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martedì 22 dicembre 2009

STORIA DI GIUSEPPE, DAGONET E TANTI ALTRI AL MONDO. Di Silla Hicks















A volte la nebbia è così spessa che proprio devi fermarti e aspettare ore che non passano, incolonnate come tir sull’Adriatica mentre fa giorno.
E non puoi nemmeno bere che se ti beccano all’alcolemico addio patente, così parlare e mangiare e fumare è tutto quello che riempie il vuoto: chi può telefona o dorme, sì, ma siamo tanti a non avere nessuno da chiamare o rivedere chiudendo gli occhi, tanti a restare lì, immobili, sulle sedie di plastica fuori da un autogrill mentre il grigio ci si condensa addosso. Nel fumo di MS fissiamo il vuoto umido che ci avvolge, potrebbe esserci qualsiasi cosa, ovunque, oltre i pochi centimetri che possiamo scandagliare. Alberi, case, persone, che lavorano e vivono e fanno l’amore, strade che portano a casa, ammesso se ne abbia una. Qualcuno tenta di indovinare, altri non sono così fortunati da aver voglia di provarci e s’azzuffano, litigano per cazzate, bestie che finalmente hanno il tempo per rendersene conto, per pensare.
Io li guardo, ci guardo, e finalmente capisco di avere un posto nel mondo, non importa se scomodo e umido e freddo, è il mio posto, questo, e io sono uno di loro, uno di questi articolati forzatamente fermi cui nessuno fa caso, tappezzeria delle autostrade, lavori in pelle, direbbe Ridley Scott, che come tutti hanno le stesse domande e la stessa mancanza di risposte, anche se non dovrebbero, anche se a nessuno importa. Mentre tiro fuori il termos dallo zaino lo sento, più che vederlo, sbattere il portello del suo Scania bianco e sedermi vicino senza dire niente, l’offerta di una sigaretta come saluto mentre si passa la mano sul cranio rasato, non credo ricordi di non avere i capelli. Porta occhi più azzurri dei miei, del celeste assoluto che è sopra di noi oltre la caligine densa che non ci lascia vederlo e una cicatrice dal sopracciglio al labbro che gli attraversa la faccia arrossata come il trucco pesante di un mimo: è lo sfregio del sergente Barnes che gli dà l’aria triste di un gigantesco Pierrot. Perché è alto, alto quasi quanto me e forse venti chili più pesante, un colosso, sì, ma anche un origami nelle parole che gli gocciolano lungo il solco slabbrato che dovrebbe indurirlo e invece l’addolcisce dell’imperfezione umana mentre cerca il coraggio per dirle: non so perché a me, ci conosciamo appena. Di lui so il nome, il CB e poco altro, so che malgrado l’aspetto vichingo è italiano e meridionale, e abita a Taranto: me l’ha detto, una volta, ma è stato prima che ritrovassi la capacità di ascoltare, che tornassi me anche senza esserlo, dio, mi hai bruciato l’anima, solo da qualche mese ho ricominciato a sentire almeno dolore. Ma lui non può saperlo, lui crede che io rammenti, e mentre penso solo che somiglia al personaggio di uno dei miei film ma non so bene quale, è convinto che io sappia già che l’ha conosciuta quest’estate, che ricordi tutto quanto mi ha detto di lei mentre solo adesso scopro che ha vent’anni meno e il codino, che lavora all’Esselunga e porta vestiti leggeri anche d’inverno. Particolari così minuziosi che posso quasi vederla, questa ragazzina che descrive dipingendola e pretende io riconosca, perché non può credere ci sia qualcuno immune dal demone che lo possiede come tuttora io non mi rassegno a che tutto esista anche senza noi. Vorrei dirglielo: non mi merito questo regalo, non mi merito il tuo cuore e il tuo sangue, davvero non so quasi chi sei, davvero non ricordo, non so niente, nemmeno ti stavo a sentire. Vorrei dirglielo, ma all’ultimo momento capisco, sarebbe ancora peggio voltargli le spalle adesso, nella nebbia, mentre il racconto gli si affolla sulle labbra spaccate dal freddo e forse dalla febbre, col brusco cambio di temperatura quasi tutti noi andiamo avanti a nimesulide e lui ha i brividi sotto la giacca a vento di nylon giallo con la zip tirata fino al mento: non s’è mai accorto che non lo ascoltavo, fuori dalla mia consapevolezza non gli ho mai fatto veramente male, ma potrei fargliene adesso, e non volevo e non voglio. Perché davvero quasi non lo conosco, ma