscia dell’influenza di Bloom – e resi di nuovo in grado di comunicare qualcosa. I versi di Anastasia Leo comunicano l’attesa angosciosa della morte, del momento in cui non si è più, ma questa considerazione del momento supremo non induce a vivere meglio il tempo presente, piuttosto esorta a considerare l’inanità delle cose, il vuoto che supera l’umano affaccendarsi per avere una vita piena: piena? “Notte”, “nulla”, “impossibile”, “infinito” sono termini che ricorrono nella poesia di Anastasia Leo e che sottendono l’area semantica e psicologica della negazione. Se tutto è vano, se persino le fotografie non trattengono i volti sottoposti alla legge dell’invecchiare, rimane soltanto da vivere una vita costantemente spesa sull’orlo della negazione: io non esisto, non prego, non so e, soprattutto, niente di tutto quello che mi è accaduto mi riguarda davvero perché la mia esistenza è fatta di vuoto. Io attendo che “la morte faccia sbocciare i fiori dal mio cervello” come scriveva Baudelaire, perché la vita non ha dato loro abbastanza acqua e, perché si abbia un campo fiorito, occorrono le lacrime di chi piange sulle tombe, dinanzi ai “cancelli chiusi di un cimitero in croce” scrive Anastasia nei versi che aprono la sua raccolta densa di morte, eppure densa d’amore. Sì, amore è in questi versi nei confronti di un interlocutore non meglio precisato del quale rimane soltanto il profumo “nei pensieri di questa notte piena di sogni”: è l’innamoramento onirico tratteggiato con sapienza ancestrale dall’autrice la cui consapevolezza degli affetti oramai scardinati – “il sospiro di mia madre non mi accompagnerà nel poker della vita” – indugia, tuttavia, nel pensiero di un’altra presenza/assenza dalla quale è attinta la forza per scrivere. Qualcuno guarda e tace: nel sogno, nella realtà quando il “collo bagnato” della donna che qualcuno accarezza, perso nella contemplazione della bellezza fatta femminilità. La rievocazione dell’eterno femminino è compiuta quale sentito sacrificio alla divinità poetica: L’“America ladra degli anni Sessanta” e Wall Street non sono sterili omaggi alla Beat Generation, calchi da poetiche già affermate e consolidate, ma il tentativo – ben riuscito – di testimoniare la femminilità del paesaggio che fa da sfondo al poetare di Anastasia Leo. Quell’America con i suoi pessimi bar dei vicoli di New York, con le sue viuzze celate agli occhi dei più, con i suoi beoni saggi – Dean il Vecchio – è donna che comprende il male di vivere e lo propina in piccole dosi ai suoi abitanti, come una madre povera permette ai suoi figlioli soltanto di sbocconcellare il pane, lasciando che essi vivano il dramma della fame, perché meglio aver fame in più persone che saziarne uno e far morire gli altri. Ma il male di vivere rimane come rimane la voglia di credere in un riscatto morale che sa di eroismo, di titanismo: andare avanti con la consapevolezza dell’infelicità. Possibile? Nella poesia la risposta e la consolazione dalla fatica di vivere.

Info: info@pensaeditore.it

lunedì 25 ottobre 2010

Il libro del giorno: Autopsia dell'ossessione di Walter Siti (Mondadori)




















Danilo Pulvirenti è un uomo che ha fatto della sobrietà e dell'intransigenza una regola di vita. Nel chiuso di questo recinto, Danilo è divorato dall'ossessione erotica; "racconto fondatore e stupido, narrato mille volte ma irrecuperabile e irripetibile", l'ossessione travolge la realtà sottomettendola a una dimensione mitica. Una "malattia sacra" che resta a lungo in incubazione, priva di un soggetto che le permetta di deflagrare: solo quando Danilo è ormai un ricco e maturo antiquario romano, con una vita rassegnata e rispettabile, l'ossessione si incarna. Usando la fotografia come strumento privilegiato, l'ossessione rivendica i propri rudimentali diritti; spezza la fragile unità dell'io e introduce nel mito la figura di un Doppio; un professore con pretese di scrittore, di cui il protagonista pensa di potersi sbarazzare facilmente. Ma questo vecchio calvo dall'aspetto inoffensivo ha dalla sua una diabolica tenacia, sicché il gioco sfugge di mano a Danilo, che finisce per approdare a un'orribile soluzione. Giocando a rimpiattino con l'autobiografia, Walter Siti ci consegna un romanzo nel quale l'ossessione erotica trasmigra dalla fiction per condensarsi in proposizioni teoriche che, tracciando i lineamenti fondamentali degli impulsi più oscuri, ci riguardano tutti. "Autopsia dell'ossessione" è l'ultimo atto della trilogia aperta da "Troppi paradisi" e da "Il contagio"

Il cimitero di Praga di Umberto Eco (Bompiani) ... una piccola anteprima!










