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domenica 8 novembre 2009

Tony Sozzo intervistato da Marco Montanaro

Se cercate qualcuno che lo fa per status – intendo: scrivere romanzi – cliccate altrove. E’ pur vero che ho curato nonricordobene cosa del secondo romanzo di Tony Sozzo, e che lui ha pubblicato due libri con una casa editrice a me molto cara, ma: Tony Sozzo è un autore da leggere. A partire da Facebook – si capirà in seguito perché dico questo – o da quest’intervista. Mi piace il suo spirito. Quello dei suoi personaggi. C’è una battuta nel suo Nolente che ricordo bene e mi fa ancora morire di risate. E il titolo del suo primo romanzo, L’eterna cosa peggiore, ha suscitato in me un’invidia che fatico a smaltire. Avanti.

Partiamo dalla fine. Progetti futuri? So che stai scrivendo un altro romanzo, forse è già pronto. Sarà sullo stesso genere dei due precedenti?

Sì, in un certo senso. Non c’è poi tanto di nuovo sotto il mio sole. Un personaggio che racconta le sue impressioni. Sono un prosatore lirico, se mi passi questa definizione. Ho sempre adorato il concetto di autore, più che quello di narratore. Nel cinema (Moretti, Allen) come negli altri settori artistici. Mi piace essere una personalità che dice sulle cose, che lascia i suoi atteggiamenti ad essiccare davanti ad occhi estranei. I miei futuri romanzi saranno la prosecuzione di quelli passati. È questo il mio bisogno artistico, per il momento. Per questa vita, probabilmente. E se teniamo conto di quello che faccio di solito, nella prossima vita mi reincarnerò in un panda stanco di essere sempre il simbolo degli animali più sfigati. I miei romanzi sono delle poesie un po’ prolisse, scritte con un linguaggio non del tutto elevato che ha bisogno di una serie di opportunità per raggiungere la decenza.

L’eterna cosa peggiore e Nolente, come titoli, spiegano bene la natura dei tuoi personaggi. Io li vedo come isole che usano una ironia stellare per autodifesa.


Sono… penisole. O forse galleggianti. Non direi che la mia ironia serva come difesa, perché dovrei sbarazzarmene, visti i risultati. Credo che in generale serva poco. È un atteggiamento che mi porto dietro. Mi dispero, ma in fondo mi viene da ridere. Poi però mi chiedo cos’ho da ridere. E via così. L’ironia è comunque un grande strumento. È come avere una pistola in giro per la stanza. Se si è in due e l’altro non ti guarda come dovrebbe, meglio cercare di portarla dalla propria parte. Ma alla fine di tutto, anche se ne sei uscito vivo, trovi tutti i negozi chiusi e i treni non partono. Per quanto riguarda il mio grado di tranquillità, di sicuro il mondo che ho intorno non mi rilassa così tanto da farmi buttare sul mio divano preferito ad aspettare un’altra sua carezza. Ma non credo di avere poi tanta più paura di un uomo medio.

C’è molto Woody Allen, per tua stessa ammissione, nelle battute dei tuoi personaggi. Sembrano caratteri immobili, destinati a cucinarsi nella propria incapacità. Immagini mai un’evoluzione diversa per loro?

Credo in un nichilismo inetto privo di slanci. In fondo, al mondo non c’è poi tanto da fare. C’è abbastanza amarezza, anche se raccontata con delicatezza infantile. Non è stata una mia idea quella di incarnarmi. Come non lo è stata dei miei personaggi. E allora, cosa dovrei fare? Intonare inni? Faccio il possibile, canto qualche canzoncina bislacca tanto per non farmi additare come quello che rovina sempre la festa. La vita non è né bella né brutta: fa quel che può. Ma io non sopporto eccessivamente le improvvisazioni. Ho pensato ai miei protagonisti che diventano qualcos’altro. Ma non mi pare che mi possano dare più soddisfazione. È nell’inciampare la poesia. Nel tremare per ogni svolazzamento.

Lo stile. Al di là delle citazioni – ce n’è di tutti i tipi – nei tuoi romanzi la lingua è semplice, limpida. Eppure io lo so, che riscrivi parecchio, che c’è molto studio, dietro. Quanto ci hai messo per arrivare su questa strada molto personale?

Tanto per darmi un tono, in effetti c’è molto labor limae. Sono un Orazio pelle ed ossa. Le tante influenze si sommano in un’espressione ripulita ma non per questo semplificata. Questo stile è la risultanza delle mie letture, ascolti, incontri, esperienze culturali e non, forse dell’indifferenza che molti aspetti della vita mi procurano. È da anni che scrivo. Ormai un certo ritmo arriva meccanico a depositarsi sulla carta. Avevo lo stesso procedimento nel tradurre le versioni, al liceo. Traducevo come veniva, fino alla fine. E poi stavo lì ad aggiustare, sempre quando ci riuscivo. Credo nel lavoro, nel rifinire, nel ritornare indietro. Sono d’accordo con chi ha detto (e deve essere stato uno importante) che un’opera d’arte non è mai finita. Però ad un certo punto mi dico: basta, adesso smetti di strofinare, prima di arrivare dall’altra parte.

Credi sia l’unica, per te, questa strada? Così come per il genere – a proposito, come definiresti i tuoi libri? – troverò mai un fantasy di Tony Sozzo in libreria?