vorrei abbracciarlo, quest’omaccione di cinquantatre anni e due metri che s’accartoccia sulla sedia di plastica, qui, davanti a me, ai piedi della sua Cristina che fa la ragioniera e doveva essere un’avventura e invece gli ha mangiato via il cervello e la vita, questa ragazza che è un fuscello ma gli si è abbattuta addosso come una sequoia, imprigionandolo tra il proprio corpo e i cocci di tutto il resto. Ha moglie e due figli grandi, il camion è suo, si è comprato casa e aveva una vita, fino a ieri. Qualche storiella in giro, sì, perché gli piacciono le donne e lui piace a loro, così granitico e immenso e con quella faccia e con quel sorriso e con quel modo sfacciato di spogliarle coi suoi occhi così azzurri: ma sempre niente di che, in piedi contro un muro e poi tornare da Adele e i suoi strilli nel cellulare, ma dove sei, stai dormendo, si sono messi insieme adolescenti e certo l’amore è un’altra cosa, ma cazzo, c’è una vita intera di mezzo e i ragazzi, che hanno studiato e saranno qualcuno, nella patente la foto della figlia, che è anche lei bionda, ed è bellissima e torna solo a Natale, Manuela che fa l’architetto, e sì, mi ricordo, almeno di lei. Ma poi c’è stata Cristina, Cristina cui ha dato un passaggio a casa un giorno che i treni erano in sciopero e lei aveva la macchina rotta, un passaggio dopo qualche settimana di schermaglie, che doveva essere un episodio e invece ha cambiato tutto il film. Sliding life, come porte che scorrono e tutto cambia se sali o no sul quel vagone, sul sedile dello Scania sono passati dallo scherzo più o meno allusivo ai fatti concludenti, o meglio è stata lei a passarci, mentre lui continuava a guidare. E quaranta chilometri scarsi d’autostrada sono stati due ore e mai era stato così, senza nemmeno fermarsi, la sua bocca e le sue mani dappertutto, che proprio – testuale – avrebbe voluto ricambiare, ma lei gli ha detto no, non sono cose che si ricambiano, e: sono collaudato a centotrenta, conclude, fiero e insieme quasi ancora incapace di crederci lui stesso, d’altronde: sai, anche lei mi ha detto che se l’avessi raccontato in giro non mi avrebbe creduto nessuno. Ma no, io invece lo credo, ti credo, Giuseppe, e poiché ti credo so anche che non è stato quello, non è stato per un pompino che sei ridotto così, che di certo te ne avranno fatti tanti altri, e anche migliori di quello che può averti fatto mentre guidavi una ragazza con le labbra sottili da cui avevi strappato via il gloss a morsi, che invece ti è parso l’unico della tua vita perché quelle erano le sue labbra, e quella era lei. È così che funziona, con l’amore, ed ho già capito tutto ma non voglio interromperlo mentre si affanna a cercare le parole per spiegare com’è stato: parole accurate, delizioso, sopra tutte, parole che non ti aspetteresti e invece ci sono, perché ha la terza media, forse, ma ha letto La Storia della Morante un mare di volte, e anche L’isola di Arturo, perché è un camionista ma anche un uomo, e per quello non servono le scuole ma solo occhi per guardarsi attorno, e i coglioni per tenerli aperti, anche, vabbè, ma questa è un’altra storia. Ed era il trenta di ottobre, ed era sabato, e il lunedì mattina è andato a prenderla per portarla al lavoro e vaffanculo c’era anche Paolo che doveva aiutarlo a scaricare e per tutta la strada le ha guardato le gambe e si è sentito esplodere senza poterla sfiorare: mi dice della sua pelle sotto le calze che gli si incollava al cervello, si era messa la gonna apposta per smarrirlo e ci era riuscita bene. E quando è scesa e Paolo ha detto che era un gran gnocca, allora l’avrebbe ammazzato, davvero, voleva mettergli le mani al viso, che cazzo, come si permetteva, era roba sua. Me lo dice così, e senza accorgersene finalmente ammette che già non poteva essere una scopata e basta, e che se anche lei non avesse compiuto gli anni dopo qualche giorno e non le avesse regalato una notte intera qualcosa dentro il suo meccanismo di chilometri da e fino a casa s’era inceppato senza rimedio, nel momento esatto in cui le aveva sfiorato la faccia con le dita dentro alla cabina, cinque minuti dopo che era salita, prima ancora di baciarla e tutto il resto. Ma comunque