Mentre per Mondadori esce l’ultima fatica di Walter Siti dal titolo “Autopsia dell’ossessione” (splendido romanzo dove gli impulsi più oscuri la fanno da padroni) ovvero l'ultimo atto della trilogia aperta da “Troppi paradisi” e da “Il contagio”, ecco che Bompiani non si fa attendere, e per questo autunno appena iniziato consegna ai lettori un piccolo capolavoro. Ma occorre in questo caso lavorare di fino. Siamo nel 1980. Sugli scaffali delle librerie italiane esce “Il nome della rosa” il romanzo d'esordio nella narrativa di Umberto Eco, un libro intelligente, divertente, così ricco che permette diversi livelli di lettura. Poi il 1988. Eco non perdona. Esce il “Pendolo di Foucault”, seconda prova scritturale per questo autore, ambientato nei primi anni ottanta, che come scrisse Jacques Le Goff in una recensione su L’Espresso « ... questo romanzo magico sulla magia, questo romanzo misterioso sul segreto e sulla creatività della finzione, questo romanzo tumultuoso, questo romanzo luminoso su un mondo sotterraneo... ». Penso che a queste due opere possa associarsi, guardando un po’ a tutto il percorso scritturale di Eco, il più recente “Baudolino” eccelso lavoro ambientato tra il XII e il XIII secolo dove si racconta, attraverso le parole del protagonista Baudolino, di scenari di pura fantasia e di personaggi mitici, attraverso una successione sconfinata di episodi storici e leggende, dalla fondazione di Alessandria all'Italia dei comuni e del Barbarossa; dalla nascita delle università all’incredibile viaggio alla ricerca del mitico Prete Giovanni e del Graal. Un “fritto misto” insomma tra il picaresco, il giallo, e il saggio di profilo storico. Ora dopo poco più di trent’anni dall’uscita del suo romanzo d’esordio, il Nome della Rosa, Umberto Eco (a partire dal 29 ottobre) consegna al pubblico, il suo nuovo romanzo dal titolo “Il cimitero di Praga” (ed. Bompiani). Siamo a metà dell’800. L’intenzione del Nostro, è quella di parlare, togliendosi magari anche qualche sassolino dalla scarpa, della nascita delle nazioni moderne. In filigrana si parla di un falsario, il Capitano Simonini, spia per conto di parecchi paesi d’Europa. Il riferimento più gustoso, che permea il nostro istinto di acquisto nei confronti di questo titolo, è al cimitero dove è sepolto il rabbino Jehuda Low ben Bezalel, che creo’ il Golem. Golem significa arti magiche, significa Sefer Yetzirah, significa Qabbalah. Sarà un libro che consiglio caldamente, sarà sicuramente corposo (più o meno cinquecento pagine), sarà sicuramente un capolavoro! Imperdibile!!!

domenica 24 ottobre 2010

Il libro del giorno: Uccio Aloisi, I colori della Terra (edizioni Aramirè)