Credo che questa sia la mia strada, perché questo sono io, è la cosa che mi piace scrivere, perché sarebbe quella che mi piacerebbe leggere. Magari potrò scrivere qualche libro di altro genere, ma con questo stile che mi ritrovo si ricadrebbe nei soliti vizi. Magari un giallo in cui il cadavere rimane solo mentre il protagonista se ne va per i fatti suoi. Di fantasy non se ne parla: è l’unico genere che non sopporto. Tutti quelle bacchette in giro per il mondo! Poi, gli elfi non li preferisco certo ai gatti. Gli altri possono anche andarmi bene. Non posso racchiudere i miei romanzi in un genere: cerco di fare letteratura. Cercando di fare le cose seriamente. Ecco, il concetto di serio mi sta molto a cuore. Scrivo perché devo, senza aspettarmi niente. E per il momento, mi pare proprio, sono accontentato. Tra l’altro, ho una certa incapacità di essere fluido nell’inventare una trama decente. E sono troppo pigro per sforzarmi. Così non invento. Lascio che le cose avvengano nella loro monotonia. Le mie storie non sono eccessivamente movimentate. Come la mia vita, e la vita della maggior parte della gente. Una trama più variegata sarebbe per me sempre e comunque un pretesto per parlare di quello che più mi interessa. E non sarebbe giusto, nei suoi confronti. Si è scomodata così tanto!

Mi interesserebbe molto sapere del tuo rapporto con la lettura (ma anche, perché no, col cinema e con la musica, che tipo di influenze hai, se ne hai di questo tipo).

L’arte è la mia vita, soprattutto la letteratura e la musica. Credo che non si possa scrivere senza conoscere e comprendere bene quello che si è fatto prima. Leggo perché mi piace e per migliorare come scrittore. Secondo me è necessario per scrivere. Ho letto abbastanza, nel corso della mia vita, al di là dei miei studi umanistici. Anche la musica è una compagna di cui non posso fare a meno. Mi piace qualsiasi genere, però di qualità, dal jazz all’elettronica. Dai Beastie Boys a Miles Davis, dai Paviment ai Basement Jaxx, da Sergio Caputo agli Stereolab. L’unico rimpianto è perdere tempo a fare altro, e non poter passare tutto il tempo addosso alla musica e alla lettura. Le mie letture seguono il corso della critica. I libri che scelgo sono rigorosamente dei classici. La vita è troppo breve ed ho bisogno di quello che vale. Se leggo Cervantes o Proust vado sul sicuro, e dopo qualche pagina non comincio a sudare perché ho paura di aver perso tempo. Virginia Woolf, Sartre, Saroyan, Bellow, Svevo, Canetti, Kafka e tutti gli altri. Siamo fortunati noi uomini ad avere scrittori del genere. Magari in qualche altra galassia sono più scarsi. Amo anche i fumetti. Meglio Paperinik di Moccia o qualcuno un po’ più decente. Di cinema so quel po’. L’accostamento Woody Allen e Indiana Jones è quello che mi viene di getto e non capisco come possa accadere.

Torno allo stile per la mia ultima domanda. Ogni periodo dei tuoi libri è isolabile, quasi un aforisma. Credo sia conseguenza di questo la tua abilità nello scrivere status di Facebook. Sono tra i più belli che io abbia mai letto. Lo status di Facebook (o di Twitter) può diventare un genere letterario? Adesso sembra che io sia fissato coi generi, ma è solo per fare il simpatico.

Grazie per il tuo apprezzamento. In questi due romanzi in effetti c’è molto gusto per l’aforisma. È stata una forma che ha preso la mia ispirazione. Ma non potrà essere sempre così. Forse nemmeno è la cosa migliore da fare. Vedremo. Credo nell’arguzia. Ma è un po’ sterile, se c’è solo il gusto fine a se stesso. Forse i miei futuri romanzi saranno meno ricchi di aforismi. Noto che i tanti aforismi scritti in questi miei romanzi non hanno migliorato la mia vita pratica. Il che è un po’ scocciante. Sembra che mi metta a fare il gradasso con quelle frasi così perentorie, e poi sto lì ad aver paura della mattina successiva. I miei status su Facebook sono un esercizio divertente. Ma non più di questo. Magari inseriti all’interno di un romanzo… Li ho sacrificati, mandandoli in avanscoperta.

Una domanda di un tuo lettore. Di un mio amico, insomma, che ti ha letto e si ritrovato in ciò che scrivi. Ami qualcun altro, oltre te stesso? Se non ti va, puoi anche non rispondere.

Da un po’ di mesi ho conosciuto una donna che amo tantissimo. La donna che voglio sposare. E che sposerò. Ho sempre amato molto le opere dei grandi uomini, ma l’amore per l’uomo… Adesso il sentimento verso questa donna mi ha aperto nuovi scenari, e mi ritrovo a far confluire in me altre percezioni senza stare lì a fare troppi controlli. Ho trovato la mia anima gemella e il gusto di fare del bene per vedere nell’altro un sorriso. Adesso per esempio mi verrebbe di scrivere pagine e pagine su di lei, ma credo che andrei fuori traccia. In effetti, l’amore è un sentimento intenso e sorprendente. E talvolta, ti fa fare delle figuracce, se non la smetti di parlare.

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