sia, poi c’era stata la sera del quattro novembre che s’erano visti alla fine del suo turno nel piazzale dell’Esselunga, e mentre l’aspettava già sentiva le sue mani sulla pelle sotto la maglietta e la camicia, leggere, dolcissime: sono proprio queste le parole che usa, che scivolano giù dall’azzurro dei suoi occhi lungo la sua cicatrice fino alle sue labbra, e mai te la immagineresti nella sua voce roca e coerente con tutto quanto in lui una tenerezza così fonda mentre le dice, ha la forza di scaricare un rimorchio intero senza transpallet e l’ho visto farlo, ma l’amore l’ha spezzato, come fa con tutti gli altri. Lui non lo chiama, non gli dà un nome, ma in questa nebbia è evidente, che si è perso, ed ha paura, così tanto da non riuscire più a pensare né a salvarsi, e no, non gli servirebbe una doccia fredda, anche se è questo che le ripete quando l’incontra, il fatto è che paradossalmente è solo con quel corpicino addosso che si sente al sicuro. Così immenso, con quelle spalle e quelle braccia, sta tutto nella mano di una ragazzina, rannicchiato tra le sue dita, perché è questa l’illogicità dell’amore: con il suo tocco lieve lei l’ha fatto a pezzi, non gli arriva nemmeno al petto ma può schiacciarlo, voltandosi appena. Lei non gli chiede né gli ha chiesto niente, ma è lui a chiedere e volere, il suo tempo e i suoi pensieri e naturalmente la sua pelle, è successo tutto da solo, e forse è così che doveva andare, mi dice, Cristina non è come nessuna delle altre. Vorrei chiedergli perché, certo deve avere le palle una che non fa niente per non nascondersi il cuore, che ti guarda dritto e ti dice mi piaci, ho pensato tante volte a come poteva essere fare l’amore con te, volevo baciarti e via dicendo, ma non basta questo, dev’esserci di più per forza, non può bastare fartelo venire duro per farti perdere il senno, tanto più se la prima cosa t’è capitata spesso e la seconda mai. Ancora meglio se quando ne hai avuto la possibilità per la prima volta non sei nemmeno riuscito ad averla da tanto che la volevi: e lui racconta che la notte del suo compleanno ha passato gran parte del tempo a tenerla soltanto abbracciata, coperto di sudore freddo, disteso sul suo letto standard in cui non entrava, assolutamente felice di tenerla rannicchiata addosso: quando sono stanco capita, ha cercato di scusarsi, dopo i cinquant’anni non è come a venti, ma lei ha continuato ad accarezzarlo, e gli autotreni possono anche essere fragili, ha sussurrato, perché la cinquecento ha la doppietta e come guidi la guidi lo stesso, un autoarticolato va trattato con cura. Vorrei chiedergli se è stato questo a dare un senso diverso a tutto, ma non me ne lascia il tempo, e forse non gli importa nemmeno, parla di lei perché ne è intriso e questo basta: come e perché sia successo adesso non ha senso chiederselo, ed è comunque tardi. E forse lo è stato sempre, ha ragione lui, le cose succedono da sole, anche se no, ha torto, non è perché siamo grandi e consenzienti né perché – testuale – siamo due persone che si stimano, si vogliono bene e si piacciono molto, perché fosse così resterebbe posto, per Adele, e casa, e tutto il resto. Invece Cristina non ha lasciato posto a niente, l’ha travolto davvero come un tir e se l’è portato via, ridotto a carne maciullata e indifesa e sanguinante, e se lei ha mani delicate e lui morse attaccate ai polsi è solo un dettaglio, incongruo, sì, ma niente è mai come sembra, e io dovrei saperlo, in fondo, io che aspetto ancora che torni anche se sono passati quasi tre anni e lo so, che non tornerai. Io che ascolto quest’uomo, qui e adesso, fuori dalla stazione di servizio Chienti che è un’ora da Fano e a trenta minuti da Ancona Nord, quest’uomo che svuota la sua anima su questo tavolino di plastica come uno zaino in cui cerca le chiavi che non riesce a trovare, come se esistessero chiavi, come se esistesse via d’uscita, come se ci fosse modo di tornare a casa quando ci si è persi nella nebbia e sta diventando tutto freddo e buio. Apro il mio termos e gli verso del caffè, mentre lui si passa una mano sulla testa, di nuovo, ma adesso so che non è perché crede di avere ancora i capelli: cerca le tracce delle sue dita, invece.
