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martedì 4 maggio 2010

Angeli a pezzi di Dan Fante (Marcos y Marcos). Intervento di Vito Antonio Conte




















Torno a dire di libri, dopo un po' d'assenza. Ho avuto altro da fare che scrivere recensioni. Intanto, tra tutto quell'altro, solita refrattarietà compresa, ho letto qualche libro. Quello di cui voglio parlare ora è “Angeli a pezzi” di Dan Fante (Marcos y Marcos edizioni, Collana MiniMarcos, pagine 271, € 10,00), letto per curiosità, stante la circostanza che l'Autore è figlio dell'immenso John Fante, del quale ho divorato quasi tutto quel che ha pubblicato in Italia. Del quale già (poco...) ho scritto. Incontrare figli di padri (o di madri) “importanti” nel mondo dell'arte (in generale, e della letteratura in particolare), traverso l'attività nella quale si cimentano e che già era stata del loro genitore, è sempre un fatto che nasconde insidie. È di per sé rischioso voler scrivere se il proprio padre (o la propria madre) scriveva. Se poi il genitore è stato uno dei più grandi del Novecento, la faccenda diventa ancor più complicata. Voglio dire che -sempre, almeno all'inizio- il giudizio dei lettori -quale io sono- (per non parlare dei critici, alla cui categoria mi pregio di non appartenere) deve superare qualche pregiudizio... e altro. E allora non resta che leggere. Nell'aletta della prima di copertina del libro in parola è -tra l'altro- scritto: “Un romanzo più bukowskiano di Bukowschi”. Non scherziamo! Non so chi l'abbia scritto, ma -per quel che ho letto- mi sembra un'emerita stronzata. Poi, sull'altra aletta (della quarta di copertina) leggo: “I suoi romanzi sono ballate di amore e di morte, come lo erano quelli di Bukowschi e come lo sono stati quelli di suo padre”. Il giudizio è di Fernanda Pivano (tratto dal Corriere della Sera). Ora, con tutto il rispetto e la stima per Fernanda Pivano e per quanto di meritorio ha fatto per la divulgazione della letteratura (soprattutto per gli scrittori della Beat Generation...) in Italia e con la personale diffidenza di cui sopra, il paragone mi sembra davvero esagerato. E quel che dico vale evidentemente per quella minima conoscenza che ho di Dan Fante, limitata alla lettura -appunto- di “Angeli a pezzi”. Un romanzo pulp, all'apparenza molto autobiografico, scritto in prima persona, il cui incipit pretenzioso (“Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose”) appare essere mera trovata letteraria in quanto il seguito della narrazione non mantiene la promessa iniziale. Quanto meno, non la rispetta sino in fondo. Le vicende del libro sono note per chi conosce la vita di John Fante e, in particolare, i suoi ultimi anni e sa cosa restava (fisicamente) di lui. Ridotto pressoché a un tronco umano, ormai cieco, alle prese con cure di nessun effetto e con la nolontà di morire, nonostante tutto. Anche i suoi rapporti con la moglie e con i figli (compreso Dan) sono noti. La “novità” che questo libro dà è la versione di Dan Fante del suo rapporto col padre. Non mi è piaciuto per niente il dare nomi diversi da quelli reali ai personaggi realmente esistiti, riconoscibilissimi nel libro e proprio per questo m'è sembrata veramente ultronea tale scelta. Ma trattasi di romanzo e tant'è. M'è piaciuta di più la narrazione e il linguaggio utilizzato dall'Autore: la prima semplice e efficace, che rende scorrevole il romanzo, intrigando il lettore; il secondo molto concreto, decisamente vicino all'oralità del racconto che consente di vivere le scene evocate dalle parole come fosse un film, senza per questo intendendo dire che la scrittura è vicina alla forma della sceneggiatura. Tali caratteristiche sono quelle che più avvicinano la scrittura di Dan Fante a quella dei su citati John Fante e Charles Bukowski, senza però contenerne la forza, la poesia, l'immediatezza, la potenza, l'aspetto eversivo che -nella letteratura- hanno avuto (soltanto per citare un paio di titoli) “Chiedi alla polvere” di John e “L'amore è un cane che viene dall'inferno” di Hanks. Lo stile è quello, ma proprio per questo la scrittura di Dan Fante sembra più quella di un epigono che quella di uno scrittore che smuove qualcosa nel dejà vu del genere. “Sapevo che se non bevevo, avrei potuto scrivere di nuovo.”, dice Dan Fante nellultima pagina del romanzo, dopo aver creato qualcosa di buono. Ma, come per quasi tutte le cose, la risposta la darà il Tempo. Per quel che potrò, mi terrò informato. Sperando che oltre a scrivere di nuovo, Dan Fante scriva anche qualcosa di nuovo.


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