Questo libro nasce da una lunga intervista al più conosciuto dei cantori tradizionali salentini: Uccio Aloisi. È suo il racconto (trascritto in dialetto e tradotto in italiano) che tocca i temi del lavoro, della musica, della lotta per una vita migliore… Il doppio CD allegato al libro consente di ascoltarne la voce che, con incredibile forza affabulatoria, ci trasporta attraverso gioie e dolori, racconti, storie, canti e musica. I canti: per Uccio è impossibile raccontare senza scandire la narrazione cantando. Ecco allora gli stornelli, mara l'acqua, la pizzica degli Ucci, Uccia canaja, Santa Cesaria, Lu Santu Lazzaru…
Tutti brani che fanno parte del vastissimo repertorio che Uccio, insieme agli altri Ucci (fra cui lo scomparso Uccio Bandello) ha reso noto a tutti gli appassionati musica tradizionale del Salento. Dalla prefazione di Alessandro Portelli: «È con l’arrivo della scrittura, della scuola, che il mondo si divide fra istruiti e "ignoranti". Uccio Aloisi è un esempio straordinario di resistenza a questa spartizione: non è istruito, ma è sapiente lo stesso. All’esclusione e allo stigma che dovrebbe comportare l’analfabetismo risponde con il sapere di una cultura orale – la lingua, i suoni, i canti, le feste, i riti; ma anche il lavoro con le sue tecniche, e la memoria storica (le occupazioni delle terre) […] È una sapienza che non è diversa solo per contenuto, ma anche per modo […] Il lavoro si impara guardando gli altri lavorare e lavorandoci insieme, magari «rubando» il mestiere; le canzoni si imparano ascoltando e cantando insieme […] Per questo, il sapere di Uccio Aloisi è soprattutto un’appartenenza, un’identità».

L’ultimo viaggio di Ucciu Aloisi, il cantore antico del Salento di Paolo Rausa

















Due giorni fa si è spento nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi. Quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare, ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, un piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino, nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. A vegliare Ucciu, che è giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, c’erano tutti i suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la sua leggera ironia, per la prontezza di spirito, per la battuta pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e per il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine lascerà tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Le potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica accompagnato dalla danza taumaturgica riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Ucciu Aloisi era considerato da tutti i giovani il depositario della tradizione. Per questo all’annuale Festa della Taranta, in agosto a Melpignano, i giovani lo applaudivano incessantemente, forse temendo data la sua età una fine imminente. Certo la pizzica ha ormai valicato lo stretto territorio del Salento per giungere in tutte le piazze dell’Europa, finanche in Cina, a rimorchio della Fondazione che ha rinnovato la tradizione, ma sempre mantenendo vivo quel canto che assumeva nelle cadenze il ritmo del suo stesso lavoro nei campi, quel lavoro di cavatore, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva in un’armonia musicale che ha forgiato le esistenze ed ha costituito la migliore testimonianza e un grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno delle genti diseredate del sud che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare ha raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribbolire il sangue e da quella raccolta è nato il suo gruppo di otto elementi, che con lo stesso nome continuerà il suo percorso culturale e umano, ben sapendo che Ucciu non li abbandonerà mai.

Poggiardo (Le), 22 ottobre 2010

sabato 23 ottobre 2010

Il libro del giorno: Garbatella combat zone di Massimiliano Smeriglio (Voland)














Valerio, trentenne precario, si porta dentro filamenti di memorie acide, inquietudini capaci di trasformarlo in un lupo solitario attratto dal profumo del sangue. Le storie della sua famiglia e quelle del quartiere si intrecciano con le velenose lusinghe del Garbatella combat zone, con violenze e rapine, ferite e tradimenti. Il sogno di un Messico idealizzato e poi perduto tra le nebbie del narcotraffico torna a essere una meta, un approdo dove ricominciare prima che sia troppo tardi. Una fuga rocambolesca, un viaggio senza ritorno. Ma il passato non si può cancellare tanto facilmente...

Massimiliano Smeriglio vive e lavora a Roma. Ha pubblicato saggi e articoli sulla politica, il sociale, la città e la cittadinanza, fra cui Se Henry Ford avesse risposto al telefono (Magma edizioni, 1999), Città comune, autogoverno e partecipazione nell'era globale (Deriveapprodi edizioni, 2006), Walter ego. Gli anni del principato romano (Liberazione edizioni, 2007). Collabora con la rivista “Loop – culture linguaggi e conflitti dentro l’apocalisse

Rossella Piccinno: “Mi piace raccontare storie”. Intervista a cura di Angela Leucci








Rossella Piccinno ha girato “Hanna e Violka” (Kurumuny edizioni) perché voleva raccontare una storia come tante. La storia delle governanti di famiglia, che tra tante difficoltà accudiscono i nostri anziani, che loro chiamano “nonni”, un vezzo di intimità in un certo senso motivato dalla profonda confidenza che queste persone prendono con le nostre case.

Perché i documentari non sempre hanno dietro una perfezione tecnica della fotografia e di altro?