Adesso la vedo, Cristina, che lo accarezza nella cabina dello Scania, i polpastrelli che s’infilano nel colletto della camicia per avvelenarlo, come serpenti: è esile quanto lui è mastodontico, può stringerla tutta con un braccio solo, e mentre lo fa capisce cosa vuol dire, essere dio. E c’è la strada, che mai è stata così sua come adesso, vorrebbe portarla in un altro mondo ed avere un’altra vita, e vaffanculo a tutto, vaffanculo, cazzo, gli anni gli cadono dalle spalle e la cicatrice si rimargina, non c’è più niente, solo lei: è tutto chiaro, da questa parte della storia, nel fumo di una MS vorrei dirglielo, dirgli che l’amore l’ha infettato, e per questo continua a rabbrividire e senza di lei non c’è cura: ha deciso di essere forte e non chiamarla ma poi squilla il suo telefono, e attraverso il Nokia ne sento la voce, appena percettibile, solo un soffio, come stai. E persino il suo nome comune in quella voce è caldo e liquido, un mare d’estate in cui si ha solo voglia di nuotare lontano, acqua scaldata dal sole, il blu sotto gli scogli che ti porta al largo prima che tu possa accorgertene: sì, ha ragione, è dolcissima, e lieve, persino la sua voce è irresistibile carezza: mi piace immensamente, mi ha detto, e ora quasi so anch’io che voleva dire. E mentre lo guardo parlarle, finalmente ricordo anche in che film l’ho visto, King Arthur di Hans Zimmer, certo: è identico al legionario Dagonet, invecchiato, ma con la stessa faccia di pietra e gli stessi muscoli fibrosi di cavallo da tiro e lo stesso incosciente coraggio di correre sotto una pioggia di frecce per aprire una crepa sul lago gelato a colpi di scure: cazzo, non ho mai capito perché non scegliesse lui, Ginevra, piuttosto che l’arciere Lancillotto o il tormentato Artù indeciso tra Celti e Romani, Dagonet che muore come Polinice, mentre il ghiaccio s’incrina e il lago inghiotte i Sassoni. Non è questo che spero gli capiti, ma certo è possibile, l’amore raramente lascia qualche via di scampo, e non c’è retroguardia che possa coprirti, quando decide di venirti a cercare: ci sei solo tu, senza difese sotto un nugolo di frecce nemiche, dardi che ti strappano via la carne a morsi. Difficilmente si resta vivi e anche quando succede si portano cicatrici molto più dolorose di quella che gli attraversa il viso dall’infanzia, piaghe infette che a tradimento marciscono di cancrena. Vorrei dirglielo, ma è la verità e avvertirlo non servirebbe, adesso l’unica cosa cui può credere è la sua illusione. La sua illusione, e questa sirena con la coda di cavallo che porta mollette viola tra i capelli, che ha oscurato tutto con la sua ombra sottile e se lo porta dietro, nella mano. Cristina che non è come nessuna, perché l’amore ha mille facce, e questa è quella che ha guardato lui. Quando chiude, la nebbia ha cominciato a diradarsi, e qua e là il cielo è un frammento dei suoi occhi, azzurro intenso e terso, di cui c’è solo l’ombra, nei miei. Ci alziamo e gli tendo la mano, ma lui l’afferra e mi abbraccia, un muro di cemento armato che mi appoggia la testa rasata sulla spalla: grazie, mi dice, sorridendo, avevo davvero bisogno di parlare. Mentre riavvio il motore, lo Scania bianco è già uscito dall’aera di servizio, trascinandosi dietro il suo rimorchio e tutto quello che adesso so e non potrò scordare. Vorrei avere la speranza che ora lo scalda, la temperatura si è abbassata