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sabato 23 gennaio 2010

"Olive Kitterdge”, di Elizabeth Strout (Fazi Editore). Intervento di Vito Antonio Conte

Nella seconda pagina del primo racconto di questa raccolta, che tale esattamente non è (vi dirò poi perché), c'è un tratto dell'indole di uno dei personaggi (che ho amato molto: sia il tratto che il personaggio: Henry Kitteridge) racchiuso in una sola frase: “Ascoltare faceva parte della natura di Henry...”. Si tratta di una nota caratteriale che, indubbiamente, appartiene anche a chi questo splendido libro ha partorito e che permea ogni parola della sua bellissima scrittura. Non è una raccolta di racconti perché -anche se il libro è scandito da tredici spaccati d'esistenza in altrettanti capitoli- ogni singola parte è collegata alle altre, sì che le vite dei personaggi risultano, pur nella loro autonomia, fitte d'intrecci e, comunque, legate tra loro da un filo, neppure tanto sottile, ch'è nei loro rapporti più o meno prossimi con la famiglia Kitteridge e, in particolare, con Olive Kitteridge (moglie di Henry). Il libro è, appunto, “Olive Kitterdge”, di Elizabeth Strout (Fazi Editore, Collana “Le strade”, pagine 383, € 18,50). Questo (cioè quel che avete letto fin qui) ho scritto il 17.1.2010, di mattina, dopo aver finito di leggere “Olive Kitteridge”. Da quella domenica mattina, ne sono accadute di cose. Altri libri. Altra vita. Vita. E libri. Della vita sto ancora scrivendo. Dei libri (“Questa è l'acqua”, di David Foster Wallace, e “Le perfezioni provvisorie”, di Gianrico Carofiglio), intanto letti, sciverò un'altra volta. Forse. Così, per dirvi della vita. Adesso ho acceso un incenso (Satya, Sweet Amber), per confondere la puzza di fumo dell'ennesima marlboro. E... respiro entrambi. Bevo il secondo bicchiere dell'ottima fantasia di rhum e lascio che il CD di Glenn Miller (In The Mood) avvolga con le sue note questa scrittura. Per dire che “Olive Kitteridge” è un gran bel libro, un romanzo per il quale la definizione di capolavoro non è specata. Ché di capolavoro si può parlare, riferendosi a un libro, quando la storia in questione riguarda qualcosa di assolutamente anonimo e sconosciuto ai più e -traverso la narrazione- diventa universale e -traverso quella narrazione- diviene unica e -traverso proprio le parole di quella (e di nessun'altra) narrazione- è resa immortale. Diventa universale perché strappata all'angolo recondito della geografia e della storia cui apparteneva e, resa nota, giunge a chi vuol conoscerla e chi la conosce ne rinviene respiri che appartengono a ognuno, senza distinzione di tempo e latitudini. Diviene unica perché l'unicità assume rilevanza soltanto se e in quanto inserita in contesti altri e in altri contesti. Immortale perché irripetibile. Tutto questo ha fatto Elizabeth Strout dando alla luce questo libro di meraviglia. Crosby, nella scrittura della Strout, non è più soltanto un paese perduto nel Maine, nel Nord America, che guarda sull'Oceano Atlantico, dove pescatori e altra varia umanità consumano giorni d'esistenza senza apparenti momenti degni d'essere fermati e/o ricordati. Elizabeth Strout, affidando la narrazione alla terza persona, mettendo “Olive Kitteridge” ai margini di ogni storia, fa diventare tutte le microstorie centro del romanzo, sì che Olive e il suo essere nel tempo, il suo divenire nel tempo, il suo macerarsi nel tempo, assumono i contorni dell'eterno ripetersi di ogni umana avventura e disavventura. Ripeto: in maniera non clonabile. Ché questo, in fine, è ciò che importa di ogni vita, di là d'ogni elemento di reiterazione naturale e non. Naturalmente necessario e non. Imposto e non. Ovunque. Sempre. Comunque. Quel che davvero conta, oltre tutto (oltre tutto, oltre tutto), è proprio quella indicibile singolarità che ogni vita contiene. Che ogni individuo contiene. Che ciascuno contiene. E, a questo punto, potrei (e dovrei!) aggiungere qualcosa (e/o più di qualcosa...) intorno al relazionarsi, all'essere sociale, al gruppo e altre cazzate più o meno interessanti, ma sorvolo ex abrupto, ché i pezzi che prendono una pagina intera dei quotidiani (salvo rare eccezioni) non mi sono mai piaciuti. Ergo, mai propinare agli altri quel che non piace a te stesso. Ogni riferimento biblico è del tutto casuale. C'è che tutto l'indicibile (di cui ho fatto parola qualche rigo su) è stato detto dalla Strout in questo libro. E, raramente (per mio difetto, all'evidenza), ho trovato in un romanzo quell'indicibile detto così bene. Tanto bene che non so dire. O, forse, non voglio. O, per il vero, credo sia sufficiente quanto ho scritto per invogliarvi a leggere questo romanzo di cui si sentirà ancora parlare a lungo. Non perché questo sia il mio fine. Non perché questo libro necessiti delle mie parole. Ma perché mi andava di condividere qualcosa. Come sempre, quando scrivo.

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