In realtà, c'è grande cura anche nel realizzare un documentario. La parola infatti indica un'accezione generica, perché ne esistono moltissimi tipi. Nel caso del mio lavoro, bisogna considerare che è stato assolutamente low budget. Ho iniziato totalmente sola, anche perché la storia aveva qualcosa di moto intimo, e si basava su un girato a stretta prossimità coi personaggi, per cui chi girava doveva avere un bassissimo impatto con la vita quotidiana dei protagonisti. Sarei stata un corpo esterno che invade uno spazio, per cui se avessimo chiamato anche direttore fotografia, elettricista, o un'intera troupe avremmo causato molto disagio per tre mesi, oltre che generare un costo che non si poteva sostenere.

Una domanda intima: uno dei tuoi protagonisti, tuo nonno, è venuto a mancare di recente? Credi che il cinema possa rendere eterno chi non c'è più?

Non so se l'arte possa fare un regalo a chi non c'è più, pensiamo, per esempio, agli attori viventi. Non credo che questa cosa faccia parte della vita o della morte, ma certo il cinema fa durare nel tempo le persine e la scolpisce nell'immaginario, per come il mondo recepisce l'immagine. James Dean è divenuta un'icona, perché il mondo aveva bisogno di quell'icona, era una contingenza dell'intera umanità.

La tua colonna sonora è originale...

Tutta la colonna sonora è originale, è stata composta da Pierini e Mattei, ragazzi che ho incontrato durante un viaggio per caso, ho ascoltato la loro musica e mi è piaciuta, per cui abbiamo deciso che avremmo iniziato a lavorare insieme partendo da zero.

La maggior parte dei pezzi è strumentale, una scelta molto utilizzata negli ultimi anni.

La questione della musica per film è molto delicata: per esempio sono stati composti molti più pezzi di quelli che poi sono stati utilizzati, ma solo quelli scelti si adattavano, poiché altri, che magari preferivo, davano una connotazione troppo drammatica a immagini di per sé drammatiche, creando un effetto film muto. Credo che il il pezzo troppo forte crei ridondanza, per cui bisogna restare discreti.

Meglio documentario o fiction pura?

Preferisco il verosimile, perché mi interessa l'umanità, non tanto la surrealtà, per quanto anche quella può essere una metafora del reale. In tal senso, Non credo al confine netto tra fiction e documentario.

C'è un film che avresti voluto girare tu?

Ce ne sono tanti, per esempio “Nostra signora dei turchi”, ma è irripetibile e impossibile da citare. Io credo che i film bisogna farseli da soli e per fortuna ci sono tante persone che fanno dei film meravigliosi.

venerdì 22 ottobre 2010

Il libro del giorno: L'ardore di Roberto Calasso (Adelphi)














Qualcosa di immensamente remoto dal­l’oggi apparve più di tremila anni fa nel­l’India del Nord: il Veda, un «sapere» che comprendeva in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell’universo. Distanza che si avverte nel modo di vivere o­gni gesto, ogni parola, ogni im­presa. Gli uomini vedici prestavano un’attenzione adamantina alla mente che li reggeva, mai disgiungibile da quell’«ardore» da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. L’at­timo acquistava senso in rapporto a un invisibile traboc­cante di presenze divine. Fu un esperi­mento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia del suo passaggio nella «terra dove vaga in libertà l’antilope nera» (così veniva definito il luogo della legge). Eppure quel pensiero – groviglio com­posto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche – ha l’indubita­bile capacità di illuminare con luce radente, diversa da ogni altra, gli eventi elementari che appartengono all’esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di es­sere coscienti. Così collidendo con molte di quelle che vengono ormai considerate ferme acquisizioni. Que­sto libro raccon­ta come attraverso i «cento cammini» a cui allude il titolo di un’o­pe­ra smisurata e capitale del Veda, lo Śatapatha Brāh­maņa, si può raggiungere ciò che sta davanti ai nostri occhi passando attra­verso ciò che da noi è più lontano.

