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sabato 24 ottobre 2009

Vito Antonio Conte torna sul lavoro di Pierluigi Mele "Da qui tutto è lontano" edito da Lupo Editore

“Da qui tutto è lontano” è il primo romanzo di Pierluigi Mele (Lupo Editore) che, al pari di oltre duemila altri libri è ormai altrove: venduti (!?!) in blocco. Ché così io posso (…) ri-cominciare e loro continuano a... girare. L'ho letto tra la fine di luglio e l'inizio di agosto di quest'estate (lunga nonostante il calendario dica ch'è finita). Il libro si presenta molto bene: ottimo formato, buona carta, gran bella copertina (che segue sul risvolto interno e nell'immaginario di chi la guarda, tant'è mediterranea e evocativa l'immagine e quel che le scorre dietro e intorno), titolo da interpretare (che, comunque, mi fa pensare a lei che -un giorno- m'ha detto: la tua presenza è una continua assenza; le ho risposto che la sua assenza è incancellabile presenza...), quasi nessun refuso; poi, la storia... già, la storia. E la scrittura. Ho letto diverse, positive recensioni su questo romanzo. Sulla storia e sulla scrittura. La storia non mi ha entusiasmato particolarmente, ché si potrebbe, senza scomodare altro, dire che bene s'attaglia a questo romanzo il concetto della ciclicità delle vicende umane, siccome ce l'ha rammentato G. B. Vico. E questa citazione, per me che non le amo più di tanto, è già abbastanza. L'ambientazione narrativa ricorda -per un verso- vicende umane e politiche di estrema nostrana attualità, pur essendo esemplarmente circoscritta intorno al nucleo semi-primigenio di un villaggio salentino di qualche tempo addietro, con personaggi strappati alla fantasia che respirano sicuramente di più e meglio di tanti ciarlatani reali, chè ne puoi vedere sgorgare il sangue intanto che ne apprezzi i sentimenti e ne tocchi la (rara) felicità e il (dilagante) dolore. Quel dolore che l'Autore sembra essersi portato dentro a lungo, prima di riuscire a sputarlo e fermarlo nelle parole che, nessuna a caso, si succedono nella meticolosa descrizione di ogni passaggio da un tacquino (invece che da un capitolo o da qualunque altra cosa) all'altro, come se si trattasse di tante fasi esistenziali di un'intera vita giunta a un punto di non ritorno, uno di quei luoghi in cui non puoi far altro che fermarti, accendere una sigaretta, e poi scegliere se tornare indietro piuttosto che saltare nel vuoto, inventandoti una traiettoria tutta tua, ché nessuna via è più segnata. Ché stare non è più dato. Da diverso angolo visuale, quella medesima ambientazione, restituisce qualcosa di questa Terra che non c'è quasi più: un'antica ignorante e ignorata purezza (il predicato ignorare, siccome l'aggettivo sostantivato purezza sono declinati in senso... puro!). Poi, ci sono incursioni gastronomiche e rituali che si stagliano in paesaggi d'incanto, dove lo stupore è reso dalla magia della torre costiera più bella, ché tale è per le rocce, l'incavo naturale, il mare e il santo che la abitano, e per la flora e la fauna che la circondano dappertutto. Cose già viste. Cose già dette. Cose già scritte. Ma, ha ragione Antonio Errico, non come ce le ha consegnate Mele. La vera novità di questo romanzo è la scrittura: ha un respiro (se si può dire) autonomo e indipendente rispetto alla storia narrata: che (se si può dire) il romanzo sembra quasi un pretesto per dire altre cose: la scrittura, appunto! Una scrittura ch'è di per sé un romanzo. Una storia narrata con gli occhi di regista, con la mente di attore e con le parole di poeta, in quel teatro naturale ch'è quel nostro mare d'oriente, da terra a terra, da cielo a cielo, da respiro a respiro. Così m'è arrivata questa scrittura: l'unica che poteva tradurre un largo spaccato di vita vissuta, ampi strali di sostanza onirica e l'essenza del non-essere in vivide immagini che raccontano marginalità d'altre marginalità. Il due agosto scorso, verso sera, ho incrociato Pierluigi Mele (che si recava alla Liberrima per la prima presentazione del libro), gli ho detto in bocca al lupo, mi ha chiesto cosa ne pensavo, gli ho risposto che m'era piaciuto e che mi aveva lasciato una specie di malinconia, che non sapevo definire altrimenti...
Non lo so neanche adesso.

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