ancora. Apro una bustina di nimesulide, me la verso sulla lingua e l’ingoio, col resto del caffè. Senza accorgermene, sorrido. Non è detto che anche per lui sarà la stessa cosa, che finirà nello stesso modo, non è detto che anche i suoi occhi sbiadiranno e che si sveglierà e non riuscirà più a sentire niente, nemmeno dolore. Non lo so, che farà. Non lo so, come e per quanto potrà incastrare il dilagare di Cristina con quello che ha costruito finora, né se tutto finirà per travolgerlo e spazzarlo via, non so quanto dovrà soffrire e lacerarsi: di certo, che scelga lei o no, so che si farà male, e che arriverà il momento in cui sanguinerà e cercherà di tenersi dentro gli intestini con le dita, come Dagonet sulla lastra di ghiaccio che si spacca. Ma potrebbe riuscire a rialzarsi, e ad arrivare dall’altra parte, sulla riva. Ancora vivo. King Arthur, in fondo, è solo un film. Dagonet muore, io non ho avuto altrettanta fortuna, ma può darsi che a lui vada in modo diverso, che riesca a farcela, a stringere l’amore tra le dita, a non lasciarlo cadere e sfracellarsi, e insieme a non farsene fare a pezzi. Ma quando passo davanti all’Esselunga è la pausa pranzo e rallento, per vederla: fuma una sigaretta nel piazzale, una ragazza davvero sottile che non arriva all’uno e settanta, i capelli legati a coda che scendono fino a metà delle spalle. La mia piccolina. Si volta, e per un attimo ne incrocio gli occhi sfumati, porta un giacchetto leggero e i jeans negli stivali made in China e tutta la dolcezza del mondo a scaldarla in quest’aria tagliente – ci sono otto gradi. La mia piccolina. Vorrei raccontarle un’altra storia, ma non sono mai stato capace di inventare, e lo so che non ci può essere nessun lieto fine. Perché non c’è ne è mai, non solamente nei film, e la vostra, hai detto bene, è una storia assurda, Giuseppe, lei vent’anni di meno e tu sei sposato e per quanto tu sia forte non lo sei abbastanza per scardinare il mondo, né per andare oltre lei che ha la luce attorno. No, davvero non lo so che sarà di te, Giuseppe, né di Cristina, ho chiuso gli occhi sul finale, perdonami. La vedo, passarti le dita sulla testa rasata, in piedi è alta poco più di te seduto, ti accarezza la faccia e la stringi forte come per assorbirla nel tuo corpo: se solo potessi tenertela dentro, nascosta così che nessuno possa vederla, questa cosa che è più tua di tutto il resto, perché non devi chiamarmi, lo fai solo se vuoi, ti ha detto, ma poi è stata lei a farlo, come stai, e tutte le tue difese si sono incenerite: no, davvero non lo so, che ne sarà di voi, non lo so e non chiedermelo, non oggi, soltanto lasciami qui qualche minuto ancora, senza pensare, lasciami qui, soltanto a guardarla. In questo freddo in cui lei porta vestiti estivi e scalda l’aria attorno, col respiro.

ogni riferimento a cose, fatti, persone e luoghi è frutto di pura fantasia dell'autore

referenze iconografiche: Elegy for Darkness-The Lady of Shalott". Appearing on the cover of the novel, Banewrecker by Jacqueline Carey (57" x 46" Oil on Paper on Panel). © 2004 Donato Giancola - collection of Scot Tubbs.
http://www.donatoart.com/paintings/elegyd2.jpg

1 commento:

  1. indicibile
    ché quando capita
    non si può dire
    ché come l'hai detta tu
    Silla caro il mio X
    è indicibile
    per questo
    ti abbraccio
    Walles

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