UOMINI CHE ODIANO LA BINDI. Intervento di Elisabetta Liguori










Se fosse un romanzo sarebbe un thriller, uno di quelli ad alta tensione, invece è la realtà di tutti giorni. Quella di Berlusconi per l’onorevole Rosy Bindi, infatti, è diventata un’autentica ossessione. e, come tale, sta assumendo una trama sempre più complessa e ridondante. Non passa giorno che il Presidente del Consiglio non pensi, non recrimini, non esploda in una qualche esternazione furiosamente buffonesca ai danni di questa donna. Solo lei. Sempre lei. Archetipo e simbolo. Icona e metafora in carne e ossa. È la Bindi fobia che dilaga.
È giusto chiedersi come mai, perché proprio ora, perché proprio lei, quale sia il punto centrale di tutta la faccenda. Bene: quel punto non può che essere la bellezza. C’è una bellezza che conosciamo tutti, che, per quanto la si dica soggettiva, riflette canoni estetici universalmente riconoscibili, e un'altra più misteriosa, meno incline a soggiacere a formule manualistiche di potere. È quest’ultima quella che Berlusconi teme. È la bellezza del tempo.
Il tempo, se non utilizzato in modo sano ed onesto, può essere nemico dei belli e dei forti. Berlusconi è convinto di essere sia bello che forte. Per quanto sia stato proprio il tempo trascorso sotto la luce dei riflettori e quello passato a formular bilanci ad avergli regalato questa convinzione, lui non lo sa. Preferisce non saperlo. Finge di essere sempre stato quello che è, di bastare a se stesso, di non doversi mettere in discussione, di non dover cambiare mai per il suo bene quanto per il bene degli italiani. Ciò che conta per l’audace cavaliere senza tempo non è il passato, né il futuro, ma è il presente. Una gestione costante, immobile e vincente del presente. La signora Bindi, al contrario, nel suo splendore canuto, nelle sue forme libere, dinamicamente opposte all’evoluzione culturale del tempi che viviamo, si allinea al ritmo della natura e non a quello dei forti. Esprime un potere intellettuale, oltre che fisico, pari ma opposto a quello espresso da Berlusconi nella sua immobilità tenace. Un potere che, pur essendo fortissimo, non gioca secondo le regole note ad un certo tipo di uomini. Lei non bara, lei non si adegua, lei non rinnega. Lei semplicemente è quel che è, quello che il tempo e la cultura le consentono di essere.
In spregio a questa forma di resistenza non resta altro che il ridicolo.
Frizzi e lazzi per allietare la corte e rassicurarla che il mondo non è così. Che la Bindi non è di questo mondo. Che non esiste e se ne può ridere tutti insieme, allegramente.
In altre parole la Bindi fobia è simile alla paura degli alieni. La paura dei corpi capaci di portare con sé significati incontrollabili. Possiamo dirlo: Berlusconi teme l’invasione degli ufo e così ne nega l’evidenza. Quante barzellette esistono sugli alieni? le antennine, l’occhio al centro della fronte, le dita verdi? Lui sente di doverle usare tutte e di doverlo fare ora. Prima che sia troppo tardi. È la solita reazione dell’uomo allo stupore, all’ignoranza, al buio. Al tempo che passa. Dopo il primo alieno sulla terra, tutto potrebbe davvero essere trasformato, riconosciuto, la natura e la verità potrebbero prendere il sopravvento, una diversa idea di bellezza e tempo potrebbe diffondersi come un virus, lasciando crollare miseramente il castello degli specchi, degli inganni, delle immagini patinate e della carte false, abilmente costruito in anni di risatine e potere. Così ecco svelato il mistero: Berlusconi teme di risvegliarsi un giorno all’interno di una baccello oleoso, come nel noto romanzo di Jack Finney “ L’invasione degli ultracorpi”, per poi ritrovarsi ad essere come la signora Bindi, alieno e vero anche lui, suo malgrado.
fonte iconografica qui

giovedì 21 ottobre 2010

Il libro del giorno: 2012 - Lo Scorrimento della Crosta Terrestre di Charles Hapgood (Profondo Rosso edizioni)

Il recente film americano "2012" di Roland Emmerich ha portato finalmente all'attenzione del grande pubblico questo discusso libro scientifico di Charles Hapgood, nel quale si è formulata per la prima volta la teoria sulla dislocazione delle masse continentali, una catastrofe immane che è già avvenuta nel passato e che potrebbe verificarsi di nuovo nel 2012. Formulata agli inizi degli anni Cinquanta dal professor Charles Hapgood e corroborata dall'approvazione di uno scienziato come Albert Einstein, la teoria dello scorrimento della crosta terrestre ipotizza la possibilità di uno spostamento di tutta la litosfera del nostro pianeta, spessa una cinquantina di chilometri. Ne consegue che più volte, per via di questo fenomeno assolutamente catastrofico e ben peggiore del più grande terremoto, in passato grosse parti degli emisferi terrestri si sono spostate in direzione sud e nord, verso l'equatore, e di lì verso i due Circoli Polari, che così a loro volta hanno cambiato diverse volte di posizione. E' quello che forse potrà accadere anche a noi nel 2012...

Giacomo Rizzo: “Tutti mi dicono che somiglio a Totò” di Angela Leucci









“La banda degli onesti” è diventato un dramma teatrale di straordinario spessore. Questo grazie anche all'adattamento di Mario Scarpetta, figlio d'arte, che ha trasposto il celebre film con Totò in una commedia degli errori interpretata da un magistrale Giacomo Rizzo, che è andata in scena a Maglie durante la kermesse estiva “Chiari di luna”. Rizzo è conosciuto maggiormente per aver interpretato numerosi film del filone comico erotico, dagli anni '60 agli '80: ha lavorato con numerose icone femminili e maschili di quegli anni, da Lilli Carati a Alvaro Vitali.

Meglio il teatro o il cinema?

La cosa più bella che mi è capitata con “La banda degli onesti” è che il pubblico mi è venuto a dire, sotto al muso, che lo spettacolo è piaciuto più del film. Mario Scarpetta ne ha fatto una riduzione mettendo il meglio della pellicola, ma io ho accentrato la storia su questi uomini, avvalendomi della professionalità di una compagnia che ho diretto con molto piacere.

Com'è confrontarsi con un mostro sacro come Totò?

Mi dicono tutti che sembro Totò. Indubbiamente, se non fossi napoletano non potrei somigliargli, certo abbiamo tempi uguali, ma in scena sono io non ci penso a Totò, io sono io. In teatro non funziona come al cinema, perché in teatro faccio quello che dico io, si dice infatti che il cinema è del regista il teatro è dell'attore.

Molti attori di cinema, come Franca Valeri, a un certo punto abbracciano il teatro...

Per il cinema, bisogna avere la faccia. Io ho imparato la tecnica del cinema e credo che se si è misurati si fa anche il teatro. Prendiamo Eduardo, lui era molto esagerato, molto teatrale, e al cinema non ha avuto successo. La mia misura non mi porta lontano dall'immagine davanti alla macchina da presa.

Con quale regista ci sono state maggiori difficoltà?

La difficoltà è nata con Paolo Sorrentino (con cui ha girato "L'amico di famiglia", ndr), che ha un modo di fare il cinema di oggi. Però ha una grande genialità, è uno che conosce anche il lavoro dell'attore, sa come farlo muovere e ha la fortuna di avere talento.

Quale ruolo avrebbe voluto portare sul grande schermo?

Sono dispiaciuto di non aver fatto il protagonista in una commedia all'italiana, soprattutto senza fare questa cosa brutta che è il caratterista, che poi è un termine brutto che hanno inventato gli italiani. Il termine non mi appartiene. Sono un attore che fa tanti ruoli, se poi per caratterista si intende uno brutto con la faccia che si ricorda... In Italia il caratterista non può essere protagonista, ma ci dimentichiamo che attori come Totò, Peppino e Eduardo erano caratteristi.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il libro del giorno: Izutsu Toshihiko, Sufismo e taoismo (Mimesis)

“L’intero processo della creazione forma dunque un immenso cerchio ontologico in cui non è dato in realtà un punto iniziale e finale. Il movimento da uno stadio a un altro, considerato in sé, è certamente fenomeno temporale ma l’intero cerchio, non avendo appunto né inizio né fine, costituisce un fenomeno trans-temporale (o atemporale): è, in altre parole, un processo metafisico. Ogni cosa è attuale in un eterno presente”. Toshihiko Izutsu
La prima traduzione italiana di Toshihiko Izutsu, un’indiscussa autorità negli studi filosofici metafisici delle scuole di Sufismo Islamico. Tradotto in circa trenta lingue, Toshihiko Izutsu ha illuminato il mondo con la sua innovativa teoria dell’armonia tra i popoli. Un approccio meta- filosofico basato sul confronto tra culture a partire dalla consapevolezza che i valori fondanti propri di una religione possono essere ritrovati anche nelle altre. Sufismo e Taoismo straordinariamente a confronto: la forma mystica tipica dell’Islam e quella della Cina del II secolo a.C. unite in un’unica appassionante opera. Un testo per accostarsi alla conoscenza di due grandi tradizioni, nella sicurezza di una grande guida spirituale e scientifica.
Una ricerca seria e ricca di una profonda spiritualità.
Toshihiko Izutsu è stato professore emerito presso l’Università di Keio del Giappone. I suoi libri sono stati tradotti in più di trenta lingue. Tra le sue opere ricordiamo La filosofia del Buddhismo zen (1984).
Alberto De Luca è nato a Trieste nel 1974. Laureatosi in Scienze Politiche ad indirizzo Internazionale presso l’Università di Trieste, vive ora ad Aurisina.

Bella pugnalata, di Alessandra Saugo (Effigie). Intervento di Nunzio Festa















Devastazione in forma di racconto. “Bella pugnalata”, dell'esordiente Alessandra Saugo, è un romanzo spezzato, fatto a pezzi, sono pezzi, spezzettati, fatti a romanzo, esaltati. Senza retorica. Compreso il linguaggio necessariamente retorico. Una devastazione in forma di racconto lungo, è “Bella pugnalata”; che rompe gli schemi per stare in uno schema di narrazione che non ha assolutamente schemi. Racconto stesso a parte. Trame 'sentimentali' a parte. Il sesso, anche in questo libro, è importante. La sua trattazione arriva in sentire serio, in quanto è sorretto da un femminismo tutt'altro che di facciata. Sentito. Vissuto. E quindi fattoci rivivere. Per quello che è possibile. Sostenibili. Prendibile, pure. La lettura di questo romanzo, da consiglio di Antonio Moresco, che assolutamente non ha sbagliato, ha permesso di arrivare a una serie di conclusioni. Al di là della vicinanza col più datato “La merca” della Daino, questo romanzo ci fa – per la prima volta – guardare davvero in faccia a quello che una certa tradizione familistica-matriarcale vuole per la donna, alla femmina. Per arrivare, giustamente, a un nuovo flagello superbo dove si rivede posizionato il corpo sulla pagina. Il testo è diviso in due pezzi portanti: “brodo” e “romanzetto rosa”. A loro volta suddivisi in più paragrafi. Nel “brodo”, davvero passato al passatutto delle proprietà vegetali dei vegetali reali, le nonne morte (quelle appunto del matriarcato) indicano una direzione da seguire e non seguire. Con l'aggiunta dell'irruenza d'una non partecipazione alla vivida stanza festiva comune, annunciata costantemente dalla lingua che la Saugo sublima in ogni riga del suo prorompente scrivere. Una affezione ai vocaboli per niente stucchevole. Anzi propositrice di soluzioni straordinariamente originali. E' questo è uno dei risultati del linguaggio, per dire. Ma l'amore di questo “brodo”, poi, entra nel minestrone, rosato, d'una seconda parte, per la verità meno importante e, forse, significativa, incentrata prevalentemente su un incontro. Quest'esordio, soprattutto, torna a far pensare all'essere al non essere, starci e non starci, in alcuni luoghi – la provincia su tutto. E in più situazioni. Il romanticismo che fortifica alcuni lineamenti del romanzo, infine, fatto come ha detto lo stesso Moresco, di più elementi apparentemente contrastanti fra loro, aggiunge quel sale malato che è la consistenza intemperante di certi giorni nostri. Il lirismo verso il quale va in cerca in certi punti l'autrice, è il punto finale e iniziale.

martedì 19 ottobre 2010

Il libro del giorno: Un mondo di coincidenze di Ennio Peres (Ponte alle Grazie)




















Miracoli, oroscopi, superstizioni, numerologia, profezie... quanto c’è di vero in tutte queste manifestazioni più o meno «occulte»? Perché vi ricorriamo così spesso quando non riusciamo a chiarire un fatto apparentemente inspiegabile? Il più delle volte, non c’è motivo di cercare una spiegazione... semplicemente perché non c’è! Anziché scomodare poteri occulti, influssi astrali od oracoli quantomeno nebulosi, è sufficiente ammettere l’esistenza del caso e che, laddove crediamo di intuire un messaggio nascosto, si tratta solo di una coincidenza (o di un’abile manipolazione dell’imbroglione di turno).
Ennio Peres, con lo spirito arguto dell’enigmista – e ancor più del matematico – non si limita a sfatare leggende metropolitane, superstizioni e plateali fandonie, ma riconduce gli «scherzi del caso» a un gioco raffinato e stimolante: nelle loro infinite combinazioni, lettere, numeri e parole non sono solo un’ottima palestra per riconoscere e quindi difendersi dai capricci del caso, ma anche un’occasione insostituibile di divertimento e, perché no, di arricchimento intellettuale.

Lezioni di arabo di Rossana Campo (Feltrinelli). Intervento di Elisabetta Liguori



















Rossana Campo conosce le donne e le donne conoscono Rossana Campo. In tante hanno compiuto le prime esperienze e acceso le prime emozioni leggendo questa scrittrice genovese, ora divisa tra Roma e Parigi. La Campo, infatti, con “Lezioni di arabo” edito da Feltrinelli, è oggi al suo decimo romanzo, ma la sua fabbrica di personaggi è ancora in piena attività. A pensarci bene esistono due tipi di narratori. Quelli che costruiscono storie, intese come intreccio, concatenarsi logico di eventi, e quelli che costruiscono persone, modi di essere, intere popolazioni e mondi di riferimento. La Campo rientra nella seconda categoria: plasma i suoi personaggi, lasciandoli muovere liberamente all’interno di un universo artificiale del tutto autosufficiente, minuziosamente ricostruito in ogni suo dettaglio e dal suono sorprendentemente familiare e vivo. Chi sono questi personaggi solitamente? Uomini e donne, vivacissimi ma marginali, antieroi, vinti, sfigati, stralunate sagome cariche di umanità e stupore. La lingua utilizzata per raccontarli da sempre mira ad elidere la distanza tra lo scritto e il parlato. È’ quella rumorosa e cromaticamente varia del quotidiano. Riuscitissima sia dal punto di vista lessicale, che fonico. Parigi, luogo e personaggio anche essa, è molto spesso parte di questo mondo frizzante. Probabilmente perché la più multietnica delle città europee, di certo perché tra le più magiche. Nel suo ultimo lavoro, la protagonista è Betti che, divorziata da sette mesi, fa la cameriera nella capitale francese e lavora in una rosticceria araba. Lì conosce Suleiman, giovane algerino, malinconico e depresso, e da lui cerca di apprendere nuova lingua e nuovi costumi, per confrontarli ai suoi. E da quelli magari rinascere. In realtà è Betti la donna dalla quale apprendere. La sua formazione si è già compiuta, in un passato che compare a tratti nella narrazione. Un passato violento e cupo, che l’ha rapidamente avvicinata ai misteri del sesso e resa incredibilmente permeabile alle variabili più crude della vita. Nonostante Betty sia un personaggio corrotto, infatti, la sua innocenza è più forte di tutto. La sua curiosità viaggia su luoghi e persone, sfiora e trasforma quasi magicamente. Come una novella Amèlie - quella de Il favoloso mondo di Amélie, film di qualche anno fa, splendidamente scritto e diretto da Jenuet ed interpretato da Audrey Tautou -, Betty riesce a vivere la sua magra esistenza, restandone una spanna sopra, trasformandosi così in una surreale icona dell’essere donna oggi. Tutto ciò che le è intorno, vivo e pulsante – sesso, amore, dolore e grammatica – diventa per lei strumento di conoscenza. In qualche maniera sarà, dunque, lei ad insegnare a vivere all’attonito Suleiman. A suo modo. E del resto il gioco dell’apprendimento, la fatica del reciproco conoscersi, dell’adattarsi all’altro, oggi dovrebbe essere sentito da tutti come bisogno crescente e primario. Nel romanzo Suleiman lamenta proprio questo: dopo l’11 settembre il vaso di Pandora sembra essersi aperto e aver rovesciato sugli uomini tutti mali del mondo arabo. Solo i mali però, in un’immagine statica oltre che sintetica, frutto di una estrema e comoda pigrizia. “La verità è che l’alfabeto arabo ha migliaia, milioni di lettere” urla Suleiman in una delle sue lezioni, un infinito numero di variabili che lo rendono molto più complesso di quello che si vuole credere. Bisognerebbe, dunque, rinascere da qui, provare a considerare queste variabili, pesarne la diversità, analizzarne il molteplice liberi da ogni condizionamento, per capire davvero: questo è l’invito che il mondo della Campo sembra voler fare al lettore

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